Wednesday 30 April 2014 15:42:42

Provvedimenti Regionali  Patto di Stabliità, Bilancio e Fiscalità

Corte dei Conti: il clamore della stampa fa scattare il risarcimento del danno a carico del funzionario infedele

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza della Corte dei Conti Sez. giurisdizionale per la Regione Lazio del 28.4.2014

La Corte dei Conti Sezione giurisdizionale del Lazio con la sentenza depositata il 28.4.2014 ha condannato un funzionario dell'Agenzia delle Entrate al risarcimento di 250 mila euro. La vicenda e' giunta all'attenzione della Procura Regionale a seguito della trasmissione della sentenza del 14 giugno 2013 con la quale il Tribunale di Roma ha condannato, con sentenza adottata ai sensi dell’articolo 444 c.p.p., il funzionario alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione, con sospensione condizionale della pena e confisca della somma costituente il profitto del reato, per il reato previsto e punito dall’articolo 319 quater c.p., reato commesso in concorso con altre cinque persone, compiutamente individuate nel provvedimento giurisdizionale. La fattispecie illecita ha riguardato l’induzione alla dazione di ingenti somme di denaro per un importo totale di €. 750.000,00, che il funzionario dell’Agenzia delle Entrate, avvalendosi dei suoi poteri, avrebbe ottenuto, unitamente alle altre cinque persone coinvolte, dal legale rappresentante di una società al fine specifico di evitare una verifica fiscale sulla società che lo stesso avrebbe altrimenti paventato come possibile ad effettuarsi con necessità di esborsi di gran lunga più onerosi e consistenti. Con l’espressione danno all’immagine della Pubblica Amministrazione deve intendersi quella grave lesione della dignità, del prestigio e dell’autorevolezza della Pubblica Amministrazione determinata da una condotta che ha inciso su valori primari che ricevono protezione in modo immediato dall’ordinamento costituzionale e da quello finanziario contabile. La giurisprudenza di questa Corte (per citare solo alcune pronunce del Giudice di appello Sezione 1^ nn. 78/2003/A e 340/2003/A, nonché delle Sezioni Riunite n. 10/QM/2003) aveva fissato il quadro di riferimento in cui il danno all’immagine doveva essere compreso: esso rientrava nell'ambito della categoria del “danno patrimoniale ingiusto per violazione di un diritto fondamentale della persona giuridica pubblica”, e si rapportava, quindi, al “danno patrimoniale in senso ampio” ex art. 2043 c.c. in collegamento con l'art. 2 Cost., che “non si correla necessariamente ad un comportamento causativo di un reato” (non rientrando nell'ambito di applicabilità dell'articolo 2059 c.c.), ma poteva ben discendere anche “da un comportamento gravemente illegittimo ovvero gravemente illecito extrapenale”, con la precisazione che non tutti gli atti o comportamenti genericamente illegittimi o illeciti erano causalmente idonei a determinare una menomazione di detta immagine e di detto prestigio, venendo in rilievo - nel giudizio di responsabilità amministrativa contabile - “solo i comportamenti gravemente illegittimi ovvero gravemente illeciti (anche di carattere extrapenale)”, perché idonei - nella loro consistenza fenomenica - a produrre quella “grave perdita del prestigio dell’immagine” e quel “grave detrimento della personalità pubblica”. Per essere risarcibile la violazione del diritto alla personalità doveva superare una soglia minima di gravità che, per quanto già sopra indicato, non era sicuramente segnata dall’esistenza di un reato. Su questa elaborazione giurisprudenziale, è intervenuto il legislatore con la norma contenuta nell’articolo 17, comma 30 ter, del decreto legge n. 78/2009, come convertito in legge n. 102/2009, successivamente modificata dal D.L. 03.08.2009, n. 103, convertito in L. n. 141 del 03.10.2009, che recita: “Le procure della Corte dei conti esercitano l'azione per il risarcimento del danno all'immagine nei soli casi e nei modi previsti dall'articolo 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97“. Quest’ultima norma afferma che “La sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nell'articolo 3 per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale è comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinché promuova entro trenta giorni l'eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato. Resta salvo quanto disposto dall'articolo 129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271”. Alla luce del nuovo quadro normativo, il Collegio non può non sottolineare la tassatività delle ipotesi di perseguibilità del danno all’immagine limitato alle condotte previste dagli articoli dal 314 al 335 bis del c.p., come confermato dal prevalente e consolidato orientamento giurisprudenziale formatosi sulla interpretazione della citata disposizione, soprattutto dopo la pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 355/2010 del 15.12.2010, con la quale il Giudice delle leggi ha individuato la precisa volontà legislativa di limitare la responsabilità per tale fattispecie di danno alla commissione di fatti costituenti i reati previsti dal capo I, titolo II, del libro secondo del codice penale. Nella fattispecie, al convenuto è stato contestato il reato di induzione indebita a dare o promettere utilità, previsto e punito dall’articolo 319 quater del codice penale che recita: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da tre a otto anni. Nei casi previsti dal primo comma, chi dà o promette denaro o altra utilità è