Monday 05 May 2014 14:37:41

Giurisprudenza  Giustizia e Affari Interni

Risarcimento dei danni da illecita attività provvedimentale dell’amministrazione: il Consiglio di Stato ribadisce i principi giurisprudenziali consolidati

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 28.4.2014

Nella sentenza in esame il Consiglio di Stato ripercorre i principi elaborati dalla giurisprudenza sia del Consiglio di Stato che della Corte di cassazione in materia di risarcimento del danno da illecita attività provvedimentale dell’amministrazione (cfr. ex plurimis e da ultimo, Cass. civ., sez. III, 22 ottobre 2013, n. 23993; sez. un., 23 marzo 2011, n. 6594; sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576 e 582; Cons. Stato, ad. plen., 19 aprile 2013, n. 7; ad. plen., 23 marzo 2011, n. 3; sez. III, 19 marzo 2014, n. 1357; sez. V, 17 gennaio 2014, n. 183; sez. V, 31 ottobre 2013, n. 5247; sez. V, 21 giugno 2013, n. 3408; sez. III, 30 maggio 2012, n. 3245; sez. IV, 22 maggio 2012, n. 2974; sez. IV, 2 aprile 2012, n. 1957; sez. IV, 31 gennaio 2012, n. 482; cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.), in forza dei quali: a) la qualificazione del danno da illecito provvedimentale rientra nello schema della responsabilità extra contrattuale disciplinata dall’art. 2043 c.c.; conseguentemente, per accedere alla tutela è indispensabile, ancorché non sufficiente, che l’interesse legittimo o il diritto soggettivo sia stato leso da un provvedimento (o da comportamento) illegittimo dell’amministrazione reso nell’esplicazione (o nell’inerzia) di una funzione pubblica e la lesione deve incidere sul bene della vita finale, che funge da sostrato materiale della situazione soggettiva e che non consente di configurare la tutela degli interessi c.d. procedimentali puri, delle mere aspettative, dei ritardi procedimentali, o degli interessi contra ius; b) l’onere di provare la presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito extracontrattuale (condotta, evento, nesso di causalità, antigiuridicità, colpevolezza), grava sulla parte danneggiata che abbia visto riconosciuto l’illegittimo esercizio della funzione pubblica; c) la prova dell’esistenza dell’antigiuridicità del danno deve intervenire all’esito di una verifica del caso concreto che faccia concludere per la sua certezza la quale, a sua volta, presuppone: l’esistenza di una posizione giuridica sostanziale; l’esistenza di una lesione che è configurabile (oltre ché nell’ovvia evidenza fattuale) anche allorquando vi sia una rilevante probabilità di risultato utile frustrata dall’agire (o dall’inerzia) illegittima della p.a.; d) al di fuori del settore degli appalti (governato da autonomi principi sviluppati nel tempo dalla Corte di giustizia UE), in sede di accertamento della colpevolezza nell’esercizio della funzione pubblica, l’acclarata illegittimità del provvedimento amministrativo, integra, ai sensi degli artt. 2727 e 2729, co. 1, c.c., il fatto costitutivo di una presunzione semplice in ordine alla sussistenza della colpa in capo all’amministrazione; ne consegue che spetta a quest’ultima dimostrare la scusabilità dell’errore per la presenza, ad esempio, di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione della norma (o di improvvisi revirement da parte delle Corti supreme), di oscurità oggettiva del quadro normativo (anche a causa della formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore), di rilevante complessità del fatto, della influenza determinante dei comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da successiva declaratoria di incostituzionalità della norma applicata dall’amministrazione; e) ai fini del riscontro del nesso di causalità nell’ambito della responsabilità extra contrattuale da cattivo esercizio della funzione pubblica, si deve muovere dall’applicazione dei principî penalistici, di cui agli art. 40 e 41 c.p., in forza dei quali un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non); il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dall’art. 41, co. 2, c.p., in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto; al contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale; in quest’ottica, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano — ad una valutazione ex ante — del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell’accertamento del nesso causale in materia civile (ed amministrativa), vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del «più probabile che non», mentre nel processo penale vige la regola della prova «oltre il ragionevole dubbio; nello stesso ordine di idee, l’esistenza del nesso di causalità tra una condotta illecita ed un evento di danno può essere affermata dal giudice anche soltanto sulla base di una prova che lo renda probabile, a nulla rilevando che tale prova non sia idonea a garantire un’assoluta certezza al di là di ogni ragionevole: infatti, la disomogenea morfologia e la disarmonica funzione del torto civile rispetto al reato impone, nell’analisi della causalità materiale, l’adozione del criterio della probabilità relativa (anche detto criterio del «più probabile che non»), che si delinea in un’analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo, nella loro irripetibile unicità, con la conseguenza che la concorrenza di cause di diversa incidenza probabilistica deve essere attentamente valutata e valorizzata in ragione della specificità del caso concreto, senza potersi fare meccanico e semplicistico ricorso alla regola del «cinquanta per cento plus unum»; ancora, diffusamente e compiutamente indagati i temi della causalità materiale e giuridica, come pure delle regole dettate per l’individuazione del danno risarcibile si è puntualizzato, da un lato, che la categoria della possibilità non costituisce una (terza) regola causale insieme a quella penalistica dell’alto grado di probabilità logica/conoscenza razionale e a quella civilistica del «più probabile che non», ma individua, puramente e semplicemente, l’oggetto della tutela nella fattispecie della chance: la possibilità, appunto, quale oggetto di tutela (e non quale regola causale o direttamente danno-conseguenza); pertanto, la chance va intesa come possibilità di un risultato diverso (e non come mancato raggiungimento di un risultato possibile), vulnerata dalla condotta causalmente rilevante rispetto all’evento (costituito dal mancato verificarsi di tale migliore possibilità), ma pur sempre e comunque indagata alla stregua del canone probatorio del «più probabile che non»; dall’altro lato, che l’esatta configurazione del problema causale in seno alla responsabilità civile postula che il momento attributivo dell’obbligazione risarcitoria sia consequenziale tanto a quello dell’accertamento dell’illecito che a quello dell’individuazione del danno che, con esso — inteso come violazione dell’interesse protetto (id est come evento di danno) — non sempre coincide; è ulteriore conseguenza di tali principî che, nella comparazione delle diverse concause, ove sufficienti a concorrere a determinare l’evento e senza che una sola assuma con evidenza un’efficacia esclusiva al riguardo, il giudice dovrà valutare quale di esse appaia «più probabile che non» rispetto a ciascuna delle altre a determinare l’evento ed attribuire a quella l’efficacia determinante ai fini della responsabilità; f) il danno – inteso sia come danno evento che come danno conseguenza – e la sua quantificazione devono essere oggetto, da parte dell’attore, di un rigoroso onere allegatorio, potendosi ammettere il ricorso alla prova per presunzioni (praesumptio tantum iuris), solo in relazione ai danni non patrimoniali, comunque dovendosi ripudiare le suggestioni derivanti dalla teorica del c.d. diritto all’integrità patrimoniale in favore del più rigoroso e ben conosciuto metodo sotteso alla Differenzhypothese. 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Testo del Provvedimento (Apri il link)

