Monday 31 March 2014 14:14:54

Giurisprudenza  Uso del Territorio: Urbanistica, Ambiente e Paesaggio

Compiti del commissario ad acta: il Consiglio di Stato affronta i nodi irrisolti dell’ottemperanza alle sentenze restitutorie di aree occupate e utilizzate dalla pubblica amministrazione a seguito di procedure espropriative divenute illegittime

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

Il reclamo proposto offre il destro alla Quarta Sezione del Consiglio di Stato di affrontare alcuni nodi irrisolti sul tema dell’ottemperanza alle sentenze restitutorie in materia di aree occupate e utilizzate dalla pubblica amministrazione a seguito di procedure espropriative divenute illegittime.1. Il primo tema riguarda i compiti del commissario ad acta, messi a confronto con le ordinarie attribuzioni dell’amministrazione e con le residue attribuzioni a questa spettanti. La vicenda scaturisce dalla circostanza che il commissario, insediandosi, ha nominato un responsabile del procedimento per lo svolgimento degli atti necessari alla restituzione delle aree, richiamandosi espressamente alla disciplina generale del procedimento amministrativo e ritenendo, in tal modo, di essere rimasto nelle proprie competenze.Ritiene la Sezione che la questione debba essere scrutinata tenendo presente la struttura bifasica di tale vicenda, dove si assiste all’intersecarsi di due procedure, quella processuale dell’ottemperanza al giudicato e quella procedimentale di svolgimento dell’ordinaria funzione amministrativa, che si pongono su piani diversi, astrattamente non incompatibili, ma in concreto spesso contrastanti.Va immediatamente evidenziato come la disciplina del codice del processo amministrativo, chiarendo il ruolo del commissario ad acta, ha espressamente precisato che questi è un ausiliario del giudice, nominato al fine esplicito di sostituire l’amministrazione (art. 21 dove si legge che il giudice “se deve sostituirsi all'amministrazione, può nominare come proprio ausiliario un commissario ad acta”). Ne discende che la fattispecie dell’esecuzione tramite commissario risulta costruita in modo del tutto differenziato da quella dell’esecuzione tramite la riedizione del potere amministrativo, essendo diversi il potere esercitato (nel primo caso, discendente dalla sentenza e limitato temporalmente dall’actio iudicati; nel secondo, derivante dalle attribuzioni normative dell’ente e tendenzialmente immanente), il soggetto titolare (nel primo caso, l’ausiliario del giudice come regolato nel codice del processo amministrativo; nel secondo, il responsabile secondo la legge sul procedimento) e il regime degli atti adottati (nel primo caso, disciplinato dal codice anche nei suoi profili impugnatori; nel secondo, dalla normativa generale). Insomma, due ordini operativi e normativi del tutto distinti.In linea teorica è quindi del tutto concepibile che, in una fattispecie di esecuzione, si trovino ad agire sia il commissario ad acta sia il responsabile del procedimento, trattandosi di due figure che rilevano in ambiti ontologicamente differenti. Tuttavia, quando dall’astratta compatibilità, si ricada in situazioni in cui i provvedimenti assunti siano tra loro contrastanti, è evidente che dovrà prevalere l’azione del commissario che, come espressamente afferma il codice del processo amministrativo, sostituisce, e quindi esautora, l’amministrazione nell’adozione degli atti in concreto.Il chiarimento sulla diversa portata dei compiti dei soggetti agenti e sulle ipotetiche reciproche interferenze delle discipline processuale e procedimentale deve essere ora riversata nella fattispecie oggetto di esame.Venendo allora al primo tema, le osservazioni svolte portano a escludere che sia compito del commissario ad acta insediato quello di procedere a nominare un responsabile del procedimento amministrativo. Infatti, in quanto ausiliario del giudice, il commissario ha egli stesso il dovere di provvedere (come dice l’art. 21, è il commissario il sostituto dell’amministrazione, e non l’amministrazione il sostituto di se stessa) e quindi non ha il potere di ulteriormente subdelegare, se non autorizzato dal giudice stesso, visto che la fonte del potere esercitato deriva unicamente dalla sentenza o dall’atto di nomina, ossia dal complesso normativo del processo e non dal piano disciplinare della legge n. 241 del 1990. Tale inquadramento, oltre a rendere del tutto irrilevante la valutazione della censura proposta sulla mancata partecipazione al procedimento da parte dell’interessato, che non ha fondamento in relazione alla natura giurisdizionale dell’azione del commissario, rende palese come la nomina operata dal commissario ad acta di un responsabile del procedimento appaia illegittima in sé, perché data in assenza di una formale attribuzione.Delle possibili conseguenze di tale illegittimità ne vanno qui esaminate solo due.In ordine al regime degli atti del responsabile del procedimento, appare arduo far discendere automaticamente dall’illegittimità della nomina anche l’illegittimità derivata di tutti i provvedimenti assunti. Deve, infatti, ricordarsi che il responsabile del procedimento è figura generale dell’azione amministrativa, per cui il Comune avrebbe comunque dovuto nominarlo per procedere alla restituzione dell’area, originariamente disposta dalla sentenza di cognizione di questa Sezione. Pertanto, sebbene la detta nomina si sia avuta in assenza di un’effettiva autorizzazione, essa ha comunque trovato sede nell’ambito del canone ordinario di azione dell’amministrazione, così impedendo che gli atti compiuti dal responsabile del procedimento possano considerarsi ex se invalidi per il solo anomalo modus procedendi. Qualora la nomina non sia contestata sotto altri profili (e in specie sotto quelli che riguardano l’idoneità soggettiva del nominato responsabile), deve valorizzarsi il profilo d’imputazione diretta degli atti all’amministrazione, rendendo quindi recessivo il profilo delle modalità di scelta. L’eventuale invalidità degli atti compiuti dovrà pertanto fondarsi su una loro connotazione patologica oggettiva, e non sic et simpliciter dalla circostanza che la nomina sia stata fatta dal commissario.In ordine all’operato del commissario, deve evidenziarsi come la conseguenza giuridica di questa iniziativa si collochi su un piano diverso da quello dell’invalidità degli atti e attenga al riconoscimento del compenso spettante, poiché il commissario, essendosi avvalso senza autorizzazione di ausiliari, non potrà essere retribuito per mansioni effettivamente svolte da terzi.1.2. - Il secondo tema da valutare attiene all’avvenuta interruzione del procedimento di cui all’art. 42 bis del testo unico sull’espropriazione, interruzione causata proprio dall’insediamento del commissario ad acta. Deve cioè valutarsi se nel caso in esame l’amministrazione avrebbe potuto legittimamente continuare o meno nella procedura di acquisizione.Osserva la Sezione, riprendendo le osservazioni in