Monday 07 January 2019 12:51:56
Giurisprudenza Pubblico Impiego e Responsabilità Amministrativa
segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 4.1.2019
La questione sottoposta all’esame del Collegio riguarda la possibilità, o meno, di inserimento nelle graduatorie ad esaurimento di aspiranti docenti, abilitati all’insegnamento in seguito al superamento dell’esame finale dei «Tirocini Formativi attivi», con impugnazione – nella parte in cui detto inserimento non è previsto – dei decreti ministeriali n. 572 del 27 giugno 2013 e decreto ministeriale n. 81 del 25 marzo 2013.
Di seguito si riporta la motivazione della sentenza del Consiglio di Stato depositata in data 4 gennaio 2019 con la quale vengono esposte alcune considerazioni di carattere sistematico laddove si rileva che “I principi generali del reclutamento del personale docente sono contenuti nel d.lgs. n. 297 del 1994, il quale, nella sua versione originaria, stabiliva che l’accesso ai ruoli del personale docente avvenisse mediante concorsi per titoli ed esami e mediante concorsi per soli titoli. A ciascuno di tali canali di accesso ai ruoli veniva riservato annualmente il 50 per cento dei posti destinati alle procedure concorsuali
Con la legge n. 124 del 1999 è stata prevista la soppressione del concorso per soli titoli e la trasformazione delle relative graduatorie in permanenti. L’accesso ai ruoli del personale docente continua, dunque, ad avvenire secondo un sistema “bipartito”: accanto al canale concorsuale opera lo scorrimento delle graduatorie degli abilitati. È accaduto così che, per un lungo periodo, hanno convissuto un sistema di reclutamento fondato sul meccanismo del concorso ordinario, raramente utilizzato, con un altro, prevalente, basato sull’inserimento degli insegnanti riconosciuti idonei in una graduatoria permanente. I docenti presenti in tali graduatorie maturavano progressivamente il diritto alle supplenze, mediante il punteggio ottenuto sulla base del servizio svolto presso le scuole.
Le graduatorie ad esaurimento, in cui gli attuali appellanti vorrebbero essere inseriti, discendono dalla trasformazione – ex art. 1, comma 605, lettera c), della legge 27 dicembre 2006, n. 296 – delle graduatorie permanenti del personale docente, con alcuni ulteriori inserimenti da effettuare per il biennio 2007/2008, per personale già abilitato o con abilitazione in corso di conseguimento.
La finalità espressamene perseguita da tale norma ‒ di dare «adeguata soluzione al fenomeno del precariato storico e di evitarne la ricostituzione» ‒ si è dunque concretizzata nel vietare ulteriori accessi alla docenza con matrice diversa da quella concorsuale vera e propria, per esami e non per soli titoli, fatto salvo il graduale assorbimento nei ruoli dei docenti che, nel sistema previgente, avevano comunque maturato una lunga esperienza di insegnamento, sulla base di titoli che ne avevano consentito, a suo tempo, l’iscrizione nelle graduatorie permanenti (l’art. 1, comma 605, della legge n. 296 del 2006, contemplava una clausola di riserva riferita a quei titoli abilitanti che, secondo la normativa vigente, costituivano requisiti d’accesso alle graduatorie, essendo volta a preservare le aspettative di coloro i quali avessero, confidando nel mantenimento del sistema pregresso, già affrontato un percorso di studi per munirsi del titolo necessario all’inserimento nelle GAE).
A tale disposizione hanno fatto seguito alcune deroghe: - il decreto legge 1 settembre 2008, n. 137 (disposizioni urgenti in materia di istruzione e università), nell’art. 5-bis (disposizioni in materia di graduatorie ad esaurimento), inserito dalla legge di conversione 30 ottobre 2008, n. 169, ha consentito l’iscrizione in dette graduatorie (per quanto qui interessa) di coloro che avessero conseguito il titolo abilitante tramite i corsi attivati nell’anno accademico 2007/2008, ovvero che in tale anno si fossero iscritti al corso di laurea in scienza della formazione; - il decreto legge 29 dicembre 2011, n. 216 (Proroga dei termini previsti da disposizioni legislative), nell’art. 14, comma 2-ter, aggiunto dalla legge di conversione 24 febbraio 2012, n. 14, a sua volta – pur ribadendo la chiusura delle graduatorie ad esaurimento – prevedeva una fascia aggiuntiva a decorrere dall’anno scolastico 2012 – 2013, per chi avesse frequentato corsi abilitanti, o corsi di laurea in scienza della formazione primaria negli anni accademici 2008/2009, 2009/2010 e 2010/2011. Su queste basi, il Collegio ritiene che ‒ come correttamente statuito dal giudice di primo grado ‒ le censure sollevate dagli odierni appellanti non possono essere condivise, ostando all’inserimento nelle graduatorie ad esaurimento di coloro che abbiano conseguito l’abilitazione all’insegnamento in base al ciclo di «Tirocinio Formativo Attivo» il divieto legislativo espresso di integrare le ridette graduatorie, essendo consentito soltanto l’aggiornamento della posizione di quanti vi siano già inseriti.
