Sunday 04 December 2011 11:11:07
Giurisprudenza Uso del Territorio: Urbanistica, Ambiente e Paesaggio
Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato procede nell'excursus della normativa in materia di occupazione sine titolo evidenziando in primis come l'abrogato art. 43 del Testo Unico sugli espropri era stato emanato dal legislatore delegato per consentire una ‘legale via di uscita’ per i moltissimi casi in cui una P.A. avesse occupato senza titolo un’area di proprietà altrui, in assenza di un valido ed efficace decreto di esproprio. In precedenza, la prassi giudiziaria nazionale – innovando dal 1983 rispetto alla precedente ultrasecondare giurisprudenza della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato che avevano costantemente ammesso la immanente titolarità di un potere di esproprio in sanatoria - si era consolidata nel senso dell’acquisto dell’area da parte dell’amministrazione nel caso di irreversibile destinazione di un’area, per la quale fosse stata dichiarata la pubblica utilità dell’opera da realizzare. Poiché tale prassi era stata qualificata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo come ‘sistematica violazione’ delle disposizioni della Convenzione del 1950, sulla tutela del diritto di proprietà, l’art. 43 aveva dunque consentito che – in presenza di un effettivo interesse pubblico, rilevato nell’atto ablatorio – l’amministrazione avrebbe potuto adeguare la situazione di fatto a quella di diritto, risarcendo integralmente il danno cagionato al proprietario ed esercitando il potere di acquisizione dell’area detenuta senza titolo. Con la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 43 del testo unico operato dalla Corte Costituzione (sentenza n. 293/2010) non era pero' divenuto applicabile l’istituto della accessione. Tale istituto era stato sempre escluso dalla pacifica giurisprudenza sin dalla seconda metà dell’Ottocento. Infatti, la realizzazione di un’opera pubblica o di interesse pubblico, quando avvenga legittimamente, in esecuzione di atti di natura ablatoria solo successivamente annullati in sede di giustizia amministrativa, ha la propria peculiarità nella avvenuta realizzazione di opere nell’interesse della collettività(e in esecuzione di provvedimenti) e comporta il verificarsi di situazioni irriducibili a quelle disciplinate dal codice civile, le cui disposizioni dunque non si applicano. Secondo il Collegio, la sentenza della Corte n. 293 del 2010 aveva comportato il ritorno alla attualità del sistema normativo, risalente al 1865, sulla sussistenza del potere di esproprio in sanatoria, sistema sul quale si era consolidata la giurisprudenza della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato (superata a partire dal 1983 dalla prassi nazionale postasi in contrasto con la CEDU). Infatti, in assenza di un valido ed efficace provvedimento di natura ablatoria, la richiamata plurisecolare giurisprudenza riconosceva il proprietario dell’area ancora come tale: ciò che il Supremo Consesso ribadisce, alla luce della pacifica giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Mentre però la giurisprudenza civile (allora avente giurisdizione) riteneva che la tutela restitutoria spettante al proprietario fosse preclusa da un atto tacito di destinazione dell’area al pubblico servizio e dunque dall’art. 4 dell’allegato E della legge del 1865 (sulla abolizione del contenzioso amministrativo), tale preclusione si è posta in contrasto con i principi dello Stato di diritto, in quanto “l’atto di destinazione” non era preso in considerazione dalla legge. In occasione della redazione del testo unico, il Consiglio di Stato aveva redatto l’art. 43, poi trasfuso nel testo unico sugli espropri, proprio per prevedere una legale via d’uscita, per dare una soluzione legislativa – con l’attribuzione di un potere discrezionale all’Amministrazione - ai casi che oramai stavano comportando la sistematica condanna della Repubblica Italiana innanzi alla CEDU, nei giudizi posti in essere dai proprietari che lamentavano di aver perso il loro diritto di proprietà, sulla base di sentenze pronunciate ex post e senza fondamento normativo, e non sulla base di atti amministrativi la cui emanazione fosse consentita dalla legge. La sentenza della Corte Costituzionale – nel rilevare un eccesso di delega e nel dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 43 – ha dunque fatto tornare l’ordinamento ad una peculiare situazione, in cui di certo da un lato non poteva disconoscersi il perdurante diritto di proprietà del titolare, malgrado la avvenuta costruzione dell’opera pubblica o di interesse pubblico, e dall’altro non poteva negarsi l’immanente potere di disporre l’esproprio in sanatoria, per evitare la demolizione di quanto costruito a spese della collettività e che, se del caso, ancora risultava conforme alle esigenze di questa. L’art. 42 bis del decreto legge n. 98 del 2011, convertito nella legge n. 2011, ha reintrodotto il potere discrezionale già disciplinato dall’art. 43: l’amministrazione - valutate le circostanze e comparati gli interessi in conflitto – può decidere se demolire in tutto o in parte l’opera (affrontando le relative spese) e restituire l’area al proprietario, oppure se disporre l’acquisizione (evitando che sia demolito, paradossalmente, quanto altrimenti risulterebbe meritevole di essere ricostruito). L’art. 42 bis prevede, al comma 1, che l’Amministrazione, valutati gli interessi in conflitto, possa disporre, con formale provvedimento, l’acquisizione del bene, con la corresponsione al privato di un indennizzo per il pregiudizio subito, patrimoniale e non patrimoniale; al comma 8 prevede poi che le sue disposizioni “trovano altresì applicazione ai fatti anteriori”, sicché esso si applica senza alcun dubbio anche nella fattispecie in esame. Anche nell’attuale quadro normativo, l’Amministrazione ha dunque l’obbligo giuridico di far venir meno la occupazione sine titulo e cioè deve adeguare la situazione di fatto a quella di diritto. Essa o deve restituire i terreni ai titolari, demolendo quanto realizzato e disponendo la riduzione in pristino, oppure deve attivarsi perché vi sia un titolo di acquisto dell’area da parte del soggetto attuale possessore.
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