merito alla differenza del piano processuale rispetto a quello procedimentale, che la detta interruzione non avesse alcuna ragione d’essere, ben potendo il Comune continuare nel peculiare procedimento ivi disciplinato.A tal fine va osservato come si sia oramai consolidato l’insegnamento per cui l’ente pubblico possa procedere al recupero della legittimità violata secondo una serie di scansioni derivanti dall’ordinamento, ben note al Comune di Olbia, parte del procedimento da cui è scaturita la sentenza n. 4970 del 2 settembre 2011 di questa Sezione dove si legge: “l'amministrazione può legittimamente apprendere il bene facendo uso unicamente dei due strumenti tipici, ossia il contratto, tramite l'acquisizione del consenso della controparte, o il provvedimento, e quindi anche in assenza di consenso ma tramite la riedizione del procedimento espropriativo con le sue garanzie. L'illecita occupazione, e quindi il fatto lesivo, permangono quindi fino al momento della realizzazione di una delle due fattispecie legalmente idonee all'acquisto della proprietà, indifferentemente dal fatto che questo evento avvenga consensualmente o autoritativamente. A questi due strumenti va altresì aggiunto il possibile ricorso al procedimento espropriativo semplificato, già previsto dall'art. 43 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 "Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità" ed ora, successivamente alla sentenza della Corte costituzionale, 8 ottobre 2010, n. 293, che ne ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, nuovamente regolamentato all'art. 42 bis dello stesso testo, come introdotto dall'articolo 34, comma 1, del D.L. 6 luglio 2011 n. 98 "Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria", convertito in legge 15 luglio 2011 n. 111”.In questo ventaglio di opportunità, si collocano le diverse possibilità offerte al commissario ad acta e alla stessa amministrazione, le cui attribuzioni vanno qui esaminate, in particolare vagliando la possibilità che sia l’ausiliario del giudice, in sostituzione dell’ente pubblico, a poter provvedere a norma dell’art. 42 bis. La Sezione non ignora come sia rinvenibile in giurisprudenza un orientamento che addirittura impone al commissario ad acta di attivarsi in tal senso (Consiglio di Stato, sez. VI, 1 dicembre 2011, n. 6351), ma intende evidenziare le ragioni che fanno apparire impraticabile tale soluzione, sulla scorta di una ricostruzione istituzionale dei poteri del giudice in merito.Infatti, se è vero che, in sede di ottemperanza, il giudice amministrativo può sostituire l’amministrazione anche nelle scelte che toccano il merito dell’azione, è anche vero che il giudizio di ottemperanza altro non è che il portato esecutivo del giudizio di cognizione. Quindi, se è pacifico che il giudice dell’ottemperanza è vincolato dal contenuto della sentenza da eseguire, è del pari evidente che la sentenza di cognizione ottemperanda è a sua volta legata ai limiti dati dalla domanda proposta dalla parte in sede di ricorso introduttivo. Si tratta cioè di un rapporto di successiva delimitazione e progressiva messa a fuoco, dal quale non si può prescindere se non dimenticando le interconnessioni tra i vari momenti del processo.Trasponendo tali lineari considerazioni nel caso concreto dell’esecuzione di sentenza di annullamento di una procedura espropriativa, si è di fronte ad una vicenda così riassumibile: la domanda posta è una domanda demolitoria degli atti espropriativi; l’accoglimento della domanda, cui consegue l’annullamento della procedura e il contestuale riconoscimento della mancata acquisizione alla mano pubblica della proprietà, comporta l’obbligo della restituzione del bene illegittimamente sottratto; stante l’inerzia dell’amministrazione, il giudice dell’ottemperanza deve muoversi con i poteri di merito e nell’ambito dei limiti della domanda proposta e accolta.Appare quindi arduo immaginare che, di fronte alla domanda introdotta in giudizio e ivi considerata fondata, ossia alla domanda di declaratoria d’illegittimità della procedura espropriativa, il giudice dell’ottemperanza, chiamato dal ricorrente insoddisfatto a conseguire quanto ha diritto, decida nel senso di ordinare all’amministrazione di provvedere ex art. 42 bis. Si assisterebbe alla singolare situazione per cui lo stesso giudice, che in sede di cognizione ha ritenuto che il bene dovesse essere restituito al legittimo proprietario, in sede di ottemperanza ordinerà invece all’amministrazione di impossessarsi dello stesso bene, anzi addirittura la sostituirà, mandando un suo ausiliario a mettere in atto tale proposito.Un tale anomalo esito, della cui coerenza con l’art. 24 della Costituzione è lecito dubitare, può essere invece superato se si tiene presente che l’unico obbligo scaturente dalla sentenza è quello di restituzione del bene, mentre le altre opzioni (come esaurientemente indicate nella citata sentenza n. 4970 del 2 settembre 2011) sono rimesse alle scelte dell’amministrazione, visto che si pongono su un piano diverso da quello dell’esecuzione del giudicato (in questo senso, Consiglio di Stato, IV, 30 settembre 2013, n. 4868).La Sezione non ignora che, a seguito delle modifiche intervenute in tema di quantificazione delle indennità e dei risarcimenti spettanti a seguito di procedure espropriative illegittime, gli interessi economici delle parti possano seguire percorsi diversi da quelli immaginati originariamente dal legislatore, tanto da far ritenere vantaggioso per gli espropriati il ricorso alla procedura di cui all’art. 42 bis, ma proprio la maggiore incidenza economica di tale provvedimento impone che sia lasciata all’amministrazione la ponderazione comparativa delle alternative disponibili (e seppure non potendo non sottolineare come, nel caso in esame, la sproporzione tra la prima determinazione del valore venale considerato nella perizia depositata il 23 settembre 2005 – pari a €. 350 al mq - e quella proposta con l’atto di avvio del procedimento di acquisizione sanante – oscillante tra le somme di €. 156,94 e €. 104,63 al mq – non abbia certo favorito la soluzione della controversia).Pertanto, tirando le fila del discorso, il commissario ad acta ha il compito di restituire, nella sua materialità, il bene appreso, mentre spetta all’amministrazione valutare le ulteriori ipotesi di riconduzione a diritto della fattispecie illegittima, con lo strumento consensuale contrattuale come pure con lo strumento autoritativo, ambito in cui si colloca il procedimento accelerato di cui all’art. 42 bis. Appare pertanto del tutto non condivisibile l’operato del commissario ad acta e quello dell’amministrazione che hanno interrotto, basandosi sul mero fatto dell’insediamento dell’ausiliario del giudice, il diverso procedimento di acquisizione sanante, ossia di una tipologia di azione amministrativa non intaccata dal giudicato formatosi. Per continuare nella lettura della sentenza cliccare su "Accedi al provvedimento".