punito con la reclusione fino a tre anni”. La Procura ha, quindi, esercitato legittimamente l’azione di responsabilità per danno all’immagine ricadendo la fattispecie in esame proprio in una delle ipotesi normative suindicate. Di contro, la difesa del convenuto ha, da un lato, eccepito che la descrizione del fatto reato contestato al proprio assistito dal Giudice penale sia quello di truffa ai danni del privato e non di induzione indebita, eppertanto non rientrante nelle ipotesi tipiche previste dal legislatore per la perseguibilità del danno all’immagine; dall’altro ha evidenziato la mancanza di un giudicato irrevocabile di condanna, avendo il funzionario chiesto ed ottenuto una sentenza di patteggiamento prevista dall’articolo 444 c.p.p., la quale si caratterizza per essere un provvedimento acceleratorio del processo penale che, però, non contiene nessun accertamento dei fatti con valore di giudicato, né, quindi, alcuna responsabilità potrebbe dirsi accertata irrevocabilmente a carico del convenuto. Il Collegio ha evidenziato come al convenuto è stato contestato il reato previsto dall’articolo 319 quater del c.p. e su questa imputazione è intervenuta la sentenza di patteggiamento divenuta oramai irrevocabile. Non è possibile per la Corte dei Conti configurare la fattispecie criminosa in modo diverso, essendo questo tipo di accertamento riservato al Giudice penale ed essendo oramai cristallizzata la valutazione operata. Per quanto riguarda, invece, la possibilità di utilizzare la sentenza resa su accordo delle parti ex articolo 444 c.p.p. ai fini del promovimento di un’azione di risarcimento per danno all’immagine, osserva il Collegio, che ai fini della ammissibilità della domanda attorea, la sentenza di condanna conseguente alla applicazione della pena su richiesta delle parti è equivalente, in presenza degli altri presupposti di legge, alla “sentenza penale irrevocabile di condanna” resa a seguito di dibattimento richiesta dall’art. 17 comma 30 ter, periodi 2 e 3, della l. 102/2009 di conversione del d.l. n. 78/2009, come successivamente modificata. A parte ogni altra considerazione pure formulabile in sede di interpretazione sistematica dell’istituto, assume portata decisiva l’argomento letterale, e cioè che dopo la recente novella degli artt. 445 e 653 c.p.p. introdotta dalla legge n. 97/2001, la sentenza di patteggiamento è stata parificata alla sentenza penale di condanna sul piano del valore probatorio circa l'effettivo compimento dei fatti costituenti reato (al punto che Cassazione SS.UU. n.17781/06, rilevandone la piena equiparazione, salvo diverse disposizioni di legge, ad una pronuncia di condanna, ha statuito che essa costituisce titolo idoneo per la revoca, a norma dell’art.168, comma 1, n.1 codice penale, della sospensione condizionale della pena precedentemente concessa). In altri termini, anche se il profilo negoziale della sentenza e la conseguente carenza di quella piena valutazione dei fatti e delle prove, caratteristica della pronuncia emessa a seguito dello ordinario svolgimento della fase dibattimentale, impedisce di attribuire alla stessa la natura di decisione di condanna con conseguente vincolatività automatica dell’accertamento dei fatti, gli effetti della stessa sono, però, normativamente regolati con un rinvio alla disciplina propria delle sentenze di condanna alla quale quest’ultima è equiparata per espressa previsione legislativa, il che consente, quindi, di ritenerla utile ai fini del perseguimento del danno all’immagine. (Sez. Lazio n. 1970/2006 come confermata da Sez. II appello n. 531/2013, Sez. Lazio n. 809/2012 ecc.) D’altra parte l’imputato, facendo richiesta di applicazione della pena, allo scopo di avvalersi di una molteplicità di benefici, ha rinunciato ad avvalersi della facoltà di contestare l’accusa, non negando la propria responsabilità e il Giudice penale ha accolto la richiesta laddove, sulla base degli atti acquisiti, ha verificato di non dover pronunciare sentenza di proscioglimento dell’imputato a norma dell’articolo 129 c.p.p.. Nella fattispecie sussiste, poi, il requisito della irrevocabilità richiesto dal citato art. 17, in quanto tutte le sentenze di condanna ex art. 444 c.p.p. sono infatti irrevocabili, e pertanto costituiscono valido presupposto per l’azione del P.M. contabile. In ogni caso, questa Corte, applicando un principio assolutamente pacifico nella propria giurisprudenza, secondo cui il materiale istruttorio versato nel giudizio penale conclusosi con il patteggiamento è pienamente utilizzabile ex articolo 116 c.p.c., al fine di fondare il convincimento del Giudice contabile in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa, ha potuto valutare i fatti come descritti negli atti istruttori depositati al fascicolo processuale. Ebbene, dai medesimi, si desume chiaramente la colpevolezza del convenuto, emergendo la sua partecipazione alla fattispecie criminosa da una serie di elementi, come le dichiarazioni del titolare della società, il riconoscimento desumibile dai rilievi fotografici, i contenuti dell’intercettazione telefonica con altro correo in ordine alla falsa verifica eseguita ai danni del privato, la presenza del funzionario presso l’Agenzia delle Entrate nella qualità appunto di funzionario verificatore che ha indotto il privato a credere nella veridicità della falsa verifica disposta, conferendo il crisma dell’ufficialità all’intera operazione ordita ai suoi danni. Il Collegio ritiene, quindi, che sia stato dimostrato ampiamente la