Tuesday 11 November 2014 13:28:27

Giurisprudenza  Giustizia e Affari Interni

Immediata lesività della delibera comunale: un atto generale, pur quando ha natura regolamentare, è immediatamente impugnabile quando incide - senza la necessaria intermediazione di provvedimenti applicativi – sui comportamenti e sulle scelte dei suoi destinatari

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 7.11.2014

Un atto generale, pur quando ha natura regolamentare, è immediatamente impugnabile quando incide senz’altro – senza la necessaria intermediazione di provvedimenti applicativi – sui comportamenti e sulle scelte dei suoi destinatari.Questo il principio ribadito dal Consiglio di Stat che nella sentenza in esame ha evidenziato come il soggetto autorizzato a svolgere una certa attività, in concreto avente alcune caratteristiche (e anche quando gestisca un bene pubblico), ben può impugnare l’atto amministrativo generale che regoli – senza necessità di un atto applicativo – la medesima attività sotto qualsiasi suo profilo di svolgimento e di convenienza nei rapporti contrattuali con i terzi (cfr. Sez. V, 16 febbraio 2002, n. 960).Nella specie, risulta immediatamente lesivo ed impugnabile il provvedimento che – nell’individuare i casi in cui il concessionario del bene comunale possa disporne la cessione ad un soggetto subentrante – ha fissato la ulteriore e strettamente connessa regola per la quale, a seguito e a causa della cessione, il medesimo subentrante debba corrispondere al concedente un importo superiore a quello in precedenza dovuto dal concessionario: è evidente come di per sé una tale regola sia idonea ad incidere sulle valutazioni della convenienza delle trattative tra le imprese e sulla positiva conclusione del contratto di cessione tra il concessionario ed il subentrante.Per scaricare la sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

 

Testo del Provvedimento (Apri il link)

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

 

ex artt. 38 e 60 cod. proc. amm.

sul ricorso numero di registro generale n. 7805 del 2014, proposto dal Comune di Milano, rappresentato e difeso dagli avvocati Antonello Mandarano, Ruggero Meroni e Raffaele Izzo, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Raffaele Izzo in Roma, Lungotevere Marzio, n. 3;

 

contro

La s.r.l. Viganò Alta Moda, rappresentata e difesa dagli avvocati Claudio Sala, Maria Sala e Stefano Gattamelata, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Stefano Gattamelata in Roma, via di Monte Fiore, n. 22; 



sul ricorso numero di registro generale 7989 del 2014, proposto dall’Associazione Salotto di Milano, dalla s.p.a. Cielo, dalla s.a.s. Archenti di Pozzi Archenti Paolo, dai signori Paolo Pozzi Archenti, Silvana Archenti e Silvia Roncoroni, dalla s.r.l. Ride, dalla s.r.l. Sogeria, rappresentati e difesi dagli avvocati Giancarlo Tanzarella e Giovanni Corbyons, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Giovanni Corbyons in Roma, via Cicerone, n..44; 

contro

la s.r.l. Viganò Alta Moda, rappresentata e difesa dagli avvocati Maria Sala, Claudio Sala e Stefano Gattamelata, con domicilio eletto presso l’avvocato Stefano Gattamelata in Roma, via di Monte Fiore, n. 22; 

nei confronti di

Il Comune di Milano, rappresentato e difeso dagli avvocati Antonello Mandarano, Ruggero Meroni, Irma Marinelli ed Anna Maria Pavin, con domicilio eletto presso l’avvocato Raffaele Izzo in Roma, Lungotevere Marzio, n. 3;

per la riforma

quanto ad ambedue i ricorsi:

della sentenza del T.a.r. Lombardia, Milano, Sez. IV n. 2218/2014, che ha accolto il ricorso di primo grado n. 2823 del 2012 (proposto dalla s.r.l. Viganò Alta Moda contro il Comune di Milano), concernente la regolamentazione dei subentri nei locali destinati ad uso commerciale, posti nella Galleria Vittorio Emanuele II;

 

 

Visti gli atti d’appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in entrambi i giudizi della s.r.l. Viganò Alta Moda e l’atto di costituzione del Comune di Milano nel giudizio n. 7989 del 2014;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 28 ottobre 2014 il Cons. Raffaele Prosperi e uditi per le parti gli avvocati Mandarano, Gattamelata e Tanzarella;

Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.;

Considerato che le parti hanno aderito alla segnalazione del presidente del collegio, il quale ha prospettato che, al termine della camera di consiglio, la causa sarebbe stata decisa con una sentenza, pubblicata nel rispetto dei termini ordinari, e non con una ordinanza cautelare;

CONSIDERATO IN FATTO E IN DIRITTO

 

 

1. Il Comune di Milano è proprietario dei locali ad uso commerciale, siti all’interno della Galleria Vittorio Emanuele II.

L’Amministrazione comunale ha emanato nel corso del tempo alcuni regolamenti, che hanno previsto l’emanazione di concessioni per la gestione e l’utilizzazione di questi locali.

Con la delibera n. 1497 del 13 luglio 2012, impugnata in primo grado, la giunta comunale di Milano ha approvato le “linee di indirizzo per la regolamentazione dei subentri in corso di concessione nei locali di proprietà comunale ad uso commerciale”, siti all’interno della Galleria.

Per quanto rileva nel presente giudizio, tale delibera ha consentito ai concessionari di concludere contratti di cessione di azienda o di rami d’azienda, attribuendo all’Amministrazione il potere di valutare la compatibilità della subentrante attività commerciale con le esigenze di decoro della Galleria e prevedendo che la cessionaria – per il periodo di efficacia residua della concessione, avente comunque la durata massima di dodici anni – è tenuta a corrispondere il doppio del canone in precedenza corrisposto dalla concessionaria cedente.

2. Con il ricorso di primo grado n. 2823 del 2012, proposto al TAR della Lombardia, la s.r.l. Viganò Alta Moda ha impugnato la delibera n. 1497 del 13 luglio 2012, censurando in particolar modo la norma regolamentare con cui il Comune ha disciplinato il cambiamento dell’insegna o della destinazione d’uso o del marchio, stabilendo che il subentrante - per il periodo rimanente della concessione – debba corrispondere il doppio del canone corrisposto dal precedente concessionario.

2.1. In punto di fatto, la società ha concluso in data 6 giugno 2008 la convenzione con il Comune, avente l’efficacia di dodici anni, ed ha poi concluso in data 6 ottobre 2011 un contratto di cessione di ramo d’azienda (con la società Morellato), condizionato sospensivamente al rilascio della autorizzazione comunale.

La società concessionaria ha dato comunicazione di tale contratto in data 8 novembre 2011 al Comune e nel mese di dicembre ha chiesto il rilascio della autorizzazione.

Il Comune ha respinto l’istanza con l’atto n. 17 del 10 gennaio 2012, impugnato con un distinto ricorso al TAR (n. 896 del 2012).

2.2. A fondamento del suo ricorso di primo grado n. 2823 del 2012, la società ha dedotto che il regolamento comunale, come modificato dalla delibera n. 1497 del 2012, tutelerebbe esclusivamente ‘interessi economici’ del Comune, in violazione dei principi della libera iniziativa economica, del divieto di disparità di trattamento tra le imprese e del dovere per l’Amministrazione di scegliere il concessionario unicamente in esito ad un procedimento di evidenza pubblica.

3. Con la sentenza n. 2218 del 22 agosto 2014, il TAR per la Lombardia ha accolto il ricorso, rilevando che:

- le modificazioni disposte con la impugnata delibera n. 1497 del 2012 – in ordine alla disciplina delle concessioni dei locali della Galleria adibiti a uso commerciale - sarebbero irragionevoli e arbitrarie, in quanto inciderebbero sull’autonomia negoziale del concessionario e del subentrante, e si porrebbero in contrasto con i principi europei e nazionali sul rispetto della libera concorrenza e sulla parità di trattamento tra gli operatori economici;

- l’Amministrazione concedente – in sede di regolamentazione del subentro nel rapporto concessorio – non potrebbe attribuire decisivo rilievo alla “massimizzazione del suo profitto”, conseguente alla pur riconosciuta libertà attribuita alle parti private di sostituire il concessionario, prima del termine finale di efficacia del rapporto concessorio.

