Wednesday 17 May 2017 17:12:11

Giurisprudenza  Procedimento Amministrativo e Riforme Istituzionali

Condanna alle spese processuali: il principio della soccombenza

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 11.5.2017

"In tema di condanna alle spese processuali, il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle stesse (Cass. Civ. Sez. I, 23/2/2012, n. 2736). Nel caso di specie, il TAR ha addebitato le spese di lite alla parte ricorrente in quanto, sulla base di un giudizio non sindacabile nel merito, ha ritenuto che, considerato il complessivo oggetto della lite, quest’ultima risultasse sostanzialmente soccombente, atteso che il ricorso aveva avuto esito favorevole solo per una limitatissima parte (Cass. Civ., Sez. III, 27/1/2013, n. 1193).". È quanto ribadito dalla Quinta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 11 maggio 2017. Per approfondire vai alla sentenza

 

Testo del Provvedimento (Apri il link)


Pubblicato il 11/05/2017

N. 02191/2017REG.PROV.COLL.

N. 05128/2013 REG.RIC.

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso iscritto in appello al numero di registro generale 5128 del 2013, proposto da: 
T&T s.r.l., in persona del legale rappresentante in carica, rappresentata e difesa dagli avvocati Enrico Cellentani e Gelsomina Cimino, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultima, in Roma, via Vittorio Veneto, n. 116; 

contro

Comune di Roma - Municipio I Centro Storico, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentato e difeso dall'avv. Rosalda Rocchi, con la quale è domiciliata in Roma, via del Tempio di Giove, n. 21; 

per la riforma

della sentenza del T.A.R. Lazio – Roma, Sezione II TER, n. 10386/2012, resa tra le parti, concernente l’occupazione abusiva di suolo pubblico ed il ripristino dello stato dei luoghi. 

 

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 2 marzo 2017 il Cons. Alessandro Maggio e uditi per le parti gli avvocati Gelsomina Cimino e Rosalda Rocchi;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

 

FATTO e DIRITTO

1.La T & T s.r.l. ha chiesto al Comune di Roma (ora Roma Capitale) il rilascio di una concessione per l’occupazione di un’area pubblica antistante al locale in cui la medesima esercita l’attività di somministrazione di alimenti e bevande.

Trascorsi sessanta giorni dal presentazione della domanda la T & T - sul presupposto che sull’istanza si fosse formato il silenzio assenso - ha occupato l’area oggetto della richiesta.

Con ordinanza 20/7/2010 n. 57535, il Comune di Roma – visti i verbali con cui la Polizia Municipale aveva constatato la detta occupazione - ha ingiunto alla T & T di ripristinare lo stato dei luoghi e ha contestualmente comunicato l’avvio del procedimento finalizzato alla chiusura del locale per dieci giorni.

Ritenendo tali atti, unitamente alla presupposta ordinanza sindacale 25/5/2010 n. 128, illegittimi, la T & T li ha impugnati davanti al TAR Lazio – Roma.

2. Successivamente l’amministrazione capitolina ha applicato la prevista sanzione amministrativa (verbali datati 30/7/2010) e ha emesso la determinazione 6/8/2010 n. 1548, con cui ha ordinato la chiusura del locale per 10 giorni.

Tali atti sono stati impugnati con un primo ricorso per motivi aggiunti.

3. Con un secondo ricorso per motivi aggiunti la T & T ha gravato la determinazione 10/9/2010 n. CA/69839, con cui è stato denegato il rilascio della concessione per l’occupazione di suolo pubblico.

4. Infine, con un terzo ricorso per motivi aggiunti, la medesima ricorrente ha impugnato la nota comunale 18/1/2011 n. CA/3263, avente ad oggetto la comunicazione di avvio del procedimento di annullamento in autotutela del silenzio formatosi sull’istanza di concessione di suolo pubblico e la determinazione 31/1/2011 n. CA/7452, con la quale tale annullamento è stato disposto. 