colpevolezza del convenuto, come altrettanto può dirsi per l’illecito arricchimento conseguito pro quota dal medesimo, stante la gravità, precisione e concordanza degli elementi indiziari emergenti dagli atti istruttori depositati. E’ sufficiente sottolineare, tra gli indizi prima evidenziati, la posizione di rilievo rivestita nell’intera vicenda dal convenuto, il quale, nella sua qualità di funzionario dell’Agenzia delle Entrate, avvalendosi dei suoi poteri e avendo a disposizione la struttura entro cui costruire la falsa rappresentazione della realtà, ha indotto in errore il privato cittadino che non ha esitato a versare le cospicue somme di denaro nell’intento di sfuggire ad una verifica fiscale che avrebbe comportato esborsi ben più onerosi rispetto alle somme richieste per insabbiare ogni tipo di accertamento. Il funzionario era sicuramente la persona che garantiva di più il soggetto privato sulla buona riuscita dell’operazione illecita e, quindi, è verosimile ritenere che una quota dell’erogazione di denaro in contanti sia stata versata direttamente nelle sue mani. Per quanto riguarda, poi, la diffusione della notizia presso l’opinione pubblica con la realizzazione della lesione dell’immagine della Pubblica Amministrazione rimasta coinvolta dagli illeciti commessi dal funzionario infedele, questo Collegio, in adesione alla giurisprudenza dominante di questa Corte, ritiene che la diffusione della notizia deve considerarsi fondamentale per l’esistenza stessa del danno all’immagine, poiché costituisce l’unico modo attraverso il quale viene realizzato il nocumento alla reputazione e all’onorabilità dell’ente pubblico per effetto dell’illecito perpetrato da un suo dipendente. Al tempo stesso, osserva, però, che non importa attraverso quale modalità avvenga la diffusione della notizia per le indagini interne della P.A. o quelle di Polizia Giudiziaria (a mezzo stampa, attraverso un comunicato, per effetto della presenza di testimoni al fatto illecito commesso dal dipendente o altro), poiché ciò che conta è, appunto, la prova che tale diffusione vi sia stata e che abbia determinato discredito dell’Ente per l’azione illecita commessa dal dipendente con conseguente perdita di fiducia della cittadinanza nell’operato dell’ente e, più in generale, dell’istituzione pubblica che rappresenta (Sez. Campania nn. 4171 e 686 rispettivamente del 27 dicembre 2007 e del 10 giugno 2009; Sez. Toscana n. 332 del 21 giugno 2012) e di tutto ciò è stata data ampia dimostrazione da parte della Procura. In altri termini, ai fini della sussistenza del danno all’immagine, non è sufficiente la sola esistenza del fatto reato, -c.d. danno evento-, ma si richiede che dal medesimo sia scaturita come, conseguenza diretta, la lesione perpetrata dalla condotta infedele, -cd. danno conseguenza-, da non confondersi con le spese necessarie al suo ripristino ( in tal senso, cfr. SS.RR. n. 1/QM/2011). Nella specie, la descrizione dei fatti come desumibili dall’istruttoria penale depositata fa emergere una particolare spregevolezza e noncuranza nel comportamento del funzionario infedele che non ha esitato ad avvalersi dei suoi poteri per raggiungere il fine illecito del personale arricchimento. Tutto ciò ha determinato una sfiducia nella collettività e una “diminutio” nell’apprezzamento dei consociati sull’agire degli organi preposti alle verifiche fiscali che si pongono come diretta conseguenza della lesione, danno che è risarcibile indipendentemente dal fatto che abbia avuto immediati riflessi economici e, quindi, in modo del tutto sganciato dalle eventuali spese necessarie per il suo ripristino. In ordine, infine, alla quantificazione del danno all’immagine che la giurisprudenza di questa Corte ha da sempre ricollegato a precisi parametri soggettivo, oggettivo e sociale per giungere alla determinazione equitativa dell’importo da porre a carico del funzionario infedele, nella specie soccorre, ora, un criterio legale di determinazione previsto dalla norma contenuta nell’articolo 1, comma sexies, della legge 14 gennaio 1994 n. 20 la quale recita: “Nel giudizio di responsabilità', l'entità del danno all'immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilita' illecitamente percepita dal dipendente.” Tale norma si applica in tutti i giudizi successivi alla sua entrata in vigore e, ciò, a prescindere dalla data in cui sono stati commessi i fatti criminosi; ciò che conta, infatti, non è il tempo in cui si è realizzata la fattispecie criminosa ma il momento in cui, con l’intervenuta irrevocabilità della decisione di condanna, è stato possibile, per il Pubblico ministero contabile, esercitare l’azione di risarcimento del danno all’immagine, momento che si colloca successivamente all’entrata in vigore della legge 190/2012 che ha introdotto nell’ordinamento la norma in questione. Pertanto, sulla base della valutazione presuntiva così esposta, il Collegio ritiene apprezzabile il ristoro per il danno all’immagine richiesto dalla Procura di euro 250.000,00 che ha provveduto a calcolare l’importo tenendo legittimamente conto soltanto della quota di denaro verosimilmente percepita in modo illecito dal convenuto. Sulle somme oggetto della presente condanna devono essere corrisposte la rivalutazione monetaria, decorrente dalla data del fatto dannoso (irrevocabilità della sentenza penale di patteggiamento) al momento del deposito della presente sentenza e gli interessi legali dal momento del deposito della presente sentenza e fino all’effettivo soddisfo.