4. Con l’appello in esame n. 7805 del 2014, notificato il 16 settembre 2014, il Comune di Milano ha impugnato la sentenza del TAR, deducendo preliminarmente che il ricorso di primo grado sarebbe inammissibile, sia per carenza di interesse a ricorrere, sia per mancata sua notifica ad almeno un controinteressato.

Il Comune ha altresì dedotto che il TAR ha erroneamente accolto le censure della società appellata, poiché la delibera n. 1497 del 2012:

- ha attribuito adeguato rilievo alle iniziative economiche poste in essere dai concessionari dei locali della Galleria, e cioè alle cessioni di rami di aziende, per la prevista possibilità di subentro nel rapporto concessorio di imprese da loro individuate;

- allo stesso tempo ha valorizzato il patrimonio comunale, prevedendo la percezione – da parte dell’Amministrazione - di un canone raddoppiato rispetto a quello precedente, qualora soggetti privati vogliano investire nei locali della Galleria, subentrando ai concessionari quali cessionari d’azienda;

- ha rispettato i principi europei e nazionali sulla scelta dei concessionari mediante la pubblica gara, poiché – nel caso di subentro del cessionario - comunque l’originaria concessione conserva il suo termine finale di efficacia, con il conseguente obbligo di bandire una gara ulteriore al termine della naturale scadenza della concessione originaria.

5. La sentenza del TAR è stata impugnata anche con l’appello n. 7989 del 2014, notificato in data 6 ottobre 2014 dalle imprese indicate in epigrafe, esercenti attività commerciali in locali situati all’interno della Galleria, nonché dall’Associazione Salotto di Milano, nella sua qualità di ente esponenziale delle medesime imprese.

Con tale atto di appello, le imprese e le associazioni hanno rilevato di non aver ricevuto la notifica del ricorso di primo grado, e quindi di non aver rivestito la qualità di parte originaria nel giudizio innanzi al TAR, ed hanno anch’esse contestato la sentenza del TAR, deducendo che la delibera n. 1497 del 2012 ha concretizzato un “ampliamento della libertà di impresa”, oltre un immediato vantaggio per il Comune.

6. I due appelli in epigrafe vanno riuniti, in quanto proposti avverso la medesima sentenza.

7. Quanto all’atto di appello n. 7989 del 2014, rileva la Sezione che esso è stato proposto da soggetti che non sono intervenuti nel corso del giudizio di primo grado e non sono dunque risultate parti formali nel medesimo giudizio.

L’appello, in quanto tale, va dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 102, comma 1, del codice del processo amministrativo, per il quale “possono proporre appello le parti fra le quali è stata pronunciata la sentenza di primo grado”.

Tuttavia, tale atto di ‘appello’ – conformemente a quanto chiesto dai medesimi soggetti nel corso della camera di consiglio – può essere qualificato come atto di intervento nel giudizio d’appello proposto dal Comune di Milano.

Va infatti fatta applicazione dell’art. 32, comma 2, del codice del processo amministrativo, per il quale “il giudice qualifica l’azione proposta in base ai suoi elementi sostanziali. Sussistendone i presupposti il giudice può sempre disporre la conversione delle azioni”.

Ne consegue che le censure formulate con tale atto di intervento (formalmente depositato come appello rubricato al n. 7989 del 2014) non possono essere di per sé esaminate, dovendosi applicare il principio per il quale l’interveniente non può ampliare il thema decidendi e non può formulare specifiche censure contro il provvedimento impugnato (sia esso un atto amministrativo in primo grado, ovvero la sentenza del TAR, nel giudizio di secondo grado).

8. Passando all’esame delle censure formulate dal Comune di Milano avverso la sentenza del TAR, ritiene la Sezione che vadano innanzitutto respinte quelle secondo le quali il ricorso di primo grado sarebbe inammissibile, per carenza di interesse attuale a ricorrere, nonché per la mancata sua notifica ad almeno un controinteressato.

8.1. Quanto alla immediata lesività della delibera impugnata in primo grado, va richiamato il principio per il quale un atto generale, pur quando ha natura regolamentare, è immediatamente impugnabile quando incide senz’altro – senza la necessaria intermediazione di provvedimenti applicativi – sui comportamenti e sulle scelte dei suoi destinatari.