In primo luogo, viene in rilievo, l’art. 9, comma 20, del decreto-legge n. 70 del 2011, il quale ha sostituito il primo periodo dell’articolo 1, comma 4, del decreto-legge 7 aprile 2004, n. 97 (convertito, con modificazioni, dalla legge 4 giugno 2004, n. 143), con il seguente: «A decorrere dall’anno scolastico 2011/2012, senza possibilità di ulteriori nuovi inserimenti, l'aggiornamento delle graduatorie, divenute ad esaurimento in forza dell'articolo 1, comma 605, lettera c), della legge 27 dicembre 2006, n. 296, è effettuato con cadenza triennale e con possibilità di trasferimento in un’unica provincia secondo il proprio punteggio, nel rispetto della fascia di appartenenza. L’aggiornamento delle graduatorie di istituto, di cui all’articolo 5, comma 5, del regolamento di cui al decreto del Ministro della pubblica istruzione 13 giugno 2007, n. 131, per il conferimento delle supplenze ai sensi dell’articolo 4, comma 5, della legge 3 maggio 1999, n. 124, è effettuato con cadenza triennale».
Anche l’art. 14, comma 2-ter, del decreto-legge n. 216 del 2011 ha espressamente confermato che le graduatorie ad esaurimento «restano chiuse». Nel contempo, ha istituito ‒ «limitatamente ai docenti che hanno conseguito l’abilitazione dopo aver frequentato i corsi biennali abilitanti di secondo livello ad indirizzo didattico (COBASLID), il secondo e il terzo corso biennale di secondo livello finalizzato alla formazione dei docenti di educazione musicale delle classi di concorso 31/A e 32/A e di strumento musicale nella scuola media della classe di concorso 77/A, nonché i corsi di laurea in scienze della formazione primaria negli anni accademici 2008-2009, 2009-2010 e 2010-2011» ‒ una fascia aggiuntiva alle predette graduatorie. Ebbene, gli odierni appellanti ‒ che hanno conseguito, al più tardi nell’anno 2013/2014, l’abilitazione al termine dei percorsi formativi attivati con decreto ministeriale 10 settembre 2010, n. 249 ‒ non rientrano in nessuna delle dette categorie speciali di docenti, le quali devono ritenersi tassative in quanto integrano deroghe eccezionali al principio di pubblico concorso.
Né, per pervenire ad una conclusione differente, rileva il richiamo alla possibilità, prevista per gli appellanti, di essere inseriti nelle graduatorie di istituto ai fini della stipulazione di contratti di lavoro a tempo determinato con l’amministrazione scolastica, cosi come previsto, con modalità analoga, per coloro che sono inseriti nelle GAE. Non può, infatti, evocarsi questa modalità di trattamento dei soggetti in comparazione, che mantiene la sua specialità e che comunque non conduce ad una totale parificazione per le sue concrete modalità di svolgimento, per ritenere che vi debba essere una sostanziale uniformità di trattamento anche ai fini del piano straordinario di assunzione. In altri termini, la circostanza che vi possano essere alcuni punti di regolazione in comune non cancella le differenze tra le categorie in esame e dunque non può giustificare un giudizio di non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità prospettata dagli appellanti (cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 1524 del 2018). La normativa in esame, cosi come interpretata e ricostruita, non solleva i dubbi di illegittimità costituzionale, in base alla consolidata lettura del principio di eguaglianza, che non esclude l’introduzione nel corso del tempo di fattori di differenziazione, secondo un modulo dinamico che non può escludere discipline diverse in situazioni differenti (cfr. Corte Cost. 28 marzo 1996, n. 89 e 24 ottobre 2014, n. 241).