 

Testo del Provvedimento (Apri il link)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

 

sul reclamo avverso gli atti del commissario ad acta nominato nel ricorso in ottemperanza n. 2515 del 2011, proposto da

Antonio Martino Lupacciolu, rappresentato e difeso dagli avv.ti Giovanni M. Lauro, Anna Ingianni e Francesco Asciano, ed elettivamente domiciliato presso quest’ultimo in Roma, via Bazzoni n. 1, come da mandato a margine del ricorso introduttivo;

 

contro

Comune di Olbia, in persona del sindaco legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Emanuela Traina e Sabrina Serusi, ed elettivamente domiciliato, unitamente ai difensori, presso l’avv. Andrea Manzi in Roma, via Federico Confalonieri n. 5, come da mandato in calce alla comparsa di costituzione e risposta;

per l’esecuzione

della decisione del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, n. 8650 del 9 dicembre 2010;

 

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Olbia;

Viste le memorie difensive;

Visto l 'art. 114 cod. proc. amm.;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 12 novembre 2013 il Cons. Diego Sabatino e uditi per le parti gli avvocati, come da verbale d’udienza;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

 

FATTO

Con reclamo avverso gli atti del commissario ad acta nominato nel ricorso iscritto al n. 2515 del 2011, Antonio Martino Lupacciolu propone giudizio per l’ottemperanza alla decisione del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, n. 8650 del 9 dicembre 2010 con la quale è stato accolto l’appello proposto contro la sentenza del T.A.R. della Sardegna, n. 236 del 2004.

La sentenza ottemperanda ha riformato la sentenza di primo grado con la quale il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna aveva accolto solo in parte il ricorso in primo grado proposto dall’odierno ricorrente per l'annullamento:

1) del decreto di occupazione d’urgenza n. 4/03 del 30/09/2003, notificato alla parte ricorrente in data 6/10/2003 unitamente all’avviso di immissione in possesso dell’immobile espropriando per il giorno 3/11/2003;

2) della deliberazione della Giunta Comunale n. 160 del 26/05/2003 – di approvazione della proposta di deliberazione n. 25 del 22/05/2003 – con la quale è stato approvato il progetto definitivo per la realizzazione dei parcheggi pubblici nella via Nanni, è stata dichiarata la pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità dell’opera e sono stati fissati i termini per l’inizio e l’ultimazione di lavori ed espropriazioni;

3) della deliberazione del Consiglio Comunale n. 120 del 05/08/2003 – di approvazione della proposta di deliberazione n. 55 del 01/08/2003 – con la quale è stata approvata una variante al Programma di Fabbricazione del Comune di Olbia per il reperimento di parcheggi e di verde pubblico nel centro urbano;

4) nonché, con l’atto di motivi aggiunti, della determinazione n. 167 del 13/6/2003 del Dirigente del Settore Tecnico del Comune di Olbia con il quale è stato approvato il progetto esecutivo per la realizzazione dei parcheggi pubblici.

La sentenza di primo grado, in particolare, aveva ritenuto fondate le censure proposte avverso il decreto di occupazione d’urgenza e la delibera di approvazione del progetto definitivo, mentre aveva respinto la domanda di annullamento della delibera di approvazione della variante allo strumento urbanistico.

Con la sentenza ottemperanda, la Sezione, disattesa l’eccezione di difetto di interesse in capo agli appellanti e dopo aver ricordato il contenuto demolitorio della sentenza di primo grado in relazione all’impugnativa della deliberazione della Giunta comunale n. 160/2003, aveva soffermato la sua attenzione sulla deliberazione consiliare n. 120/2003, che il T.A.R. aveva ritenuto legittima. La Sezione, sottolineando il legame tra i due due provvedimenti distinti, ossia la variante localizzativa dell’opera pubblica e l’atto di approvazione del relativo progetto definitivo, avvinti da un rapporto di presupposizione-consequenzialità, provvedeva ad accogliere l’appello, estendendo il petitum di annullamento del giudizio di primo grado anche alla deliberazione del Consiglio Comunale di Olbia n. 120 in data 5 agosto 2003.