Come ha già rilevato questo Consiglio, il soggetto autorizzato a svolgere una certa attività, in concreto avente alcune caratteristiche (e anche quando gestisca un bene pubblico), ben può impugnare l’atto amministrativo generale che regoli – senza necessità di un atto applicativo – la medesima attività sotto qualsiasi suo profilo di svolgimento e di convenienza nei rapporti contrattuali con i terzi (cfr. Sez. V, 16 febbraio 2002, n. 960).

Nella specie, risulta immediatamente lesivo ed impugnabile il provvedimento che – nell’individuare i casi in cui il concessionario del bene comunale possa disporne la cessione ad un soggetto subentrante – ha fissato la ulteriore e strettamente connessa regola per la quale, a seguito e a causa della cessione, il medesimo subentrante debba corrispondere al concedente un importo superiore a quello in precedenza dovuto dal concessionario: è evidente come di per sé una tale regola sia idonea ad incidere sulle valutazioni della convenienza delle trattative tra le imprese e sulla positiva conclusione del contratto di cessione tra il concessionario ed il subentrante.

8.2. Quanto al motivo d’appello secondo cui si sarebbe dovuto notificare il ricorso di primo grado ad eventuali controinteressati, va osservato che la impugnata delibera n. 1497 del 2012 non fa riferimento a soggetti da essa beneficiati.

Del resto, gli altri concessionari di beni comunali, posti all’interno della Galleria, neanche sotto il profilo sostanziale possono essere qualificati come controinteressati, poiché anch’essi risultano destinatari delle regole introdotte con la medesima delibera e, in quanto tali, vanno qualificati come soggetti legittimati ad impugnarla.

Costituisce poi una valutazione di ciascun concessionario quella di considerare ‘lesiva’ la delibera, in quanto prevede la corresponsione di un importo ulteriore al Comune concedente (tale da poter influire sulla convenienza di una ipotetica cessione ad altri del proprio rapporto concessorio), ovvero di considerarla ‘vantaggiosa’, in quanto volta complessivamente ad attribuire nuove opportunità ai concessionari ed a salvaguardare lo stesso decoro della Galleria.

9. Passando all’esame delle altre censure del Comune, volte ad evidenziare l’infondatezza del ricorso di primo grado, ritiene la Sezione che esse siano tutte fondate e vadano accolte.

10. Come si è rilevato nel precedente § 3, la sentenza appellata ha annullato le modificazioni dei precedenti regolamenti, disposte con la impugnata delibera n. 1497 del 2012, ritenendole irragionevoli, arbitrarie ed illegittime.

Ad avviso del TAR, l’Amministrazione comunale avrebbe determinato i nuovi criteri per ‘massimizzare i propri profitti’ derivanti dall’utilizzo dei suoi immobili siti nella Galleria Vittorio Emanuele II, evitando nel contempo di individuare il subentrante del concessionario con una procedura in evidenza pubblica (così violando le regole europee e nazionali poste a tutela della libera concorrenza) e incidendo indebitamente sull’autonomia negoziale del concessionario e del subentrante.

10. Ritiene al riguardo il Collegio che la contestata delibera n. 1497 del 2012 non sia affetta dai vizi riscontrati dal TAR.

10.1. In primo luogo, va osservato che costituisce una regola di buona amministrazione, imposta dall’art. 97 della Costituzione, quella che induce l’Amministrazione pubblica a valorizzare i propri beni e a ricavare dai suoi utilizzatori il massimo importo percepibile, sulla base di procedimenti precostituiti e trasparenti.

Tranne i casi in cui l’importo dei canoni sia fissato rigidamente dalla legge e tranne anche i casi i cui ai beni pubblici sia conferita dalla legge la funzione di consentire la realizzazione di finalità sociali da essa individuate (ad es., i casi di assegnazione di alloggi alle persone che ne abbiano bisogno, a canoni inferiori a quelli di mercato, o di assegnazione a titolo gratuito ad enti per finalità culturali o di conservazione dell’ambiente, ecc.), è un imprescindibile dovere dell’Amministrazione pubblica quello di mirare alla riscossione degli importi più elevati, in rapporto di sinallagmaticità con l’utilizzazione dei suoi beni.