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale*del 2009, proposto dalla Provincia di Pavia, in persona del presidente pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Valeria Maggiani e Mariarosa Cantarella, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Alfredo Codacci Pisanelli in Roma, via Claudio Monteverdi n. 26; 

contro

Metalli Colombo s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Luca Vianello, Luca Pedrana, Annalise Ghelfi e Pietro Merlini, con domicilio eletto presso il primo in Roma, Lungotevere Marzio n. 1; 

nei confronti di

Regione Lombardia e Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente della Lombardia, non costituiti;

per la riforma

della sentenza del T.a.r. per la Lombardia – Milano - Sezione IV, n. 97 del 16 gennaio 2009.

 

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio della società Metalli Colombo s.r.l.;

Viste le memorie difensive e le pertinenti produzioni documentali depositate dall’appellante (in data 20 e 27 aprile 2012, 28 febbraio e 10 marzo 2014) e dalla appellata (in data 18 giugno 2009, 17 aprile e 2 maggio 2012, 27 febbraio e 10 marzo 2014);

Vista la produzione documentale depositata in vista dell’udienza di discussione, dall’appellante, in data 19 febbraio 2014, e dall’appellata, in data 18 febbraio 2014;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 1 aprile 2014 il consigliere Vito Poli e uditi per le parti gli avvocati Cantarella, Maggiani, Ghelfi e Merlini;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

 

FATTO e DIRITTO

1. L’oggetto del presente giudizio è costituito da una serie di atti con cui la provincia di Pavia ha prima sospeso l’esercizio dell’attività di fusione di rifiuti contenenti rame e stagno svolta dalla società Metalli Colombo s.r.l. (in prosieguo ditta Colombo) in apposito forno all’interno dell’impianto di trattamento e recupero rifiuti ubicato nel comune di Porto Morone, e poi revocato l’autorizzazione all’esercizio dell’impianto, limitatamente all’attività di recupero dei rifiuti mediante il suddetto procedimento di fusione.

1.1. Si tratta in particolare dei seguenti provvedimenti – impugnati in prime cure con due distinti autonomi ricorsi, allibrati ai nn.rr.gg. 3281 del 2004 e 2640 del 2005, corredati da due atti di motivi aggiunti al primo ricorso principale e da domanda di risarcimento del danno -:

a) diffida del dirigente del Servizio rifiuti del Settore tutela e valorizzazione ambientale della provincia di Pavia, in data 12 maggio 2004, al proseguimento dell’attività di fusione di rifiuti sino alla realizzazione degli interventi necessari a ricondurre a norma le emissioni di inquinanti PCDD e PCDF;

b) determina dirigenziale del Servizio rifiuti del Settore tutela e valorizzazione ambientale della provincia di Pavia - prot. n. 26871 del 15 settembre 2004 - recante la proroga della sospensione dell’attività di fusione;