5. Congiuntamente all’azione impugnatoria la ricorrente ha, inoltre, proposto domanda risarcitoria.

6. Il TAR ha definito il giudizio con sentenza 13/12/2012, n. 10386, con la quale ha:

a) in parte dichiarato inammissibile e in parte accolto il ricorso introduttivo;

b) dichiarato inammissibile il primo ricorso per motivi aggiunti;

c) in parte accolto e in parte dichiarato inammissibile il secondo ricorso per motivi aggiunti;

d) in parte dichiarato inammissibile e in parte respinto il terzo ricorso per motivi aggiunti;

e) respinto la domanda risarcitoria.

7. Avverso la sentenza ha proposto appello la T & T.

Per resistere al ricorso si è costituita in giudizio l’amministrazione appellata.

8. Con successive memorie entrambe le parti hanno illustrato le rispettive tesi difensive.

9. Alla pubblica udienza del 2/3/2017, la causa è passata in decisione.

10. Col primo motivo l’appellante censura l’impugnata sentenza per aver dichiarato il ricorso introduttivo inammissibile per difetto di giurisdizione, nella parte in cui è rivolto contro i verbali di elevazione delle sanzioni amministrative pecuniarie, e per difetto di interesse nella parte in cui è diretto nei confronti della comunicazione di avvio del procedimento finalizzato all’emissione del provvedimento di chiusura dell’esercizio commerciale per dieci giorni.

A dire dell’appellante, l’adito TAR non avrebbe considerato che tali atti erano stati impugnati solo in via incidentale, posto che l’oggetto dell’impugnazione era costituito principalmente dall’ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi, rispetto alla quale verbali e comunicazione di avvio si porrebbero, rispettivamente, quali atti presupposti e quale atto consequenziale.

La doglianza è infondata.

Al riguardo è sufficiente rilevare che a fronte di un’espressa richiesta di annullamento anche di tali atti il giudice adito non poteva esimersi dal pronunciare pure sugli stessi. 

11. Col secondo motivo si deduce che la sentenza sarebbe erronea nella parte in cui ha parzialmente respinto il ricorso introduttivo.

Il TAR ha così motivato la parziale reiezione: “… essendo stata riscontrata un’occupazione di 36 mq. di contro ad una richiesta di 21,56 mq. ne consegue che, comunque, quantomeno per la relativa differenza l’ordine di ripristino era stato legittimamente adottato da parte dell’amministrazione comunale, atteso che la società ricorrente non ha mai contestato nel merito l’entità dell’ampiezza dell’area indicata in sede di accertamento; ne consegue che, nell’indicata parte, il ricorso è infondato e va respinto, mentre è da accogliere limitatamente ai soli mq. 21,56 e per il solo ordine di ripristino dei luoghi”. 

Secondo l’appellante il giudice di prime cure non avrebbe considerato che con memoria procedimentale depositata in data 27/7/2010 e allegata al ricorso introduttivo, era stato precisato che la “rilevazione metrica degli accertatori è comprensiva di una parte del suolo (ca mq 15) che è stata semplicemente ricoperta dalla moquette per mascherare le evidenti discrepanze dell’asfalto in attesa di un intervento da parte del Comune e a tutela della già compromessa incolumità dei passanti”, ed era stata avanzata una richiesta di audizione mai esitata dall’amministrazione. 

Il motivo non merita accoglimento.

Correttamente il TAR ha osservato che “la società ricorrente non ha mai contestato nel merito l’entità dell’ampiezza dell’area indicata in sede di accertamento”, atteso che l’occupazione abusiva di suolo pubblico può essere realizzata anche mediante la semplice copertura del medesimo con una moquette, se la posa di quest’ultima non è stata preventivamente autorizzata.

12. Col terzo mezzo di gravame si contesta l’impugnata sentenza per aver scrutinato il primo ricorso per motivi aggiunti, nonostante questo fosse stato fatto oggetto di rinuncia nel corso della camera di consiglio del 15/9/2010.

La doglianza non merita accoglimento.

Invero dal verbale della suddetta camera di consiglio si ricava soltanto che la T & T ha rinunciato alla trattazione della misura cautelare proposta col primo ricorso per motivi aggiunti, ma non che la stessa abbia rinunciato anche al ricorso.

13. Col quarto motivo l’appellante lamenta che il giudice di prime cure avrebbe errato nel ritenere il terzo ricorso per motivi aggiunti in parte inammissibile e in parte infondato.