Quanto più è appetibile il bene sul mercato, tanto più l’Amministrazione – nel rispetto della legge – può predisporre meccanismi procedimentali, volti alla riscossione degli importi più congrui (e dunque alla ordinaria gestione degli interessi pubblici sulla base di risorse anche così conseguite).

Ciò comporta che, contrariamente a quanto ritenuto dal TAR, nessun profilo di eccesso di potere può essere riscontrato nel fatto che la delibera n, 1497 del 2012 ha dichiaratamente mirato a incrementare le entrate comunali.

10.2. In secondo luogo, va osservato che non è pertinente il richiamo formulato dalla società ricorrente in primo grado, e fatto proprio dal TAR, ai principi del diritto europeo e del diritto nazionale sull’obbligo di indire la gara per la scelta dell’utilizzatore dei propri beni.

E’ decisivo considerare che le disposizioni regolamentari del Comune non hanno né soppresso, né limitato, né differito l’obbligo dell’amministrazione di indire periodicamente la gara per la scelta del concessionario.

Infatti, la durata del rapporto concessorio, avente per oggetto i beni della Galleria, è stata a suo tempo fissata in dodici anni e resta tale anche nel caso in cui – avvalendosi della possibilità attribuita dalla delibera n. 1497 del 2012 – un concessionario e il suo contraente giungano all’accordo avente per oggetto la cessione dell’utilizzo del bene.

Tale accordo può dunque avere effetti solo per il ‘periodo residuo’, ferma restando la data di scadenza della concessione originaria, avente la durata di dodici anni.

11. Una volta constatato che il Comune ben può valorizzare i propri beni, ricavando tutto ciò che il mercato può offrire, e che la delibera n. 1497 del 2012 non ha affatto precluso agli operatori commerciali di partecipare alle gare secondo le ordinarie scadenze delle concessioni, la Sezione ritiene che neppure sussistano i profili di irragionevolezza, rilevati dalla sentenza impugnata.

In realtà, la giunta comunale – nell’introdurre regole innovative con la delibera n. 1497 del 2012 per i casi di subentri nelle concessioni non ancora scadute – non solo non ha limitato o ristretto la libera concorrenza o la libertà della iniziativa economica, ma, al contrario, ha attribuito alle imprese concessionarie (e dunque alla stessa società ricorrente in primo grado) ulteriori opportunità di scelte e di guadagni, invece non previste dalle precedenti disposizioni regolamentari.

11.1. Sotto tale profilo, va innanzitutto rilevato come in linea di principio risponda ad una regola di buona amministrazione – di per sé riferibile alla gestione di qualsiasi bene del patrimonio pubblico – l’introduzione di un trasparente sistema per il quale il subentro nell’affitto o nel rapporto concessorio non sia rimesso alla libera volontà delle parti private.

Nell’atto genetico del rapporto ovvero con una determinazione generale e astratta (applicabile anche per i rapporti in corso, ma per le sopravvenute contrattazioni), infatti, l’Amministrazione titolare del bene ben può disporre che il proprio consenso – necessario per rendere opponibile il subentro e l’efficacia della cessione dell’affitto, del ramo d’azienda o del rapporto concessorio – sia subordinato non solo alla sussistenza dei requisiti morali di cui già deve essere titolare il concessionario e alla perdurante compatibilità con l’interesse pubblico del previsto utilizzo del bene, ma anche all’incremento di quanto risulti già dovuto dal cedente, così ottenendo anch’essa un vantaggio economico a causa della contrattazione avente per oggetto il bene che le appartiene e conseguente alle realtà del mercato.

11.2. Inoltre, con riferimento specifico alla gestione dei beni della Galleria, va confrontato il contenuto della impugnata delibera n. 1497 del 2012 con quello delle due precedenti delibere emanate in materia dal Comune nel corso del 2007:

- la delibera n. 2715 del 2007 aveva radicalmente vietato che mediante una cessione d’azienda potesse esservi la successione di un’altra impresa nel rapporto concessorio;

- per superare le rigidità di questo provvedimento, la delibera n. 3345 del 2007 aveva poi vietato la cessione soltanto nei tre anni successivi alla stipula della convenzione tra il Comune ed il concessionario, scoraggiando però la modifica delle attività commerciali, vietando lo stabile mutamento di insegne e di segni distintivi, salva l’emanazione di un motivato atto di deroga della giunta.