 

Testo del Provvedimento (Apri il link)

Sent. N*/2014                  REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE DEI CONTI

Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio composta dai seguenti giudici:

dott. Ivan DE MUSSO                                                                           Presidente

dott. ssa Chiara BERSANI                                                                   Consigliere

dott. Stefano PERRI                                                                        Consigliere rel.

            ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di responsabilità iscritto al n.* del registro di segreteria, promosso ad istanza del Procuratore regionale presso la Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio nei confronti di:

* elettivamente domiciliato in Roma Piazza Ungheria n. 6 presso lo studio degli Avvocati Giacomo Satta e Guido M. Pottino che lo rappresentano e lo assistono in giudizio, giusta delega in calce all’atto di citazione;

Visto l’atto introduttivo del giudizio, e tutti gli altri documenti di causa;

Uditi alla pubblica udienza del 3 aprile 2014, con l’assistenza del segretario dott.ssa Daniela Martinelli, il relatore Consigliere dott. Stefano Perri, il Pubblico Ministero nella persona del Vice Procuratore generale Domenico Peccerillo, l’Avvocato Pottino per il convenuto;

Ritenuto in

FATTO

Con atto di citazione depositato in data 18 dicembre 2013, la Procura regionale presso la Sezione giurisdizionale per il Lazio ha convenuto in giudizio il signor * per sentirlo condannare al pagamento in favore dell’erario, ed in particolare del Ministero dell’Economia e delle Finanze – Agenzia delle entrate, della somma di euro 250.000,00, oltre interessi legali, rivalutazione monetaria e spese di giudizio, quale risarcimento del danno all’immagine arrecato per la condotta dolosa tenuta in occasione dello svolgimento delle proprie funzioni istituzionali.

La vicenda, da cui trae origine il presente atto di citazione, è stata conosciuta dall’attore a seguito della trasmissione della sentenza n.* del 14 giugno 2013 con la quale il Tribunale di Roma ha condannato, con sentenza adottata ai sensi dell’articolo 444 c.p.p., il * alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione, con sospensione condizionale della pena e confisca della somma costituente il profitto del reato, per il reato previsto e punito dall’articolo 319 quater c.p., reato commesso in concorso con altre cinque persone, compiutamente individuate nel provvedimento giurisdizionale.

La fattispecie illecita ha riguardato l’induzione alla dazione di ingenti somme di denaro per un importo totale di €. 750.000,00, che il *, nella sua qualità di funzionario dell’Agenzia delle Entrate, avvalendosi dei suoi poteri, avrebbe ottenuto, unitamente alle altre cinque persone coinvolte, dal signor*, legale rappresentante della società di capitali “* di Grottaferrata (RM), al fine specifico di evitare una verifica fiscale sulla società che lo stesso avrebbe altrimenti paventato come possibile ad effettuarsi con necessità di esborsi di gran lunga più onerosi e consistenti.

La Procura regionale ha notificato il prescritto invito a dedurre al pubblico funzionario partecipe della fattispecie criminosa, a fronte del quale sono pervenute controdeduzioni dalla difesa dell’indagato, le quali, però, non sono state ritenute sufficienti ad escludere l’avvio del procedimento di responsabilità.

Nell’atto di citazione, infatti, la Procura, ha ribadito che la sentenza penale derivante dall’accordo delle parti, così come prevista dall’articolo 444 c.p.p., deve essere considerata una vera e propria decisione di condanna, la cui irrevocabilità è insita nel procedimento di adozione, né la mancanza di efficacia nei giudizi civili e amministrativi che pure la norma di cui al comma 1 bis dell’articolo seguente ribadisce, potrebbe giungere ad escludere qualsiasi valutazione dei fatti in essa contenuti da parte di questa Corte.

Per quanto riguarda, poi, l’applicabilità nel presente giudizio della norma contenuta nell’articolo 1, comma sexies, della legge 14 gennaio 1994 n. 20, come introdotta dalla legge n. 190/2012, successiva ai fatti di cui è causa e, per tale motivo, da ritenersi esclusa secondo la difesa, l’attore ha precisato che la stessa norma introduce nell’ordinamento soltanto un criterio di quantificazione del danno all’immagine da utilizzare, salvo prova contraria, per tutti i giudizi in corso nei quali sia stata accertata la percezione da parte dei convenuti di somme di denaro derivante dalla commissione di reati contro la Pubblica Amministrazione.