Il gravame non avrebbe potuto essere dichiarato inammissibile nella parte in cui è rivolto contro la comunicazione di avvio del procedimento di annullamento in autotutela, considerato che quest’ultima è stata impugnata quale atto presupposto e che le motivazioni del ritiro sono rilevabili esclusivamente dalla predetta comunicazione. 

Ugualmente erronea sarebbe la reiezione del ricorso nella restante parte, posto che, diversamente da quanto ritenuto dal TAR:

a) il riferimento ai preesistenti pareri menzionati nell’atto di autotutela non sarebbe sufficiente al fine di integrare la motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico attuale all’esercizio del potere di riesame, essendo stati i medesimi emanati ben sette mesi prima del detto atto;

b) non sarebbe vero che in precedenza l’amministrazione non aveva potuto servirsi degli stessi pareri tanto che i medesimi erano citati anche nel provvedimento di diniego della concessione, atto col quale la medesima amministrazione aveva consumato il proprio potere decisionale;

c) non sarebbero comprensibili le ragioni per cui l’interesse pubblico alla viabilità e al traffico sia stato ritenuto così preminente da giustificare l’esercizio del potere di annullamento;

d) il provvedimento di ritiro non sarebbe sorretto da un’adeguata istruttoria.

La doglianza non merita accoglimento sotto nessuno dei profili in cui articola.

Occorre, intanto, rilevare che, per pacifica giurisprudenza, la comunicazione di avvio del procedimento, essendo priva di autonoma lesività, non è atto impugnabile (in termini, tra le tante, Cons. Stato, Sez. V, 16/2/2015, n. 791).

Non colgono, poi, nel segno le restanti censure.

Come correttamente ritenuto dal giudice di prime cure, l’amministrazione ha infatti ben evidenziato, attraverso il rimando al contenuto dei pareri citati nel provvedimento di autotutela, quale fosse l’interesse pubblico attuale all’esercizio del potere di riesame; interesse connesso all’esigenza di garantire la circolazione e in particolare la sosta di ciclomotori e veicoli per disabili, il cui apprezzamento è rimesso alle scelte di merito dell’amministrazione, insindacabili sotto il profilo della legittimità.

Il riferimento a tali pareri – provenienti dal Dipartimento VII della Polizia Municipale e dal rappresentante del SI – è sufficiente a sorreggere il provvedimento di ritiro sia sotto il profilo istruttorio, sia sotto quello motivazionale. 

A quest’ultimo riguardo occorre puntualizzare che la circostanza che i detti pareri risalissero ad alcuni mesi prima che intervenisse l’avversato provvedimento di secondo grado, non è idonea a viziare l’atto, atteso che, attraverso il recepimento degli stessi, l’autorità emanante ha espresso un’autonoma valutazione in ordine all’attuale persistenza dell’interesse pubblico evidenziato nella sede consultiva. 

Né può ritenersi che per il fatto di aver espressamente negato il rilascio della concessione all’occupazione del suolo pubblico l’amministrazione avesse perso il potere di agire, poi, in autotutela sul silenzio assenso formatosi sull’istanza di rilascio della detta concessione. E’ semmai vero il contrario, ossia che una volta formatosi il provvedimento tacito di assenso, l’amministrazione non aveva più il potere di respingere l’istanza, potendo unicamente agire in autotutela – come correttamente ha fatto - al fine di rimuovere gli effetti discendenti dalla pregressa inerzia. 

14. Col quinto motivo si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha respinto la domanda con cui la T & T aveva chiesto il risarcimento dei danni subiti per non aver potuto utilizzare l’area di che trattasi.

Il TAR, tenuto conto che in data 7/10/2010 era intervenuto decreto penale di sequestro preventivo della stessa, ha affermato che: “il periodo d’interesse … sarebbe quello compreso tra la notifica dell’ordinanza di ripristino del 20.7.2010, avvenuta in data 22.7.2010, o meglio tra la scadenza dei 7 giorni per l’esecuzione del ripristino, ossia il 29.7.2010, e il 6.10.2010; tuttavia dalla documentazione in atti emerge che alla data del 30.7.2010 l’occupazione era ancora in corso come anche d’altronde analogamente accertato alla successiva data dell’1.10.2010, in misura, peraltro, consistentemente superiore a quanto indicato nell’istanza di rilascio del titolo sulla quale si sarebbe formato il silenzio assenso.