c) rinnovo dell’autorizzazione regionale all’esercizio dell’impianto per il trattamento di rifiuti speciali pericolosi - n. 34 del 5 novembre 2004 - rilasciato dal dirigente provinciale competente, nella parte in cui statuisce che <<resta inteso che l’attività di fusione rimane sospesa, in virtù del provvedimento di diffida prot. n. 26871 del 12/5/2004, notificato in data 18/5/2004, sino a quando i valori limite non verranno ristabiliti in conformità con quanto disposto nell’allegato B della D.G.R. VI/46259 del 12/11/1999>>;

d) nota dirigenziale del Servizio rifiuti del Settore tutela e valorizzazione ambientale della provincia di Pavia – prot. n. 3894 del 13 maggio 2005 – nella parte in cui proroga la sospensione dell’attività di fusione fino al 17 luglio 2005;

e) determina dirigenziale del Settore suolo e rifiuti della provincia di Pavia – prot. n. 25038 del 15 luglio 2005 – recante la revoca dell’autorizzazione n. 34 del 5 novembre 2004 limitatamente all’esercizio dell’attività di recupero mediante fusione.

1.2. Nel corso del giudizio di primo grado è stata disposta la riunione dei due ricorsi introduttivi ed espletata c.t.u. onde stabilire la correttezza dei metodi di prelievo, campionatura e analisi delle emissioni provenienti dal forno di fusione dei rifiuti metallici i cui risultati erano stati via via posti a base di tutti i contestati provvedimenti.

2. L’impugnata sentenza - T.a.r. per la Lombardia – Milano - Sezione IV, n. 97 del 16 gennaio 2009 - che si è diffusamente intrattenuta, con dovizia di argomenti, su tutte le questioni oggetto del giudizio:

a) ha accertato la presenza di numerosi autonomi vizi di legittimità (anche in via derivata), fra i quali assume rilievo dirimente quello – dedotto dalla ditta Colombo nei confronti di tutti i provvedimenti impugnati - incentrato sull’eccesso di potere per travisamento dei fatti e carenza di istruttoria riveniente dalla erronea procedura di campionamento delle emissioni rilasciate dal forno di fusione, procedura effettuata direttamente su incarico della provincia (in relazione al primo ordine di sospensione dell’attività del 12 maggio 2004) e successivamente dall’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente della Lombardia (in prosieguo Arpa) – sedi di Milano e Pavia - (in relazione ai successivi provvedimenti di sospensione e revoca dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività di smaltimento tramite fusione dei rifiuti metallici);

b) in particolare, anche sulla scorta dei dati elaborati dalla c.t.u., ha acclarato che i prelievi delle emissioni sono stati effettuati, in contrasto con le prescrizioni tecniche e normative di settore, mentre il forno non operava a regime, ovvero nei periodi di marcia regolare, ma, al contrario, nelle giornate immediatamente successive alla riattivazione dell’impianto dopo periodi più o meno ampi di fermo;

c) ha annullato tutti gli atti impugnati;

d) ha escluso la responsabilità civile della regione Lombardia e dell’Arpa mentre ha accertato tutti gli elementi costitutivi della responsabilità della provincia (in particolare colpevolezza e nesso di causalità) condannandola al risarcimento del danno;

e) ha individuato i criteri di quantificazione del danno, ai sensi dell’art. 35, d.lgs. n. 80 del 1998 (pagine 29 – 32 della sentenza); tale capo non è stato impugnato ed è coperto dalla forza del giudicato interno;

f) ha condannato la provincia di Pavia alla refusione delle spese di lite e di c.t.u.

3. Con ricorso ritualmente notificato e depositato la provincia di Pavia ha interposto appello avverso la su menzionata sentenza deducendo quanto segue:

a) con il primo mezzo (pagine 12 - 15 dell’atto di appello), afferma la legittimità della scelta di avvalersi direttamente del laboratorio privato “Lab Analysis” e di non affidare l’incarico all’Arpa nonché la congruità dei risultati di tali analisi e la loro coerenza con quanto accertato successivamente dalle analisi effettuate direttamente dall’Arpa;

b) con il secondo mezzo (pagine 15 – 28), si contesta, da un lato, la validità della campionatura di tipo singolo (cioè effettuata attraverso un solo prelievo per una durata correlata all’intero ciclo di emissione) al pari di quella multipla (consistente in 3 autonomi prelievi nell’arco della medesima fase); dall’altro, le conclusioni cui sono giunti il perito ed il T.a.r. circa la necessità che l’impianto dovesse funzionare a regime per potersi avere monitoraggi corretti dei livelli delle emissioni eventualmente inquinanti;

c) con il terzo mezzo (pagine 28 – 32) si critica la statuizione di invalidità derivata pronunciata dal T.a.r., l’omessa considerazione della rilevante situazione di pericolo per la salubrità dell’ambiente derivante dalla continuazione delle attività di fusione con il rilascio di quantitativi di diossina in misura superiore a quella consentita;

d) con il quarto e quinto mezzo (pagine 32 – 33), si lamenta l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha considerato inattendibili le analisi successivamente svolte dall’Arpa;