Anche con riguardo a quest’ultimo elemento della fattispecie che la difesa avrebbe negato in quanto il * non avrebbe lucrato alcuna somma illecita di denaro dall’imprenditore privato, la Procura ha osservato che la qualificazione del fatto come reato previsto dall’articolo 319 quater del codice penale, così come contenuto nella sentenza patteggiata, escluderebbe la possibilità di una qualsiasi altra configurazione, in questa sede, della fattispecie criminosa che la difesa avrebbe dovuto dimostrare impugnando eventualmente il provvedimento del Giudice penale.

Alla stessa stregua, la Procura dissente dalle conclusioni cui è pervenuta la difesa dell’indagato quando ha inteso affermare che il * non avrebbe percepito alcuna somma illecita, il che, in questa sede, non sarebbe possibile dimostrare stante l’intervenuta decisione penale che ha riconosciuto l’esistenza di un concorso di persone nella realizzazione della condotta criminosa, il che comporta la partecipazione paritaria dei concorrenti nell’illecita locupletazione accertata e contestata pro quota all’indagato.

In ordine, infine, alla eco nell’opinione pubblica e alla diffusione giornalistica della notizia che la fattispecie criminosa avrebbe prodotto, anch’essa negata dall’indagato, la Procura ha rappresentato con specifica documentazione versata in atti l’avvenuto clamor fori che avrebbe gettato discredito sulla correttezza dell’operato della Pubblica Amministrazione finanziaria, nonché sull’imparzialità del modus procedendi tipico della funzione di accertamento finanziario.

Con memoria depositata in data 13 marzo 2014, la difesa del convenuto ha riproposto essenzialmente le medesime censure all’atto di citazione già fatte valere in sede di controdeduzioni all’invito a dedurre.

In particolare, è stata ribadita l’assoluta irretroattività della norma contenuta nell’articolo 1, comma sexies, della legge 14 gennaio 1994 n. 20 in quanto norma afflittiva e comportante l’esonero dalla prova dell’entità del danno all’immagine subito dalla Pubblica Amministrazione.

L’esistenza di un danno all’immagine, comunque, non sarebbe stato neppure dimostrato, atteso che i documenti offerti dall’attore si riferirebbero esclusivamente a profili processuali della vicenda che non ha avuto alcuna risonanza sulla stampa nazionale o locale.

La difesa ha ulteriormente precisato l’assoluta incomparabilità di una sentenza derivante dall’accordo delle parti con un intervenuto giudicato irrevocabile di condanna, presupposto indispensabile per la promuovibilità di un’azione di risarcimento per danno all’immagine, ai sensi dell’articolo 17, comma 30 ter, del decreto legge n. 78/2009, convertito in L. n. 102 del 03.08.2009, come modificato dal  D.L. 03.08.2009, n. 103, convertito in L. n. 141 del 03.10.2009, difettando ogni accertamento sia sull’esistenza del reato che sulla responsabilità dell’imputato, condizione confermata dal legislatore che ha escluso che tale provvedimento possa avere efficacia nei giudizi civili ed amministrativi.

Ha contestato la qualificazione del fatto criminoso come operata dal Giudice penale, da ritenersi non vincolante in questa sede, in quanto la condotta criminosa non sarebbe stata rivolta contro una Pubblica Amministrazione, bensì avrebbe avuto come destinatario un soggetto privato, truffato dalla condotta di soggetti che sono riusciti con artifici e raggiri ad ottenere un’indebita dazione di denaro. A tal proposito, la difesa ha affermato che il * non avrebbe percepito alcuna utilità o denaro, come risulterebbe dagli atti dell’istruttoria penale.

Alla pubblica udienza il Rappresentante del Pubblico Ministero ha confermato i contenuti dell’atto di citazione, soffermandosi sul carattere estorsivo della condotta del * che riceveva le persone nel proprio Ufficio, partecipe di un sodalizio criminoso che aveva cura nel selezionare i soggetti più facilmente timorosi di subire accertamenti finanziari e quindi pronti ad erogare somme di denaro come contropartita per l’omissione di qualsiasi tipo di controllo. Ha confermato la richiesta di condanna al risarcimento del danno all’immagine, esibendo nuovamente gli articoli di stampa a riprova dell’avvenuto clamor fori.

La difesa ha respinto gli addebiti contestati, precisando che il * avrebbe accettato il patteggiamento per evitare il peso psicologico derivante dalla celebrazione del processo e affermando nuovamente di non aver lucrato alcuna somma di denaro.

Per il resto ha richiamato gli scritti difensivi, concludendo come in atti.

DIRITTO

Il Collegio deve pronunciarsi sulla richiesta di condanna al risarcimento del danno all’immagine formulata dalla Procura regionale a carico del convenuto.