Occorre poi ricordare che, secondo la giurisprudenza costituzionale, il concorso pubblico è la forma generale ed ordinaria di reclutamento del personale della pubblica amministrazione, in quanto meccanismo imparziale che, offrendo le migliori garanzie di selezione tecnica e neutrale dei più capaci sulla base del merito, garantisce l’efficienza dell'azione amministrativa (ex plurimis, sentenze n. 134 del 2014; n. 277, n. 137, n. 28 e n. 3 del 2013). L’indefettibilità del concorso pubblico come canale di accesso pressoché esclusivo nei ruoli delle pubbliche amministrazioni non è assoluta. Ad essa tuttavia può derogarsi solo in presenza di peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico (sentenze n.7 del 2015; n. 134 del 2014; n. 217 del 2012). Forme diverse di reclutamento e di copertura dei posti devono essere legislativamente disposte per singoli casi e secondo criteri che, pur involgendo necessariamente la discrezionalità del legislatore, devono rispondere a criteri di ragionevolezza che non contraddicano i principi di buon andamento e di imparzialità dell’amministrazione. L’area delle eccezioni al principio del concorso è stata delimitata in modo assai rigoroso. Sono ritenute legittime le sole deroghe giustificate dall’esigenza di garantire alla pubblica amministrazione specifiche competenze consolidatesi all’interno dell’amministrazione stessa e non acquisibili dall’esterno. Tale evenienza non ricorre in presenza di indiscriminate procedure di stabilizzazione del personale precario, prive cioè di riferimenti alla peculiarità delle competenze e funzioni di cui l’amministrazione abbisogna e che quindi si risolvono in un privilegio a favore di categorie più o meno ampie di persone (sentenze n. 3 del 2013, n. 310 del 2011 n. 189 del 2011, n. 195 del 2010). La stabilizzazione di contratti di lavoro precario è peraltro ammissibile solo entro limiti percentuali tali da non pregiudicare il prevalente carattere aperto delle procedure di assunzione nei pubblici uffici (sentenze n. 7 del 2011, n. 235 del 2010).
La normativa in esame, cosi come interpretata e ricostruita, non solleva neppure dubbi di contrarietà con l’ordinamento dell’Unione Europea prospettati dagli appellanti, così come osservato (sia pure con riferimento ad una questione diversa da quella in esame) dal Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 20 dicembre 2017, n. 11.
Va, infatti, evidenziato che nella situazione in esame appare ragionevole ed ispirato a consistenti ragioni di interesse pubblico il ripristino a regime del sistema di reclutamento degli insegnanti attraverso selezione concorsuale per esami, con salvaguardia delle sole più antiche posizioni di “precariato storico”, per evidenti ragioni sociali. Ragioni, quelle appena indicate, che giustificano pienamente l’attuale disciplina anche in rapporto al diritto comunitario, con particolare riguardo alla clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 e allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio in data 28 giugno 1999, che esclude ogni discriminazione dei lavoratori a tempo determinato rispetto a quelli a tempo indeterminato e postula estensione ai primi degli istituti propri del rapporto dei secondi (considerando – in caso di trasformazione del rapporto di lavoro – le vicende del precedente rapporto a termine come intervenute in un unico contratto a tempo indeterminato sin dall’origine: Corte di Giustizia, 13.9.2007, C-307/05, Del Cerro Alonso).
Come chiarito dalla giurisprudenza, tuttavia, spetta al giudice nazionale una delicata valutazione – da condurre caso per caso – al fine di verificare la sussistenza, o meno, di “ragioni oggettive”, che a norma della medesima direttiva possono giustificare un trattamento differenziato dei lavoratori a tempo determinato (Corte di Giustizia, Valenza e a. – da C-302/11 a C-305/11).
Per l’individuazione di tali ragioni, in effetti, non si rinvengono parametri di riscontro nella direttiva 1999/70/CE, ma la Corte di Giustizia (Grande sezione, sentenza del 4 luglio 2006, causa C-212/04 –Adeneler) ha precisato che il significato e la portata della relativa nozione debbono essere determinati in funzione dell’obiettivo perseguito dall’accordo-quadro e, in particolare, del contesto in cui si inserisce la clausola 5, n. 1, lettera a) dello stesso (clausola, quella appena indicata, che mira a prevenire gli abusi, derivanti dall’utilizzo di più contratti di lavoro successivi a tempo determinato, dovendo, invece, la forma generale dei rapporti di lavoro essere a tempo indeterminato, in quanto la stabilità del posto costituisce elemento importante per la tutela dei lavoratori).
Il margine di discrezionalità, lasciato al riguardo agli Stati membri dell’Unione, resta, dunque, contenuto dalla necessità di garantire il risultato imposto dal diritto comunitario, alla luce sia dell’art. 249, comma 3, del Trattato che del punto 1 dell’art. 2 della direttiva 1999/70: la nozione di “ragioni oggettive”, pertanto, deve essere “riferita a circostanze precise e concrete che caratterizzano una determinata attività”, in modo tale da giustificare, in un particolare contesto, l’utilizzo di contratti di lavoro a tempo determinato successivi (sentenza Adeneler cit., punto 88). Dette circostanze possono essere il risultato della particolare natura dei compiti, per il compimento dei quali i contratti sono stati conclusi, o del perseguimento di obiettivi legittimi di politica sociale di uno Stato membro (sentenza Adeneler cit. punto 70).