e) con il sesto mezzo (pagine 33 – 35), da un lato si contesta l’accoglimento del vizio di incompetenza assodato dal T.a.r. in relazione alla revoca in parte qua dell’autorizzazione all’esercizio dell’impianto, dall’altro, si introducono argomenti a sostegno della tesi della scusabilità di eventuali errori commessi dall’amministrazione provinciale;

f) con il settimo mezzo (pagine 35 – 42), si lamenta l’ingiustizia della sentenza nella parte in cui ha attribuito alla esclusiva responsabilità della provincia i danni derivanti alla ditta Colombo dalla sospensione provvisoria e dalla cessazione definitiva dell’attività di fusione; si contesta in particolare: I) che i provvedimenti impugnati siano illegittimi; II) la mancanza di un puntuale accertamento della colpa dell’amministrazione; III) l’erroneo accertamento del nesso causale in relazione alle condotte rilevanti poste in essere dall’Arpa; IV) in ogni caso la scusabilità dell’errore di cui sarebbe rimasta vittima la provincia che si è affidata a soggetti terzi (l’Arpa) muniti di specifica competenza tecnica per effettuare le analisi poste a base degli impugnati provvedimenti.

4. Si è costituita la società Colombo deducendo, in rito, l’irricevibilità dell’appello, nel merito, la sua infondatezza in fatto e diritto.

5. Con ordinanza cautelare di questa Sezione – n. 3251 del 25 giugno 2009 – è stata accolta l’istanza di sospensione degli effetti dell’impugnata sentenza dandosi esclusivo rilievo, nel bilanciamento dei contrapposti interessi, a quello legato alla tutela della salute collettiva.

5.1. Con sentenza non definitiva di questa Sezione – n. 4220 del 25 luglio 2012 -:

a) è stata respinta l’eccezione di irricevibilità del gravame;

b) è stata disposta una nuova c.t.u. onde approfondire i temi di indagine già vagliati dalla consulenza tecnica depositata in prime cure.

5.2. Con ordinanza di questa Sezione – n. 4868 del 13 settembre 2012 -:

a) è stato delimitato l’ambito dell’indagine da affidarsi al c.t.u.;

b) è stata demandata la scelta del perito al rettore dell’Università di Roma “La Sapienza”.

5.3. Individuato il c.t.u. nella persona del prof. Teodoro Valente (cfr. nota del Rettore prot. n. 64903 del 29 ottobre 2012), in data 4 - 5 giugno 2013 (cfr. verbale prot. n. 31281 in pari data), il consigliere delegato all’espletamento dell’incombente istruttorio:

a) ha respinto l’istanza di ricusazione del c.t.u. presentata dalla difesa della ditta Colombo (tale statuizione non è stata successivamente contestata ed è fatta propria dalla presente decisione);

b) ha ricevuto il giuramento del c.t.u.;

c) ha formulato i quesiti, concedendo il termine per il deposito dell’elaborato peritale e disponendo un acconto sulle spese pari ad euro 1.500 da porsi provvisoriamente a carico di entrambe le parti.

6. Con ordinanza di questa Sezione – n. 4726 del 25 settembre 2013 – è stata concessa una proroga del termine per il deposito dell’elaborato peritale (che è avvenuto il successivo 16 ottobre 2013).

7. All’udienza pubblica del 1 aprile 2014, la causa è stata trattenuta in decisione.

8. L’appello è infondato.

9. Preliminarmente il collegio osserva, sulla scorta di consolidati principi giurisprudenziali (cfr. Cons. St., sez. V, n. 398 del 2014; sez. V, n. 1640 del 2012; sez. V, n. 3913 del 2011; sez. V, n. 1925 del 2011, cui si rinvia a mente dell’art. 88, co.2, lett. d), c.p.a.), che:

a) sono inammissibili le produzioni documentali da ultimo depositate dalle parti in questo grado di giudizio perché violative del divieto di nuove prove in appello sancito dall’art. 104, co. 2, c.p.a.; tali documenti, inoltre, non soddisfano neppure il requisito della indispensabilità che ne consentirebbe, in base alla norma da ultimo citata, l’eccezionale rilievo in questo grado di giudizio; inoltre, le osservazioni integrative del c.t.p. della provincia di Pavia alla relazione del perito d’ufficio prof. Valente – redatte in data 24 ottobre 2013 ovvero successivamente all’elaborazione ed al deposito della c.t.u. – sono violative della scansione degli adempimenti che le norme sancite dall’art. 67, co. 3, lett. d) ed e), c.p.a. pongono in capo ai consulenti tecnici di parte che devono consegnare le proprie eventuali osservazioni critiche alla bozza di relazione peritale prima che il consulente d’ufficio rediga la relazione finale (adempimenti che nella specie sono stati osservati, come risulta per tabulas, avendo i c.t.p. inviato le proprie note tecniche al perito d’ufficio in data 4 settembre 2013); in ogni caso, tali osservazioni critiche sono insuscettibili di favorevole esame per tutte le ragioni meglio illustrate al successivo § 10.1.