Con l’espressione danno all’immagine della Pubblica Amministrazione deve intendersi quella grave lesione della dignità, del prestigio e dell’autorevolezza della Pubblica Amministrazione determinata da una condotta che ha inciso su valori primari che ricevono protezione in modo immediato dall’ordinamento costituzionale e da quello finanziario contabile.

La giurisprudenza di questa Corte (per citare solo alcune pronunce del Giudice di appello Sezione 1^ nn. 78/2003/A e 340/2003/A, nonché delle Sezioni Riunite n. 10/QM/2003) aveva fissato il quadro di riferimento in cui il danno all’immagine doveva essere compreso: esso rientrava nell'ambito della categoria del “danno patrimoniale ingiusto per violazione di un diritto fondamentale della persona giuridica pubblica”, e si rapportava, quindi, al “danno patrimoniale in senso ampio” ex art. 2043 c.c. in collegamento con l'art. 2 Cost., che “non si correla necessariamente ad un comportamento causativo di un reato” (non rientrando nell'ambito di applicabilità dell'articolo 2059 c.c.), ma poteva ben discendere anche “da un comportamento gravemente illegittimo ovvero gravemente illecito extrapenale”, con la precisazione che non tutti gli atti o comportamenti genericamente illegittimi o illeciti erano causalmente idonei a determinare una menomazione di detta immagine e di detto prestigio, venendo in rilievo - nel giudizio di responsabilità amministrativa contabile - “solo i comportamenti gravemente illegittimi ovvero gravemente illeciti (anche di carattere extrapenale)”, perché idonei - nella loro consistenza fenomenica - a produrre quella “grave perdita del prestigio dell’immagine” e quel “grave detrimento della personalità pubblica”.

Per essere risarcibile la violazione del diritto alla personalità doveva superare una soglia minima di gravità che, per quanto già sopra indicato, non era sicuramente segnata dall’esistenza di un reato.

Su questa elaborazione giurisprudenziale, è intervenuto il legislatore con la norma contenuta nell’articolo 17, comma 30 ter, del decreto legge n. 78/2009, come convertito in legge n. 102/2009, successivamente modificata dal D.L. 03.08.2009, n. 103, convertito in L. n. 141 del 03.10.2009, che recita:

Le procure della Corte dei conti esercitano l'azione per il risarcimento del danno all'immagine nei soli casi e nei modi previsti dall'articolo 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97“. Quest’ultima norma afferma che “La sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nell'articolo 3 per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale è comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinché promuova entro trenta giorni l'eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato. Resta salvo quanto disposto dall'articolo 129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271”.

Alla luce del nuovo quadro normativo, il Collegio non può non sottolineare la tassatività delle ipotesi di perseguibilità del danno all’immagine limitato alle condotte previste dagli articoli dal 314 al 335 bis del c.p., come confermato dal prevalente e consolidato orientamento giurisprudenziale formatosi sulla interpretazione della citata disposizione, soprattutto dopo la pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 355/2010 del 15.12.2010, con la quale il Giudice delle leggi ha individuato la precisa volontà legislativa di limitare la responsabilità per tale fattispecie di danno alla commissione di fatti costituenti i reati previsti dal capo I, titolo II, del libro secondo del codice penale.

Nella fattispecie, al convenuto è stato contestato il reato di induzione indebita a dare o promettere utilità, previsto e punito dall’articolo 319 quater del codice penale che recita: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da tre a otto anni. Nei casi previsti dal primo comma, chi dà o promette denaro o altra utilità è punito con la reclusione fino a tre anni”.

La Procura ha, quindi, esercitato legittimamente l’azione di responsabilità per danno all’immagine ricadendo la fattispecie in esame proprio in una delle ipotesi normative suindicate.

Di contro, la difesa del convenuto ha, da un lato, eccepito che la descrizione del fatto reato contestato al proprio assistito dal Giudice penale sia quello di truffa ai danni del privato e non di induzione indebita, eppertanto non rientrante nelle ipotesi tipiche previste dal legislatore per la perseguibilità del danno all’immagine; dall’altro ha evidenziato la mancanza di un giudicato irrevocabile di condanna, avendo il * chiesto ed ottenuto una sentenza di patteggiamento prevista dall’articolo 444 c.p.p., la quale si caratterizza per essere un provvedimento acceleratorio del processo penale che, però, non contiene nessun accertamento dei fatti con valore di giudicato, né, quindi, alcuna responsabilità potrebbe dirsi accertata irrevocabilmente a carico del convenuto.

Ritiene il Collegio che la posizione difensiva sia infondata e debba essere respinta integralmente.

Innanzi tutto al convenuto è stato precisamente contestato il reato previsto dall’articolo 319 quater del c.p. e su questa imputazione è intervenuta la sentenza di patteggiamento divenuta oramai irrevocabile. Non è possibile per questo Giudice configurare la fattispecie criminosa in modo diverso, essendo questo tipo di accertamento riservato al Giudice penale ed essendo oramai cristallizzata la valutazione operata.