Per quanto riguarda la reiterazione di contratti di lavoro a termine, ad esempio, può agevolmente sostenersi che tale reiterazione deve essere giustificata da esigenze temporanee, straordinarie ed urgenti del datore di lavoro e non essere finalizzata a soddisfare fabbisogni permanenti.
È di tutta evidenza che le disposizioni normative in esame rispondono pienamente alla disciplina comunitaria, in quanto, appunto, volte ad eliminare il precariato (pur nel rispetto di parametri di gradualità, introdotti a tutela di situazioni a lungo protrattesi nel tempo e destinate alla stabilizzazione), con tendenziale, generalizzato ritorno ai contratti di lavoro a tempo indeterminato, previa selezione concorsuale per merito, nel già ricordato interesse pubblico alla formazione culturale dei giovani, che la scuola deve garantire attraverso personale docente qualificato.
Ove le tesi difensive in esame fossero accolte, viceversa, non potrebbe che formarsi un nuovo consistente precariato, che allungherebbe i tempi del perseguimento del sistema previsto a regime, o lo renderebbe addirittura non perseguibile. Nella presente sede di giudizio di legittimità, pertanto, è sufficiente rilevare che non può essere ammessa la riapertura delle graduatorie ad esaurimento, per ragioni non puntualmente previste a livello legislativo, senza che ciò determini dubbi di legittimità costituzionale o comunitaria. Sotto altro profilo, va rimarcato che la diversità di tutele tra lavoro pubblico e privato ‒ dove invece l’illegittimo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato comporta, in caso di violazione delle prescrizioni dettate dal d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, la conversione del rapporto (ex plurimis, Cass., 23 agosto 2006, n. 18378) ‒ è stata ritenuta legittima non soltanto dalla Corte costituzionale (sentenza n. 89 del 2003), ma anche dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea. La Corte europea ha ritenuto la disciplina nazionale astrattamente compatibile con il diritto europeo, purché sia assicurata altra analoga misura sanzionatoria effettiva, proporzionata e dissuasiva (CGUE ordinanza 12 dicembre 2013, Papalia, C-50/13, la quale si pone nel solco delle sentenze del 4 luglio 2006, Adeneler e a., C-212/04 e del 7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, C-53/04).
La clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, non stabilisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato (da ultimo, con riguardo al personale docente e amministrativo, tecnico ed ausiliario, cfr. la sentenza della Corte giustizia UE, sez. III, 26/11/2014 n. 22). Nell’ordinamento italiano l’effettività dell’apparato che sanziona l’abuso nel rinnovo dei contratti a tempo determinato è assicurato non solo dalla responsabilità amministrativa cui sono sottoposti i dirigenti che violano la disciplina imperativa dei collaborazioni flessibili con la pubblica amministrazione, ma anche dallo speciale regime risarcitorio che assicura al lavoratore pubblico un danno minimo presunto. A quest’ultimo riguardo, è utile ricordare che le Sezioni Unite (Cass., sez. un., 15 marzo 2016 n. 5072) ‒ pronunciantesi recentemente sui criteri da utilizzare per la liquidazione del danno subito nel caso di abusivo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione ‒ hanno statuito che «la misura risarcitoria prevista dall'art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13), sicché, mentre va escluso - siccome incongruo - il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all'art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario”, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l'onere probatorio del danno subito». Quanto alla doglianza incentrata sulla violazione della direttiva 2005/36/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 7 settembre 2005, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali anche ai docenti che abbiamo conseguito l’abilitazione all’insegnamento all’estero e vogliano esercitare la propria attività in Italia, essa è già stata respinta più volte da questa Sezione. La normativa europea evocata è inconferente rispetto alla disciplina che viene in rilievo in questa sede (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, n. 364 del 2016 e n. 1524 del 2018) e non contiene alcun vincolo per il legislatore italiano in ordine alle modalità di assunzione degli insegnanti. Nella specie, poi, non appare nemmeno ravvisabile alcuna violazione dell’art. 136 del trattato di Amsterdam, in base al qual le forme di lavoro diverse dal lavoro a tempo indeterminato, come il lavoro a termine, secondo il mercato del lavoro interno di ogni singolo paese, devono portare ad un miglioramento. Secondo gli appellanti, tale processo avverrebbe mediante il ravvicinamento di tali condizioni che costituisce un progresso. Pertanto, se non viene concesso l’accesso alle GAE, verrebbe precluso il progresso.
La mancata concessione dell’accesso alle GAE, invero, non impedisce in modo assoluto un miglioramento delle condizioni di lavoro, essendo dall’ordinamento giuridico previste altre forme di reclutamento del personale docente a tempo indeterminato. (…). Per saperne di più scarica il testo integrale della sentenza.
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