Deve quindi ritenersi che il provvedimento di ripristino, il quale avrebbe dovuto produrre i suoi effetti nel limitato periodo in precedenza indicato del 29.7.2010-7.10.2010, in realtà, come accertato agli atti, non ha prodotto alcun effetto lesivo per la società ricorrente, la quale non vi ha dato concreta esecuzione, perseverando nell’occupazione dell’area di interesse, peraltro in misura eccedente rispetto al titolo concessorio; tanto è vero che solo con il sequestro dei beni si è potuta realizzare la finalità cui l’amministrazione tendeva proprio con l’adozione del predetto provvedimento di ripristino dei luoghi”.

Deduce l’appellante che, così motivando, il giudice di prime cure non avrebbe considerato il nesso di causalità esistente tra l’ordinanza di ripristino e il decreto penale di sequestro (adottato sulla base di un’informativa di reato proveniente dalla Polizia municipale): infatti se l’amministrazione non avesse negato la formazione del silenzio assenso e non avesse adottato l’ordinanza di ripristino, non sarebbe stato emanato nemmeno il menzionato decreto penale.

La doglianza è infondata.

Al riguardo è sufficiente rilevare che - come si ricava dall’art. 321 c.p.p. - il sequestro penale preventivo è disposto dall’autorità giudiziaria sulla base di valutazioni di sua esclusiva pertinenza che concernono la sussistenza delle condizioni di cui al comma 1 della citata norma.

15. L’appellante lamenta, ancora, che il giudice di prime cure avrebbe erroneamente omesso di pronunciare in ordine ai motivi dedotti contro l’ordinanza n. 128 del 2010. 

La doglianza è inammissibile.

Ai sensi dell’art. 101, comma 2, del c.p.a.: “Si intendono rinunciate le domande e le eccezioni assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado, che non siano state espressamente riproposte nell’atto d’appello …”.

Nel caso di specie, l’appellante si è limitato a dedurre, del tutto genericamente, che il giudice di prime cure avrebbe omesso di pronunciare “circa la violazione di legge in riferimento all’art. 54 del D. Lgs. n. 267/2000 …” così violando l’onere di specificità imposto dalla trascritta norma.

16. La T & T censura, infine, l’impugnata sentenza nella parte in cui ha posto a suo carico le spese processuali, nonostante il parziale accoglimento del ricorso.

La doglianza non merita accoglimento.

Occorre premettere che in tema di condanna alla spese processuali, il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle stesse (Cass. Civ. Sez. I, 23/2/2012, n. 2736).

Nel caso di specie, il TAR ha addebitato le spese di lite alla parte ricorrente in quanto, sulla base di un giudizio non sindacabile nel merito, ha ritenuto che, considerato il complessivo oggetto della lite, quest’ultima risultasse sostanzialmente soccombente, atteso che il ricorso aveva avuto esito favorevole solo per una limitatissima parte (Cass. Civ., Sez. III, 27/1/2013, n. 1193). 

17. L’appello va, in definitiva, respinto.

Restano assorbiti tutti gli argomenti di doglianza, motivi od eccezioni non espressamente esaminati che il Collegio ha ritenuto non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.

Spese e onorari di giudizio, liquidati come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna l’appellante al pagamento delle spese processuali in favore dell’appellata, liquidandole forfettariamente in complessivi € 2.000/00 (duemila), oltre accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 2 marzo 2017 con l'intervento dei magistrati:

 

 

Carlo Saltelli, Presidente

Roberto Giovagnoli, Consigliere

Claudio Contessa, Consigliere

Fabio Franconiero, Consigliere

Alessandro Maggio, Consigliere, Estensore

 

 

 

 

     
     
L'ESTENSORE   IL PRESIDENTE
Alessandro Maggio   Carlo Saltelli
     
     
     
     
     

IL SEGRETARIO

 

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