b) sono del pari inammissibili - perché violative del principio della tempestività e necessaria notificazione dei mezzi di gravame e della natura meramente illustrativa delle comparse conclusionali - le nuove censure di fatto sollevate dalla difesa della provincia di Pavia nelle memorie difensive e di replica depositate in vista dell’udienza di discussione della presente causa;

c) ugualmente inammissibili, infine, sempre per violazione del divieto dei nova in appello sancito dall’art. 104, co. 1, c.p.a., e della natura meramente illustrativa delle comparse conclusionali, si rivelano le nuove doglianze (incentrate sostanzialmente sulla deviazione dell’esercizio della funzione pubblica dalla causa tipica), che la difesa della ditta Colombo ha sviluppato abilmente nelle memorie depositate in vista dell’udienza di discussione della presente causa, per giunta avuto riguardo ad accadimenti successivi alla data di emanazione degli atti impugnati.

10. L’appello della provincia di Pavia è infondato.

Come noto, allorquando una sentenza si fonda su una pluralità di capi autonomi (nel caso in esame ogni capo cassatorio è relativo all’accertamento di un autonomo vizio di legittimità), tutti convergenti verso il medesimo risultato processuale (nella specie l’annullamento degli atti impugnati e la condanna della provincia di Pavia al risarcimento del danno), è sufficiente accertare la resistenza di uno solo di essi ai mezzi di impugnazione per escluderne la riforma (cfr. fra le tante Cons. St., sez. V, 3 maggio 2012, n. 2541); in relazione al giudizio in trattazione, come meglio si vedrà in prosieguo, sono dirimenti i capi della sentenza di primo grado che hanno assodato l’intrinseca inattendibilità di tutti i campionamenti a suo tempo effettuati sull’impianto di fusione.

10.1. Come accennato in precedenza, assume rilevanza centrale la questione concernente il corretto funzionamento dell’impianto al momento dei vari prelievi, via via succedutisi nel tempo, delle emissioni provenienti dal forno di fusione.

Sul punto il collegio non intende discostarsi dalle conclusioni cui è pervenuto il c.t.u. che, immuni da vizi logici ed esaurienti rispetto ai quesiti proposti, il collegio pone a fondamento della decisione.

In sintesi e per quanto di interesse, la c.t.u. – ponendosi per buona parte in linea con le conclusioni cui era pervenuto il c.t.u. nominato dal T.a.r. - ha accertato che:

a) il compendio delle regole tecniche e giuridiche che disciplinavano, ratione temporis, i limiti massimi di inquinanti nonché l’attività di prelievo, campionatura e analisi delle emissioni prodotte dal forno di fusione – in particolare autorizzazione regionale di cui alla D.G.R. n. VI/46259 del 12 novembre 1999; d.P.R. n. 203 del 1988 (artt. 6, co.1, e 8, co. 1 e 2; d.m. n. 124 del 2000; manuale UNICHIM n. 158 del 1988, appendice 2 e 5; metodo UNICHIM n. 825 del 1989; d.m. 12 luglio 1990, artt. 3, co. 14, 4, co. 6; rapporto ISTISAN 91/41 - era univoco nel senso che tali attività dovessero essere svolte, inter alios, solo dopo che il forno di fusione fosse stato messo in condizione di operare a pieno regime;

b) la condizione operativa “a regime” poteva dirsi realizzata solo dopo 30 giorni di funzionamento del forno decorrenti dalla fase di “messa in esercizio”, e che le sospensioni di breve periodo dovute al fine settimana non integravano un fermo tecnico rilevante;

c) tutti i campionamenti posti a base dei provvedimenti impugnati sono inattendibili perché effettuati in violazione della normativa tecnica di riferimento ovvero pochi giorni dopo il riavvio dell’impianto a seguito di consistenti periodi di fermo;

d) l’unico campionamento attendibile, disposto su indicazione della provincia di Pavia e commissionato dalla ditta Colombo al laboratorio Eco Research, è stato effettuato nei giorni 13, 14 e 15 aprile 2005, dopo 36 giorni di funzionamento dell’impianto, ed ha comprovato che le emissioni di PCDD e PCDF erano pienamente nei limiti di legge (inferiori a 0,1ng/m3).

Risulta pertanto evidente il vizio di eccesso di potere per travisamento dei fatti e carenza di istruttoria che affetta tutti i provvedimenti impugnati, come puntualmente lamentato dalla ditta Colombo, nei due ricorsi principali e negli atti di motivi aggiunti di primo grado, ed accertato dall’impugnata sentenza.

10.2. La reiezione dei mezzi di gravame che hanno contrastato l’accertamento del vizio di eccesso di potere per travisamento dei presupposti di fatto e carenza di istruttoria, stante l’inattendibilità di tutti i campionamenti sfavorevoli all’azienda, esime il collegio dall’esaminare i restanti motivi di appello che criticano i capi dell’impugnata sentenza che hanno riscontrato ulteriori vizi di legittimità.