Il ricorrente agiva per vedere accolta la sua domanda, e quindi per ottenere la restituzione del bene illegittimamente ablatogli, chiedendo a questa Sezione di ordinare al Comune di Olbia il rilascio del lotto libero da persone e cose, nominando, ove necessario, un commissario ad acta.

Decidendo il ricorso, con sentenza n. 4970 del 2 settembre 2011, la Sezione così si esprimeva:

“1. Accoglie il ricorso n. 2515 del 2011 e per l’effetto ordina che il Comune di Olbia dia integrale esecuzione alla decisione del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, n. 8650 del 9 dicembre 2010, nei sensi indicati in motivazione, adottando gli atti necessari nel termine di giorni 120 (centoventi) dalla comunicazione in via amministrativa o dalla notifica della presente sentenza;

2. Dispone che, in caso di ulteriore inadempimento, a tale attività provveda il commissario ad acta, qui nominato nella persona del responsabile della Direzione generale della pianificazione urbanistica territoriale e della vigilanza edilizia della Regione Sardegna o di un funzionario dallo stesso delegato, previa richiesta del ricorrente una volta scaduto inutilmente il termine di centoventi giorni predetto;

3. Condanna il Comune di Olbia a rifondere a Antonio Martino Lupacciolu le spese del presente grado di giudizio che liquida in complessivi €. 2.000,00 (euro duemila, comprensivi di spese, diritti di procuratore e onorari di avvocato) oltre I.V.A., C.N.A.P. e rimborso spese generali, come per legge”.

In data 19 giugno 2013, il nominato commissario ad acta faceva pervenire una relazione dalla quale si evinceva che l’esecuzione era stata attuata provvedendo a “ordinare la retrocessione a beneficio dei ricorrenti vittoriosi in secondo grado” mediante l’attribuzione agli stessi della quota pro indiviso spettante per i rispettivi lotti.

L’attuale ricorrente impugnava gli atti del commissario, lamentando la sostanziale elusione del giudicato, stante la mancata concreta attribuzione del bene fisico illegittimamente ablato e censurando, sotto diversi profili, le determinazioni adottate.

Si costituiva anche in questa fase il Comune di Olbia, chiedendo di dichiarare inammissibile o, in via gradata, rigettare il ricorso.

All’udienza in camera di consiglio del 12 novembre 2013, il ricorso è stato discusso e assunto in decisione.

DIRITTO

1. - Il reclamo proposto offre il destro alla Sezione di affrontare alcuni nodi irrisolti sul tema dell’ottemperanza alle sentenze restitutorie in materia di aree occupate e utilizzate dalla pubblica amministrazione a seguito di procedure espropriative divenute illegittime.

1.1. - Il primo tema riguarda i compiti del commissario ad acta, messi a confronto con le ordinarie attribuzioni dell’amministrazione e con le residue attribuzioni a questa spettanti. La vicenda scaturisce dalla circostanza che il commissario, insediandosi, ha nominato un responsabile del procedimento per lo svolgimento degli atti necessari alla restituzione delle aree, richiamandosi espressamente alla disciplina generale del procedimento amministrativo e ritenendo, in tal modo, di essere rimasto nelle proprie competenze.

Ritiene la Sezione che la questione debba essere scrutinata tenendo presente la struttura bifasica di tale vicenda, dove si assiste all’intersecarsi di due procedure, quella processuale dell’ottemperanza al giudicato e quella procedimentale di svolgimento dell’ordinaria funzione amministrativa, che si pongono su piani diversi, astrattamente non incompatibili, ma in concreto spesso contrastanti.

Va immediatamente evidenziato come la disciplina del codice del processo amministrativo, chiarendo il ruolo del commissario ad acta, ha espressamente precisato che questi è un ausiliario del giudice, nominato al fine esplicito di sostituire l’amministrazione (art. 21 dove si legge che il giudice “se deve sostituirsi all'amministrazione, può nominare come proprio ausiliario un commissario ad acta”). Ne discende che la fattispecie dell’esecuzione tramite commissario risulta costruita in modo del tutto differenziato da quella dell’esecuzione tramite la riedizione del potere amministrativo, essendo diversi il potere esercitato (nel primo caso, discendente dalla sentenza e limitato temporalmente dall’actio iudicati; nel secondo, derivante dalle attribuzioni normative dell’ente e tendenzialmente immanente), il soggetto titolare (nel primo caso, l’ausiliario del giudice come regolato nel codice del processo amministrativo; nel secondo, il responsabile secondo la legge sul procedimento) e il regime degli atti adottati (nel primo caso, disciplinato dal codice anche nei suoi profili impugnatori; nel secondo, dalla normativa generale). Insomma, due ordini operativi e normativi del tutto distinti.

In linea teorica è quindi del tutto concepibile che, in una fattispecie di esecuzione, si trovino ad agire sia il commissario ad acta sia il responsabile del procedimento, trattandosi di due figure che rilevano in ambiti ontologicamente differenti. Tuttavia, quando dall’astratta compatibilità, si ricada in situazioni in cui i provvedimenti assunti siano tra loro contrastanti, è evidente che dovrà prevalere l’azione del commissario che, come espressamente afferma il codice del processo amministrativo, sostituisce, e quindi esautora, l’amministrazione nell’adozione degli atti in concreto.

Il chiarimento sulla diversa portata dei compiti dei soggetti agenti e sulle ipotetiche reciproche interferenze delle discipline processuale e procedimentale deve essere ora riversata nella fattispecie oggetto di esame.