Con la delibera n. 1497 del 2012, invece, la giunta comunale ha consentito la conclusione di contratti di cessione d’azienda aventi per oggetto i propri beni (conclusione in precedenza non ammessa per il carattere “personale ed incedibile” delle concessioni), disciplinando ed ammettendo anche la modificazione del marchio o dell’insegna, prevedendo un meccanismo che ha tenuto non solo conto delle realtà del mercato e delle esigenze delle imprese, ma anche degli interessi pubblici, e in particolare dell’esigenza dell’Amministrazione – quanto meno di pari rango - di ottenere anch’essa un vantaggio economico, in conseguenza dell’affare concluso dalle parti private.

Le determinazioni dell’Amministrazione appellante risultano dunque del tutto ragionevoli, oltre che rispettose delle leggi sulla evidenza pubblica, poiché:

- se l’aspirante al subentro ritiene congruo il raddoppio del canone di concessione e addiviene alla scelta di concludere il contratto di cessione, ciò sta a significare che egli stesso ed il concessionario ritengono conveniente e conforme ai loro interessi quella sostituzione e le relative conseguenze economiche, in base alle realtà del mercato (sicché gli effetti del loro accordo sono eterointegrati dalla previsione sulla spettanza al Comune del canone doppio rispetto a quello dovuto dall’originario concessionario);

- l’approvazione comunale al subentro non può essere considerata una ‘limitazione’, poiché la possibilità della cessione della qualità di concessionario era in precedenza preclusa, mentre è stata consentita proprio dalla delibera impugnata in primo grado;

- i poteri che l’Amministrazione comunale si è riservata – in ordine alla valutazione sulla compatibilità degli esercizi commerciali con le tipologie ammesse - risultano del tutto ragionevoli, non solo perché strettamente connessi alla sua qualità di ente concedente (titolare del potere di fissare regole generali ed astratte per l’intera categoria dei concessionari: in tal senso Cons. Stato, Sez. V, 3 ottobre 1997, n. 1103), ma anche perché connessi alle indefettibili esigenze di tutela del bene monumentale, peraltro già rappresentate dalla nota della Soprintendenza del 7 luglio 2003.

12. Per le ragioni che precedono, le censure del Comune di Milano risultano fondate e vanno accolte, per la parte in cui hanno dedotto che il provvedimento impugnato in primo grado non risulta affetto dai vizi rilevati dal TAR.

Pertanto, in riforma della sentenza impugnata, il ricorso di primo grado n. 2823 del 2014 va respinto.

La condanna al pagamento delle spese dei due gradi del giudizio segue la soccombenza ed è liquidata nel dispositivo, nei rapporti tra il Comune di Milano e la società appellata.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta):

- riunisce gli appelli n. 7805 del 2014 e n. 7989 del 2014;

- dispone che l’appello n. 7989 del 2014 vada qualificato come atto di intervento nel giudizio n. 7805 del 2014;

- accoglie l’appello n. 7805 del 2014 per le ragioni esposte in motivazione e, per l’effetto, in integrale riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado n. 2823 del 2014;

- condanna la società appellata al pagamento di euro 15.000 (quindicimila) in favore del Comune di Milano, oltre accessori di legge, per spese ed onorari dei due gradi del giudizio;

- compensa tra le altre parti le spese del secondo grado del giudizio;

- dispone che la società appellata corrisponda al Comune di Milano il contributo unificato effettivamente versato.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 ottobre 2014 con l'intervento dei magistrati:

 

 

Luigi Maruotti, Presidente

Carlo Saltelli, Consigliere

Manfredo Atzeni, Consigliere

Fulvio Rocco, Consigliere

Raffaele Prosperi, Consigliere, Estensore

 

 

 

 

     
     
L'ESTENSORE   IL PRESIDENTE
     
     
     
     
     

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 07/11/2014

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

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