11. Devono essere esaminate le restanti doglianze – poste a base del settimo motivo di appello – con cui si nega la presenza, nel particolare caso di specie, del nesso di causalità (fra condotta ed evento lesivo), nonché della colpa dell’amministrazione.

11.1. Il motivo è infondato.

11.2. Il Collegio non intende decampare dai principi elaborati dalla giurisprudenza di questo Consiglio e della Corte di cassazione in materia di risarcimento del danno da illecita attività provvedimentale dell’amministrazione (cfr. ex plurimis e da ultimo, Cass. civ., sez. III, 22 ottobre 2013, n. 23993; sez. un., 23 marzo 2011, n. 6594; sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576 e 582; Cons. Stato, ad. plen., 19 aprile 2013, n. 7; ad. plen., 23 marzo 2011, n. 3; sez. III, 19 marzo 2014, n. 1357; sez. V, 17 gennaio 2014, n. 183; sez. V, 31 ottobre 2013, n. 5247; sez. V, 21 giugno 2013, n. 3408; sez. III, 30 maggio 2012, n. 3245; sez. IV, 22 maggio 2012, n. 2974; sez. IV, 2 aprile 2012, n. 1957; sez. IV, 31 gennaio 2012, n. 482; cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.), in forza dei quali:

a) la qualificazione del danno da illecito provvedimentale rientra nello schema della responsabilità extra contrattuale disciplinata dall’art. 2043 c.c.; conseguentemente, per accedere alla tutela è indispensabile, ancorché non sufficiente, che l’interesse legittimo o il diritto soggettivo sia stato leso da un provvedimento (o da comportamento) illegittimo dell’amministrazione reso nell’esplicazione (o nell’inerzia) di una funzione pubblica e la lesione deve incidere sul bene della vita finale, che funge da sostrato materiale della situazione soggettiva e che non consente di configurare la tutela degli interessi c.d. procedimentali puri, delle mere aspettative, dei ritardi procedimentali, o degli interessi contra ius;

b) l’onere di provare la presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito extracontrattuale (condotta, evento, nesso di causalità, antigiuridicità, colpevolezza), grava sulla parte danneggiata che abbia visto riconosciuto l’illegittimo esercizio della funzione pubblica;

c) la prova dell’esistenza dell’antigiuridicità del danno deve intervenire all’esito di una verifica del caso concreto che faccia concludere per la sua certezza la quale, a sua volta, presuppone: l’esistenza di una posizione giuridica sostanziale; l’esistenza di una lesione che è configurabile (oltre ché nell’ovvia evidenza fattuale) anche allorquando vi sia una rilevante probabilità di risultato utile frustrata dall’agire (o dall’inerzia) illegittima della p.a.;

d) al di fuori del settore degli appalti (governato da autonomi principi sviluppati nel tempo dalla Corte di giustizia UE), in sede di accertamento della colpevolezza nell’esercizio della funzione pubblica, l’acclarata illegittimità del provvedimento amministrativo, integra, ai sensi degli artt. 2727 e 2729, co. 1, c.c., il fatto costitutivo di una presunzione semplice in ordine alla sussistenza della colpa in capo all’amministrazione; ne consegue che spetta a quest’ultima dimostrare la scusabilità dell’errore per la presenza, ad esempio, di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione della norma (o di improvvisi revirement da parte delle Corti supreme), di oscurità oggettiva del quadro normativo (anche a causa della formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore), di rilevante complessità del fatto, della influenza determinante dei comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da successiva declaratoria di incostituzionalità della norma applicata dall’amministrazione;

e) ai fini del riscontro del nesso di causalità nell’ambito della responsabilità extra contrattuale da cattivo esercizio della funzione pubblica, si deve muovere dall’applicazione dei principî penalistici, di cui agli art. 40 e 41 c.p., in forza dei quali un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non); il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dall’art. 41, co. 2, c.p., in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto; al contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale; in quest’ottica, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano — ad una valutazione ex ante — del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell’accertamento del nesso causale in materia civile (ed amministrativa), vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del «più probabile che non», mentre nel processo penale vige la regola della prova «oltre il ragionevole dubbio; nello stesso ordine di idee, l’esistenza del nesso di causalità tra una condotta illecita ed un evento di danno può essere affermata dal giudice anche soltanto sulla base di una prova che lo renda probabile, a nulla rilevando che tale prova non sia idonea a garantire un’assoluta certezza al di là di ogni ragionevole: infatti, la disomogenea morfologia e la disarmonica funzione del torto civile rispetto al reato impone, nell’analisi della causalità materiale, l’adozione del criterio della probabilità relativa (anche detto criterio del «più probabile che non»), che si delinea in un’analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo, nella loro irripetibile unicità, con la conseguenza che la concorrenza di cause di diversa incidenza probabilistica deve essere attentamente valutata e valorizzata in ragione della specificità del caso concreto, senza potersi fare meccanico e semplicistico ricorso alla regola del «cinquanta per cento plus unum»; ancora, diffusamente e compiutamente indagati i temi della causalità materiale e giuridica, come pure delle regole dettate per l’individuazione del danno risarcibile si è puntualizzato, da un lato, che la categoria della possibilità non costituisce una (terza) regola causale insieme a quella penalistica dell’alto grado di probabilità logica/conoscenza razionale e a quella civilistica del «più probabile che non», ma individua, puramente e semplicemente, l’oggetto della tutela nella fattispecie della chance: la possibilità, appunto, quale oggetto di tutela (e non quale regola causale o direttamente danno-conseguenza); pertanto, lachance va intesa come possibilità di un risultato diverso (e non come mancato raggiungimento di un risultato possibile), vulnerata dalla condotta causalmente rilevante rispetto all’evento (costituito dal mancato verificarsi di tale migliore possibilità), ma pur sempre e comunque indagata alla stregua del canone probatorio del «più probabile che non»; dall’altro lato, che l’esatta configurazione del problema causale in seno alla responsabilità civile postula che il momento attributivo dell’obbligazione risarcitoria sia consequenziale tanto a quello dell’accertamento dell’illecito che a quello dell’individuazione del danno che, con esso — inteso come violazione dell’interesse protetto (id est come evento di danno) — non sempre coincide; è ulteriore conseguenza di tali principî che, nella comparazione delle diverse concause, ove sufficienti a concorrere a determinare l’evento e senza che una sola assuma con evidenza un’efficacia esclusiva al riguardo, il giudice dovrà valutare quale di esse appaia «più probabile che non» rispetto a ciascuna delle altre a determinare l’evento ed attribuire a quella l’efficacia determinante ai fini della responsabilità;