Venendo allora al primo tema, le osservazioni svolte portano a escludere che sia compito del commissarioad acta insediato quello di procedere a nominare un responsabile del procedimento amministrativo. Infatti, in quanto ausiliario del giudice, il commissario ha egli stesso il dovere di provvedere (come dice l’art. 21, è il commissario il sostituto dell’amministrazione, e non l’amministrazione il sostituto di se stessa) e quindi non ha il potere di ulteriormente subdelegare, se non autorizzato dal giudice stesso, visto che la fonte del potere esercitato deriva unicamente dalla sentenza o dall’atto di nomina, ossia dal complesso normativo del processo e non dal piano disciplinare della legge n. 241 del 1990. Tale inquadramento, oltre a rendere del tutto irrilevante la valutazione della censura proposta sulla mancata partecipazione al procedimento da parte dell’interessato, che non ha fondamento in relazione alla natura giurisdizionale dell’azione del commissario, rende palese come la nomina operata dal commissario ad acta di un responsabile del procedimento appaia illegittima in sé, perché data in assenza di una formale attribuzione.

Delle possibili conseguenze di tale illegittimità ne vanno qui esaminate solo due.

In ordine al regime degli atti del responsabile del procedimento, appare arduo far discendere automaticamente dall’illegittimità della nomina anche l’illegittimità derivata di tutti i provvedimenti assunti. Deve, infatti, ricordarsi che il responsabile del procedimento è figura generale dell’azione amministrativa, per cui il Comune avrebbe comunque dovuto nominarlo per procedere alla restituzione dell’area, originariamente disposta dalla sentenza di cognizione di questa Sezione. Pertanto, sebbene la detta nomina si sia avuta in assenza di un’effettiva autorizzazione, essa ha comunque trovato sede nell’ambito del canone ordinario di azione dell’amministrazione, così impedendo che gli atti compiuti dal responsabile del procedimento possano considerarsi ex se invalidi per il solo anomalo modus procedendi. Qualora la nomina non sia contestata sotto altri profili (e in specie sotto quelli che riguardano l’idoneità soggettiva del nominato responsabile), deve valorizzarsi il profilo d’imputazione diretta degli atti all’amministrazione, rendendo quindi recessivo il profilo delle modalità di scelta. L’eventuale invalidità degli atti compiuti dovrà pertanto fondarsi su una loro connotazione patologica oggettiva, e non sic et simpliciter dalla circostanza che la nomina sia stata fatta dal commissario.

In ordine all’operato del commissario, deve evidenziarsi come la conseguenza giuridica di questa iniziativa si collochi su un piano diverso da quello dell’invalidità degli atti e attenga al riconoscimento del compenso spettante, poiché il commissario, essendosi avvalso senza autorizzazione di ausiliari, non potrà essere retribuito per mansioni effettivamente svolte da terzi.

1.2. - Il secondo tema da valutare attiene all’avvenuta interruzione del procedimento di cui all’art. 42 bis del testo unico sull’espropriazione, interruzione causata proprio dall’insediamento del commissario ad acta. Deve cioè valutarsi se nel caso in esame l’amministrazione avrebbe potuto legittimamente continuare o meno nella procedura di acquisizione.

Osserva la Sezione, riprendendo le osservazioni in merito alla differenza del piano processuale rispetto a quello procedimentale, che la detta interruzione non avesse alcuna ragione d’essere, ben potendo il Comune continuare nel peculiare procedimento ivi disciplinato.

A tal fine va osservato come si sia oramai consolidato l’insegnamento per cui l’ente pubblico possa procedere al recupero della legittimità violata secondo una serie di scansioni derivanti dall’ordinamento, ben note al Comune di Olbia, parte del procedimento da cui è scaturita la sentenza n. 4970 del 2 settembre 2011 di questa Sezione dove si legge: “l'amministrazione può legittimamente apprendere il bene facendo uso unicamente dei due strumenti tipici, ossia il contratto, tramite l'acquisizione del consenso della controparte, o il provvedimento, e quindi anche in assenza di consenso ma tramite la riedizione del procedimento espropriativo con le sue garanzie. L'illecita occupazione, e quindi il fatto lesivo, permangono quindi fino al momento della realizzazione di una delle due fattispecie legalmente idonee all'acquisto della proprietà, indifferentemente dal fatto che questo evento avvenga consensualmente o autoritativamente. A questi due strumenti va altresì aggiunto il possibile ricorso al procedimento espropriativo semplificato, già previsto dall'art. 43 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 "Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità" ed ora, successivamente alla sentenza della Corte costituzionale, 8 ottobre 2010, n. 293, che ne ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, nuovamente regolamentato all'art. 42 bis dello stesso testo, come introdotto dall'articolo 34, comma 1, del D.L. 6 luglio 2011 n. 98 "Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria", convertito in legge 15 luglio 2011 n. 111”.

In questo ventaglio di opportunità, si collocano le diverse possibilità offerte al commissario ad acta e alla stessa amministrazione, le cui attribuzioni vanno qui esaminate, in particolare vagliando la possibilità che sia l’ausiliario del giudice, in sostituzione dell’ente pubblico, a poter provvedere a norma dell’art. 42 bis. La Sezione non ignora come sia rinvenibile in giurisprudenza un orientamento che addirittura impone al commissario ad acta di attivarsi in tal senso (Consiglio di Stato, sez. VI, 1 dicembre 2011, n. 6351), ma intende evidenziare le ragioni che fanno apparire impraticabile tale soluzione, sulla scorta di una ricostruzione istituzionale dei poteri del giudice in merito.

Infatti, se è vero che, in sede di ottemperanza, il giudice amministrativo può sostituire l’amministrazione anche nelle scelte che toccano il merito dell’azione, è anche vero che il giudizio di ottemperanza altro non è che il portato esecutivo del giudizio di cognizione. Quindi, se è pacifico che il giudice dell’ottemperanza è vincolato dal contenuto della sentenza da eseguire, è del pari evidente che la sentenza di cognizione ottemperanda è a sua volta legata ai limiti dati dalla domanda proposta dalla parte in sede di ricorso introduttivo. Si tratta cioè di un rapporto di successiva delimitazione e progressiva messa a fuoco, dal quale non si può prescindere se non dimenticando le interconnessioni tra i vari momenti del processo.