Per quanto riguarda, invece, la possibilità di utilizzare la sentenza resa su accordo delle parti ex articolo 444 c.p.p. ai fini del promovimento di un’azione di risarcimento per danno all’immagine, osserva il Collegio, che ai fini della ammissibilità della domanda attorea, la sentenza di condanna conseguente alla applicazione della pena su richiesta delle parti è equivalente, in presenza degli altri presupposti di legge, alla “sentenza penale irrevocabile di condanna” resa a seguito di dibattimento richiesta dall’art. 17 comma 30 ter, periodi 2 e 3, della l. 102/2009 di conversione del d.l. n. 78/2009, come successivamente modificata.

A parte ogni altra considerazione pure formulabile in sede di interpretazione sistematica dell’istituto, assume portata decisiva l’argomento letterale, e cioè che dopo la recente novella degli artt. 445 e 653 c.p.p. introdotta dalla legge n. 97/2001, la sentenza di patteggiamento è stata parificata alla sentenza penale di condanna sul piano del valore probatorio circa l'effettivo compimento dei fatti costituenti reato (al punto che Cassazione SS.UU. n.17781/06, rilevandone la piena equiparazione, salvo diverse disposizioni di legge, ad una pronuncia di condanna, ha statuito che essa costituisce titolo idoneo per la revoca, a norma dell’art.168, comma 1, n.1 codice penale, della sospensione condizionale della pena precedentemente concessa).

In altri termini, anche se il profilo negoziale della sentenza e la conseguente carenza di quella piena valutazione dei fatti e delle prove, caratteristica della pronuncia emessa a seguito dello ordinario svolgimento della fase dibattimentale, impedisce di attribuire alla stessa la natura di decisione di condanna con conseguente vincolatività automatica dell’accertamento dei fatti, gli effetti della stessa sono, però, normativamente regolati con un rinvio alla disciplina propria delle sentenze di condanna alla quale quest’ultima è equiparata per espressa previsione legislativa, il che consente, quindi, di ritenerla utile ai fini del perseguimento del danno all’immagine. (Sez. Lazio n. 1970/2006 come confermata da Sez. II appello n. 531/2013, Sez. Lazio n. 809/2012 ecc.)

D’altra parte l’imputato, facendo richiesta di applicazione della pena, allo scopo di avvalersi di una molteplicità di benefici, ha rinunciato ad avvalersi della facoltà di contestare l’accusa, non negando la propria responsabilità e il Giudice penale ha accolto la richiesta laddove, sulla base degli atti acquisiti, ha verificato di non dover pronunciare sentenza di proscioglimento dell’imputato a norma dell’articolo 129 c.p.p..

Nella fattispecie sussiste, poi, il requisito della irrevocabilità richiesto dal citato art. 17, in quanto tutte le sentenze di condanna ex art. 444 c.p.p. sono infatti irrevocabili, e pertanto costituiscono valido presupposto per l’azione del P.M. contabile.

In ogni caso, questa Corte, applicando un principio assolutamente pacifico nella propria giurisprudenza, secondo cui il materiale istruttorio versato nel giudizio penale conclusosi con il patteggiamento è pienamente utilizzabile ex articolo 116 c.p.c., al fine di fondare il convincimento del Giudice contabile in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa,  ha potuto valutare i fatti come descritti negli atti istruttori depositati al fascicolo processuale.

Ebbene, dai medesimi, si desume chiaramente la colpevolezza del convenuto, emergendo la sua partecipazione alla fattispecie criminosa da una serie di elementi, come le dichiarazioni del titolare della società*, il riconoscimento desumibile dai rilievi fotografici, i contenuti dell’intercettazione telefonica con altro correo * in ordine alla falsa verifica eseguita ai danni del privato, la presenza del * presso l’Agenzia delle Entrate nella qualità di funzionario verificatore che ha indotto il privato a credere nella veridicità della falsa verifica disposta, conferendo il crisma dell’ufficialità all’intera operazione ordita ai suoi danni.

Il Collegio ritiene, quindi, che sia stato dimostrato ampiamente la colpevolezza del convenuto, come altrettanto può dirsi per l’illecito arricchimento conseguito pro quota dal medesimo, stante la gravità, precisione e concordanza degli elementi indiziari emergenti dagli atti istruttori depositati. E’ sufficiente sottolineare, tra gli indizi prima evidenziati, la posizione di rilievo rivestita nell’intera vicenda dal convenuto, il quale, nella sua qualità di funzionario dell’Agenzia delle Entrate, avvalendosi dei suoi poteri e avendo a disposizione la struttura entro cui costruire la falsa rappresentazione della realtà, ha indotto in errore il privato cittadino che non ha esitato a versare le cospicue somme di denaro nell’intento di sfuggire ad una verifica fiscale che avrebbe comportato esborsi ben più onerosi rispetto alle somme richieste per insabbiare ogni tipo di accertamento. Il * era sicuramente la persona che garantiva di più il soggetto privato sulla buona riuscita dell’operazione illecita e, quindi, è verosimile ritenere che una quota dell’erogazione di denaro in contanti sia stata versata direttamente nelle sue mani.