f) il danno – inteso sia come danno evento che come danno conseguenza – e la sua quantificazione devono essere oggetto, da parte dell’attore, di un rigoroso onere allegatorio, potendosi ammettere il ricorso alla prova per presunzioni (praesumptio tantum iuris), solo in relazione ai danni non patrimoniali, comunque dovendosi ripudiare le suggestioni derivanti dalla teorica del c.d. diritto all’integrità patrimoniale in favore del più rigoroso e ben conosciuto metodo sotteso alla Differenzhypothese.

11.3. Facendo applicazione dei su esposti principi al caso di specie la Sezione rileva che:

a) la provincia di Pavia non ha provato la scusabilità dell’errore in cui sarebbe incorsa a cagione della complessità della materia, dell’affidamento ingenerato dalla particolare competenza dell’Arpa, nonché dagli accordi asseritamente intercorsi con la stessa ditta Colombo, atteso che:

I) il compendio delle regole che presiedevano alla campionatura delle emissioni era sufficientemente univoco (come emerso dalla c.t.u. disposta in grado di appello per larga parte conforme a quella effettuata in primo grado);

II) la regione Lombardia - che a suo tempo aveva autorizzato l’esercizio dell’infrastruttura dettando le relative prescrizioni – aveva avvisato chiaramente la provincia che i controlli sulle emissioni andavano effettuati con l’impianto a regime, ovvero almeno a un mese dall’avvio dopo un consistente fermo (cfr. nota prot. n. 03140 del 1 febbraio 2005, versata in atti nel fascicolo di ufficio di primo grado);

III) la stessa provincia di Pavia aveva ben acquisito tale standard operativo al punto da averne sollecitato il rispetto (senza però negligentemente averne verificato l’assolvimento), all’Arpa (cfr. nota prot. n. 3894 del 22 febbraio 2005 versata in atti nel fascicolo di ufficio di primo grado);

IV) non risulta dalla documentazione versata in atti che la ditta Colombo abbia concordato con la provincia di Pavia di derogare al rispetto delle prescrizioni tecniche disciplinanti la campionatura delle emissioni; al contrario, risultano una serie notevole di richieste della ditta Colombo affinché si rispettassero tali prescrizioni; in ogni caso era dovere dell’amministrazione, prima di procedere al fermo dell’impianto (contrastato dalla ditta Colombo anche in via stragiudiziale e preventiva rispetto alla data di emanazione dei provvedimenti impugnati), accertare la conformità dei prelievi alle sopra indicate norme tecniche;

b) è stato puntualmente provato il nesso di causalità fra i provvedimenti impugnati e la cessazione del funzionamento dell’impianto di fusione dei metalli, prima in via interinale e poi definitivamente, che costituisce l’evento lesivo del diritto di iniziativa economica, ovvero del diritto dell’imprenditore ad esercitare l’attività di impresa al ricorrere, come nel caso di specie, di tutti i presupposti di legge; i provvedimenti impugnati si pongono come antecedenti causali diretti del fermo , secondo la regola del più <<probabile che non>>,; senza tali provvedimenti, infatti, pur in presenza di campionature errate da parte dell’Arpa, il fermo non si sarebbe verificato, posto che tale organo non aveva e non ha il potere di disporre dell’interesse pubblico primario coinvolto nel procedimento oggetto del presente giudizio, unitamente a quelli secondari (pubblici e privati che siano); l’incidenza della condotta dell’Arpa, dunque, rileva al più come concausa efficiente, circostanza questa che però, come si vedrà meglio subito appresso, non ostacola la condanna della provincia all’integrale risarcimento del danno in favore della ditta Colombo.