Trasponendo tali lineari considerazioni nel caso concreto dell’esecuzione di sentenza di annullamento di una procedura espropriativa, si è di fronte ad una vicenda così riassumibile: la domanda posta è una domanda demolitoria degli atti espropriativi; l’accoglimento della domanda, cui consegue l’annullamento della procedura e il contestuale riconoscimento della mancata acquisizione alla mano pubblica della proprietà, comporta l’obbligo della restituzione del bene illegittimamente sottratto; stante l’inerzia dell’amministrazione, il giudice dell’ottemperanza deve muoversi con i poteri di merito e nell’ambito dei limiti della domanda proposta e accolta.

Appare quindi arduo immaginare che, di fronte alla domanda introdotta in giudizio e ivi considerata fondata, ossia alla domanda di declaratoria d’illegittimità della procedura espropriativa, il giudice dell’ottemperanza, chiamato dal ricorrente insoddisfatto a conseguire quanto ha diritto, decida nel senso di ordinare all’amministrazione di provvedere ex art. 42 bis. Si assisterebbe alla singolare situazione per cui lo stesso giudice, che in sede di cognizione ha ritenuto che il bene dovesse essere restituito al legittimo proprietario, in sede di ottemperanza ordinerà invece all’amministrazione di impossessarsi dello stesso bene, anzi addirittura la sostituirà, mandando un suo ausiliario a mettere in atto tale proposito.

Un tale anomalo esito, della cui coerenza con l’art. 24 della Costituzione è lecito dubitare, può essere invece superato se si tiene presente che l’unico obbligo scaturente dalla sentenza è quello di restituzione del bene, mentre le altre opzioni (come esaurientemente indicate nella citata sentenza n. 4970 del 2 settembre 2011) sono rimesse alle scelte dell’amministrazione, visto che si pongono su un piano diverso da quello dell’esecuzione del giudicato (in questo senso, Consiglio di Stato, IV, 30 settembre 2013, n. 4868).

La Sezione non ignora che, a seguito delle modifiche intervenute in tema di quantificazione delle indennità e dei risarcimenti spettanti a seguito di procedure espropriative illegittime, gli interessi economici delle parti possano seguire percorsi diversi da quelli immaginati originariamente dal legislatore, tanto da far ritenere vantaggioso per gli espropriati il ricorso alla procedura di cui all’art. 42 bis, ma proprio la maggiore incidenza economica di tale provvedimento impone che sia lasciata all’amministrazione la ponderazione comparativa delle alternative disponibili (e seppure non potendo non sottolineare come, nel caso in esame, la sproporzione tra la prima determinazione del valore venale considerato nella perizia depositata il 23 settembre 2005 – pari a €. 350 al mq - e quella proposta con l’atto di avvio del procedimento di acquisizione sanante – oscillante tra le somme di €. 156,94 e €. 104,63 al mq – non abbia certo favorito la soluzione della controversia).

Pertanto, tirando le fila del discorso, il commissario ad acta ha il compito di restituire, nella sua materialità, il bene appreso, mentre spetta all’amministrazione valutare le ulteriori ipotesi di riconduzione a diritto della fattispecie illegittima, con lo strumento consensuale contrattuale come pure con lo strumento autoritativo, ambito in cui si colloca il procedimento accelerato di cui all’art. 42 bis. Appare pertanto del tutto non condivisibile l’operato del commissario ad acta e quello dell’amministrazione che hanno interrotto, basandosi sul mero fatto dell’insediamento dell’ausiliario del giudice, il diverso procedimento di acquisizione sanante, ossia di una tipologia di azione amministrativa non intaccata dal giudicato formatosi.

1.3. - Il terzo tema oggetto di valutazione è la dedotta impossibilità di restituzione dei beni, come evidenziata dal commissario ad acta nella sua relazione, fondata sulla proposta del responsabile del procedimento, unica sebbene riferita a due lotti diversi e denominata “proposta di deliberazione al commissario ad acta da assumere con i poteri del consiglio comunale” n. 34 del 9 aprile 2013. L’impossibilità sarebbe conseguente all’intervenuto acquisto, da parte del Comune, di quote ideali della proprietà delle due diverse aree oggetto di esproprio.

Con maggior dettaglio, le fattispecie si sarebbero realizzate con modalità diverse per ognuno dei due fondi interessati. In particolare, per un fondo, il fondo Lupacciolu, l’acquisto sarebbe stato determinato dalla mancata impugnazione da parte di alcuni comproprietari degli atti della procedura espropriativa (per cui il Comune ne sarebbe proprietario per tre quarti), mentre, per l’altro fondo, il fondo Bardanzellu, questo sarebbe avvenuto a seguito di acquisto, tramite transazione autorizzata con deliberazione del Consiglio comunale del giorno 8 aprile 2013, di due diverse quote, per un totale di un terzo, da due comproprietari.

Le differenti questioni meritano una trattazione separata, preceduta però da un’osservazione comune di raccordo.

Osserva la Sezione come l’oggetto delle procedure espropriative di cui al d.P.R. n. 327 del 2001 sia concretamente desumibile dagli stessi atti della procedura che, soprattutto tramite la dichiarazione di pubblica utilità, individuano nel dettaglio quale sia il bene oggetto di espropriazione e con quali finalità. Il valore concettuale rappresentato dalla dichiarazione di pubblica utilità, vero anello di congiunzione tra il dato strutturale della procedura e quello funzionale dell’opera, è chiaramente evincibile dalla giurisprudenza in tema di retrocessione totale, dove si legge che, per discernere tra retrocessione totale e retrocessione parziale, “deve considerarsi non solo il decreto di espropriazione ma anche e soprattutto la dichiarazione di pubblica utilità e l'opera in essa indicata e che non si può prescindere dal considerare, contemporaneamente, la condizione dei beni inutilizzati per accertare se si sia verificata una causa che, escludendone la destinazione all'opera programmata, abbia reso inoperante la dichiarazione di pubblica utilità rispetto al provvedimento ablatorio che li riguarda” (ex multis, Cassazione civile, sez. un., 8 giugno 1998 n. 5619). La verifica della coerenza tra azione programmata ed esiti conseguiti va fatta quindi alla luce degli atti della procedura.