Per quanto riguarda, poi, la diffusione della notizia presso l’opinione pubblica con la realizzazione della lesione dell’immagine della Pubblica Amministrazione rimasta coinvolta dagli illeciti commessi dal funzionario infedele, questo Collegio, in adesione alla giurisprudenza dominante di questa Corte, ritiene che la diffusione della notizia deve considerarsi fondamentale per l’esistenza stessa del danno all’immagine, poiché costituisce l’unico modo attraverso il quale viene realizzato il nocumento alla reputazione e all’onorabilità dell’ente pubblico per effetto dell’illecito perpetrato da un suo dipendente.

Al tempo stesso, osserva, però, che non importa attraverso quale modalità avvenga la diffusione della notizia per le indagini interne della P.A. o quelle di Polizia Giudiziaria (a mezzo stampa, attraverso un comunicato, per effetto della presenza di testimoni al fatto illecito commesso dal dipendente o altro), poiché ciò che conta è, appunto, la prova che tale diffusione vi sia stata e che abbia determinato discredito dell’Ente per l’azione illecita commessa dal dipendente con conseguente perdita di fiducia della cittadinanza nell’operato dell’ente e, più in generale, dell’istituzione pubblica che rappresenta (Sez. Campania nn. 4171 e 686 rispettivamente del 27 dicembre 2007 e del 10 giugno 2009; Sez. Toscana n. 332 del 21 giugno 2012) e di tutto ciò è stata data ampia dimostrazione da parte della Procura.

In altri termini, ai fini della sussistenza del danno all’immagine, non è sufficiente la sola esistenza del fatto reato, -c.d. danno evento-,  ma si richiede che dal medesimo sia scaturita come, conseguenza diretta, la lesione perpetrata dalla condotta infedele, -cd. danno conseguenza-, da non confondersi con le spese necessarie al suo ripristino ( in tal senso, cfr. SS.RR. n. 1/QM/2011).

Nella specie, la descrizione dei fatti come desumibili dall’istruttoria penale depositata fa emergere una particolare spregevolezza e noncuranza nel comportamento del funzionario infedele che non ha esitato ad avvalersi dei suoi poteri per raggiungere il fine illecito del personale arricchimento. Tutto ciò ha determinato una sfiducia nella collettività e una “diminutio” nell’apprezzamento dei consociati sull’agire degli organi preposti alle verifiche fiscali che si pongono come diretta conseguenza della lesione, danno che è risarcibile indipendentemente dal fatto che abbia avuto immediati riflessi economici e, quindi, in modo del tutto sganciato dalle eventuali spese necessarie per il suo ripristino.

In ordine, infine, alla quantificazione del danno all’immagine che la giurisprudenza di questa Corte ha da sempre ricollegato a precisi parametri soggettivo, oggettivo e sociale per giungere alla determinazione equitativa dell’importo da porre a carico del funzionario infedele, nella specie soccorre, ora, un criterio legale di determinazione previsto dalla norma contenuta nell’articolo 1, comma sexies, della legge 14 gennaio 1994 n. 20 la quale recita: “Nel giudizio di responsabilità', l'entità del danno all'immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilita' illecitamente percepita dal dipendente.”

Tale norma, contrariamente a quanto prospettato dalla difesa del *, si applica in tutti i giudizi successivi alla sua entrata in vigore e, ciò, a prescindere dalla data in cui sono stati commessi i fatti criminosi; ciò che conta, infatti, non è il tempo in cui si è realizzata la fattispecie criminosa ma il momento in cui, con l’intervenuta irrevocabilità della decisione di condanna, è stato possibile, per il Pubblico ministero contabile, esercitare l’azione di risarcimento del danno all’immagine, momento che si colloca successivamente all’entrata in vigore della legge 190/2012 che ha introdotto nell’ordinamento la norma in questione.

Pertanto, sulla base della valutazione presuntiva così esposta, il Collegio ritiene apprezzabile il ristoro per il danno all’immagine richiesto dalla Procura che ha provveduto a calcolare l’importo tenendo legittimamente conto soltanto della quota di denaro verosimilmente percepita in modo illecito dal convenuto *.

Sulle somme oggetto della presente condanna devono essere corrisposte la rivalutazione monetaria, decorrente dalla data del fatto dannoso (irrevocabilità della sentenza penale di patteggiamento) al momento del deposito della presente sentenza e gli interessi legali dal momento del deposito della presente sentenza e fino all’effettivo soddisfo.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza.

PQM.

La Sezione giurisdizionale per il Lazio, definitivamente pronunciando,

CONDANNA

 il signor * al pagamento in favore dell’erario e, in particolare dell’Agenzia delle Entrate, della somma di euro 250.000,00, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali come in motivazione.

Le spese di giudizio poste a carico del signor D’Addario si liquidano in euro 352,28 (trecentocinquantadue/28).

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 3 aprile 2014

L’estensore                                                                              Il Presidente.

F.to Stefano Perri                                                                    F.to Ivan De Musso

Deposito del 28/04/2014

P. IL DIRIGENTE

IL RESPONSABILE DEL SETTORE

GIUDIZI DI RESPONSABILITA’

F.to Luigi DE MAIO

 

 

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