11.4. Per quanto concerne, infine, le critiche della provincia basate sulla erroneità della sentenza nella parte in cui non avrebbe graduato, a titolo di concorso, le responsabilità fra tutti coloro che, a suo dire, avrebbero contribuito alla produzione del fatto dannoso, la Sezione osserva, in una con le norme ed i principi elaborati sul punto dalla giurisprudenza civile (cfr. Cass., sez. un., 15 luglio 2009, n. 16503; sez. III, 22 luglio 2005, n. 15431), che:

a) in contrapposizione all’art. 2043 c.c., che fa sorgere l’obbligo del risarcimento dalla commissione di un «fatto» doloso o colposo, il successivo art. 2055 c.c. considera, ai fini della solidarietà nel risarcimento stesso, il «fatto dannoso», sicché, mentre la prima norma si riferisce all’azione del soggetto che cagiona l’evento, la seconda riguarda la posizione di quello che subisce il danno, ed a cui favore è stabilita la solidarietà; deriva, da quanto precede, che l’unicità del fatto dannoso richiesta dal ricordato art. 2055 per la legittima predicabilità di una responsabilità solidale tra gli autori dell’illecito deve essere intesa in senso non assoluto, ma relativo al danneggiato, ricorrendo, pertanto, tale forma di responsabilità pur se il fatto dannoso sia derivato da più azioni od omissioni, dolose o colpose, costituenti fatti illeciti distinti, ed anche diversi, sempreché le singole azioni od omissioni abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione del danno; in altri termini, per il sorgere della responsabilità solidale dei danneggianti l’art. 2055, co. 1, c.c. richiede solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorché le condotte lesive siano tra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità di ciascuna di tali persone, anche nel caso in cui siano configurabili titoli di responsabilità contrattuale e extracontrattuale, atteso che l’unicità del fatto dannoso considerata dalla norma suddetta deve essere riferita unicamente al danneggiato e non va intesa come identità delle norme giuridiche da essi violate;

b) il debitore condannato, ove non abbia proposto domanda di rivalsa nei confronti del preteso condebitore solidale, non ha alcun interesse ad impugnare la sentenza nella parte in cui esclude la responsabilità di uno o più condebitori, perché essa non aggrava la sua posizione di debitore dell’intero, né pregiudica il suo eventuale diritto di rivalsa.

Facendo applicazione dei su esposti principi al caso di specie, è sufficiente osservare che:

c) l’eventuale riconoscimento del concorso di colpa dell’Arpa o della regione Lombardia non è di ostacolo alla condanna della provincia al risarcimento dell’intero danno patito dalla ditta Colombo;

d) in primo grado la provincia non ha proposto azione di rivalsa nei confronti della regione Lombardia o dell’Arpa, dal che discende l’inammissibilità della relativa censura di appello.

12. Sulla scorta delle rassegnate conclusioni è giocoforza respingere l’appello.

13. Le spese di giudizio, regolamentate secondo l’ordinario criterio della soccombenza, sono liquidate in dispositivo.

14. L’acconto sulle spese - a suo tempo liquidato in favore del c.t.u. nella misura di euro 1.500/00 dall’ordinanza emessa dal consigliere delegato in data 5 giugno 2013 (in parte qua non contestata e fatta propria dal collegio) - è posto a carico della provincia appellante a mente del combinato disposto degli artt. 66, co. 4, e 65, co. 5, c.p.a.

Il collegio prende atto, altresì, che il c.t.u. non ha depositato nel termine perentorio di 100 giorni stabilito dall’art. 71, co. 2, t.u. n. 115 del 2002 - decorrente dal completamento delle operazioni peritali (che può identificarsi nella data di deposito dell’elaborato presso la segreteria di questa sezione avvenuto il 16 ottobre 2013) – la domanda per il pagamento delle relative spettanze (cfr. sul punto specifico, da ultimo e fra le tante, Cons. St., sez. V, 27 gennaio 2014, n. 401, cui si rinvia a mente dell’art. 88, co.2, lett. d), c.p.a.).

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto:

a) respinge l 'appello e, per l'effetto, conferma l’impugnata sentenza;

b) condanna l’appellante a rifondere in favore della società Metalli Colombo s.r.l. gli onorari del presente giudizio che liquida nella misura complessiva di euro 10.000,00 (diecimila/00), oltre accessori come per legge (I.V.A. e C.P.A.);

c) pone definitivamente a carico della parte appellante l’acconto sulle spese liquidato in favore del c.t.u. nella misura di euro 1.500/00.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Manda alla Segreteria per la comunicazione della presente sentenza anche al consulente tecnico d’ufficio.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 1 aprile 2014 con l'intervento dei magistrati:

 

 

Mario Luigi Torsello, Presidente

Vito Poli, Consigliere, Estensore

Fulvio Rocco, Consigliere

Doris Durante, Consigliere

Antonio Bianchi, Consigliere

 

 

 

 

     
     
L'ESTENSORE   IL PRESIDENTE
     
     
     
     
     

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 28/04/2014

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

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