La stessa argomentazione deve peraltro applicarsi anche nelle fattispecie che mirano al recupero delle illegittimità pregresse, sussistendo la stessa ratio giuridica, ossia quella di ricongiungere il fatto al diritto, operando una nuova valutazione degli stessi presupposti valevoli per la dichiarazione di pubblica utilità. Pertanto, anche in queste fattispecie successive, il vero criterio di raccordo sarà l’esame della congruenza tra quanto stabilito nella dichiarazione di pubblica utilità e quanto concretamente realizzato.

Sulla scorta di quanto evidenziato, emergono in maniera lampante i dubbi sulla legittimità del comportamento del Comune di Olbia, riguardo a tale rapporto di congruenza, atteso che, a fronte della prevista ablazione della proprietà di un’area, ossia della materiale disponibilità di un fondo per la realizzazione dell’opera, si perverrebbe unicamente all’acquisizione di una quota ideale della stessa area, ossia di un titolo ex se giuridicamente inidoneo a giustificare la realizzazione dell’opera, stante i limiti ai poteri del comproprietario di cui all’art. 1102 comma 1 del codice civile.

Valutata quindi l’inconsistenza dal punto di vista funzionale del mero acquisto della quota del fondo, va anche osservato che la ricostruzione fatta dal Comune, ossia che si sia verificata un acquisto in suo favore delle quote di proprietà del fondo indiviso a causa della mancata impugnazione da parte degli altri comproprietari degli atti della procedura espropriativa, è del tutto infondata.

A tal fine, deve ricordarsi che, in linea generale, è pacifico che il principio dell'efficacia inter partes del giudicato amministrativo non trova applicazione nei confronti delle pronunce di annullamento di particolari categorie di atti amministrativi, ossia in concreto, di quelli che hanno una pluralità di destinatari, un contenuto inscindibile e sono invalidi per un vizio che ne inficia il contenuto in modo indivisibile per i destinatari (ex multis, Consiglio di Stato, sez. IV, 23 novembre 2002; Cassazione civile, sez. I, 13 marzo 1998 n. 2734).

Nel caso delle procedure di espropriazione, tale affermazione va declinata in due modi diversi.

Da un lato, è sicuramente vero che gli atti dell’espropriazione, riguardati complessivamente, possono essere inquadrati nella categoria degli atti plurimi, ossia di quelli che, pur avendo carattere formalmente unitario, sono suscettibili di essere scissi in tanti atti particolari riguardanti ciascuno un singolo soggetto (in questo senso, Cassazione civile, sez. I, 21 giugno 1979 n. 3458) e quindi, data la diversità delle singole proprietà, il provvedimento non è unitario o inscindibile, tanto da non giustificare l’estensione della portata soggettiva dell’annullamento conseguito da terzi (in questo caso, si è affermato che non possono avvalersi del giudicato di annullamento della dichiarazione di pubblica utilità e del decreto di occupazione d'urgenza, intercorso tra altre persone, quei proprietari, che, pur non avendo partecipato al giudizio amministrativo, agiscono per ottenere il ripristino e il ristoro del loro diritto di proprietà, dato che una tale conseguenza non dipende da quel giudicato, ma potrebbe derivare soltanto da una illegittimità della dichiarazione di pubblica utilità che fosse riconosciuta anche nei loro confronti dal giudice competente sì da far coincidere efficacia oggettiva ed efficacia soggettiva del giudicato in relazione alla posizione giuridica dei ricorrenti ed all'oggetto dell'impugnativa investente l'atto).

Quando invece, ed è questo il caso in esame, si assiste alla scissione dell’atto plurimo che, diventato atto individuale in relazione al singolo lotto, viene ad incidere su un diritto appartenente a più soggetti, si riespande la regola valevole per gli atti indivisibili, attesa la loro incidenza su una pluralità di destinatari (i comproprietari), un contenuto inscindibile (l’ablazione del diritto) e l’invalidità per un vizio unico (derivante dall’invalidità della procedura). Tali ragioni militano in favore dell’attribuzione, anche verso i comproprietari non impugnanti, degli effetti del giudicato amministrativo di annullamento favorevole (si veda, Cassazione civile, sez. I, 4 giugno 1987 n. 4884 sull’estensione dell’efficacia soggettiva della decisione di annullamento del provvedimento di occupazione d'urgenza di un fondo nei confronti del titolare del fondo come pure degli affittuari).

Ne discende che l’affermazione dell’acquisizione dei tre quarti della proprietà Lupacciolu, per mancata impugnazione da parte di alcuni comproprietari degli atti della procedura espropriativa, è del tutto sfornita di fondamento giuridico.

1.4. - Il quarto tema, peraltro in gran parte derivato dalle osservazioni che precedono, riguarda l’attività svolta dal Comune che, tramite un accordo contrattuale, ha acquisito la proprietà di una quota del secondo fondo in contestazione.

Come si è prima ricordato, il fine della procedura espropriativa e, conseguentemente, anche quello degli strumenti a questa succedanei, è quello di assicurare la disponibilità dei beni indicati nella dichiarazione di pubblica utilità, indispensabili per la realizzazione dell’opera. Ciò significa, nel caso in esame, che l’obiettivo da acquisire è quello della proprietà dell’intero fondo e non di una mera quota. Al contrario, tale acquisto non può essere considerato esaustivo degli obblighi imposti in sentenza e quindi, nei limiti di quanto si va a osservare, elusivo del giudicato.

Rileva la Sezione che l’ipotesi di un accordo, e quindi della stipula di un contratto con le parti interessati, rientra pacificamente nelle attribuzioni dell’amministrazione, come ricordato nella già citata giurisprudenza. Egualmente pacifica è la possibilità che l’accordo finale sia conseguenza di plurime contrattazioni e l’esito conclusivo venga raggiunto sommando risultati parziali conseguiti in tempi diversi (e peraltro, un tale modus operandi non è sconosciuto nemmeno alla fase procedimentale espropriativa, in riferimento ai meccanismi separati e successivi di accordi in relazione all’indennità di esproprio). Pertanto, non può dirsi che la scelta procedimentale dell’amministrazione sia stata erronea o illegittima in sè.

È invece del tutto illegittimo ed elusivo il risultato raggiunto.

Infatti, ove l’amministrazione avesse voluto effettivamente conseguire, anche in tempi diversi, l’acquisto dell’intera area, ben avrebbe potuto rinvenire nell’ordinamento gli strumenti giuridici per coniugare le separate iniziative negoziali con l’unitario risultato finale (ad esempio, sottoponendo i singoli acquisti di quota alla condizione sospensiva dell’intervenuto accordo con gli altri comproprietari). Al contrario, in questa sede si è assistita a una contrattazione limitata, dove il contratto concluso appare solo in funzione di un acquisto parziale e quindi non finalizzato alla realizzazione dello scopo istituzionale, secondo uno schema noto alla legislazione e disciplinato dall’art. 1344 del codice civile.

Ne deriva come l’azione del Comune, autorizzando con delibera del Consiglio comunale n. 24 del 8 aprile 2013 la transazione tesa all’acquisto pro quota del fondo Bardanzello, sia stata palesemente elusiva del giudicato e che, in aderenza alla domanda proposta dalle parti reclamanti, vada considerata nulla la citata delibera, con una dichiarazione che non può non rifluire sulla causa del negozio di diritto privato stipulato dall’amministrazione.

2. - Sulla base delle considerazioni appena svolte può essere altresì rimarcata l’irrilevanza della questione principale sollevata dal commissario ad acta che, sulla base della supposta apprensione pro quota delle due proprietà in contestazione, ha ritenuto non poter procedere alla restituzione materiale dei beni, se non all’esito di un giudizio di divisione, e si è quindi limitato a “ordinare la retrocessione a beneficio dei ricorrenti vittoriosi in secondo grado”.

Rilevato che, per le ragioni viste, non può ritenersi conseguito alcun acquisto, nemmeno pro quota, in capo al Comune riguardo ai due fondi (e che, incidentalmente, non vi è nemmeno spazio per la ritenuta retrocessione, vicenda che postula l’intervenuto esproprio dell’area e non il mero impossessamento, come precisa Consiglio di Stato, sez. IV, 15 dicembre 2011 n. 6619), la questione della necessità del previo giudizio di divisione appare inconferente.

Per altro verso, non può neppure essere esaminata la questione del ripristino della destinazione urbanistica preesistente a quella annullata, come pretesa dalla parte ricorrente. Si tratta, infatti, di un evento conseguente all’inutile spirare del termine di validità del vincolo preordinato all’esproprio e non derivato dall’annullamento della procedura espropriativa. È quindi estraneo alla cognizione di questo giudice, dovendo invece essere oggetto di un nuovo procedimento ad hoc.

3. - Conclusivamente, considerato che l’ampia disamina di cui sopra abbia fatto luce sul comportamento da tenere al fine di dare esecuzione alla sentenza n. 8650 del 2010, ritiene la Sezione di dover unicamente disporre la sostituzione del commissario ad acta, già nominato nella persona del responsabile della Direzione generale della pianificazione urbanistica territoriale e della vigilanza edilizia della Regione Sardegna o di un funzionario dallo stesso delegato, con il Prefetto della Provincia di Olbia – Tempio o di un funzionario dallo stesso delegato, secondo le modalità indicate in dispositivo.

4. - Il reclamo va quindi accolto. Tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso. Le spese processuali seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo, disattendendo peraltro la domanda di condanna ex art. 96 c.p.c. formulata dalla parte reclamante, in quanto del tutto apodittica.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunziando in merito al ricorso in epigrafe, così provvede:

1. Accoglie il reclamo contro gli atti del commissario ad acta nominato nel ricorso n. 2515 del 2011 e per l’effetto:

a) dichiara nulla la delibera del Consiglio comunale di Olbia n. 24 del 8 aprile 2013 e gli atti assunti dal nominato commissario ad acta, designato nella persona del responsabile della Direzione generale della pianificazione urbanistica territoriale e della vigilanza edilizia della Regione Sardegna o di un funzionario dallo stesso delegato;

b) in sostituzione del precedente, nomina come nuovo funzionario ad acta il Prefetto della Provincia di Olbia – Tempio o di un funzionario dallo stesso delegato, che provvederà all’esecuzione della sentenza n. 8650 del 9 dicembre 2010 secondo le modalità già indicate nella sentenza n. 4970 del 2 settembre 2011, come ulteriormente specificate nella presente decisione;

2. Pone a carico del Comune di Olbia il compenso del commissario ad acta, da liquidarsi con separato provvedimento e dietro presentazione di apposita istanza;

3. Condanna il Comune di Olbia a rifondere ad Antonio Martino Lupacciolu le spese del presente grado di giudizio che liquida in complessivi €. 3.000,00 (euro tremila, comprensivi di spese, diritti di procuratore e onorari di avvocato) oltre I.V.A., C.N.A.P. e rimborso spese generali, come per legge.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 12 novembre 2013, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione Quarta - con la partecipazione dei signori:

 

 

Riccardo Virgilio, Presidente

Nicola Russo, Consigliere

Diego Sabatino, Consigliere, Estensore

Raffaele Potenza, Consigliere

Andrea Migliozzi, Consigliere

 

 

 

 

     
     
L'ESTENSORE   IL PRESIDENTE
     
     
     
     
     

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il **/03/2014

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

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