Sunday 16 February 2014 11:28:37
Giurisprudenza Procedimento Amministrativo e Riforme Istituzionali
segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 14.2.2014
Nel giudizio in esame l’appellante, già ricorrente in primo grado, è stato proclamato eletto consigliere comunale, in surrogazione di un consigliere dimissionario. Il Prefetto lo ha dichiarato sospeso di diritto dalla carica, ai sensi dell’art.11, comma 1, lettera a) del decreto legislativo n. 235/2012. Questa disposizione prevede che sia sospeso di diritto dalla carica il consigliere comunale condannato, con sentenza non definitiva, per determinati reati. Se in seguito la condanna diviene definitiva, il consigliere sospeso decade dalla carica; se invece sopravviene una nuova decisione (sia pure essa stessa non definitiva) che elimina la condanna la sospensione cessa, e l’interessato viene reintegrato nelle funzioni; in ogni caso, lo stato di sospensione non può eccedere una certa durata, e cessa di diritto allo scadere del termine se nel frattempo la sentenza non definitiva non è stata né confermata né riformata. Innanzi al Consiglio di Stato laprima e principale questione di costituzionalità che viene dedotta attiene ad un supposto “eccesso di delega”. Premesso che il d.lgs. n. 235/2012 è un testo unico emanato sulla base della delega conferita dal legislatore con l’art. 1, commi 63 e 64 della legge n. 190/2012 (detta anche legge anticorruzione), il ricorrente sostiene che la legge delega indica esclusivamente le condanne penali “definitive” quali presupposto della incandidabilità alla carica di consigliere comunale, ovvero della decadenza dalla stessa carica (se l’impedimento si verifica dopo l’assunzione della carica) o infine della sospensione. Ciò posto, sempre secondo il ricorrente, là dove il testo unico (decreto delegato) prevede la sospensione quale effetto di condanne penali “non definitive”, vi sarebbe un contrasto con la legge delega. Il Collegio osserva, innanzi tutto, che la “sospensione” è, per definizione, uno stato transitorio, necessariamente limitato nel tempo, e destinato a concludersi o con la definitiva cessazione dall’incarico (decadenza) o con la reintegrazione nelle funzioni. Sembra evidente dunque che la “sospensione” non possa dipendere, per sua stessa natura, che da una condanna non definitiva. Se invece la condanna è definitiva, vi è la decadenza, non la sospensione. Se la legge n. 190/2012 avesse veramente inteso accomunare la sospensione e la decadenza nel riferimento alla condanna “definitiva” avrebbe fatto un non senso; si sarebbe trattato, in realtà, della soppressione dell’istituto della “sospensione” e tanto valeva dirlo apertamente. Ciò appare ancor più evidente se si considera che nel disposto del d.lgs. n. 235/2012 (come del resto nella normativa anteriore) le fattispecie penali che dànno luogo alla sospensione sono un campo più ristretto di quello delle fattispecie che comportano la decadenza. Questa differenza si spiega ed appare perfettamente logica se si correla la sospensione ad una condanna non definitiva: proprio perché la posizione penale dell’interessato è ancora sub iudice la sospensione si giustifica solo per le ipotesi più gravi di reato; quando invece l’illecito penale è definitivamente accertato la decadenza si giustifica anche per ipotesi relativamente meno gravi. Si è visto, dunque, che subordinare la sospensione all’esistenza di una condanna “definitiva” equivale a cancellare la figura della sospensione. Ci si chiede, ora, se sia credibile che dettando la legge n. 190/2012 il legislatore avesse questa intenzione. Per rispondere a questa domanda è utile ripercorrere le evoluzioni della normativa in materia. L’istituto della sospensione degli amministratori regionali e degli enti locali assoggettati a un procedimento penale ha avuto la prima manifestazione nell’art. 15 della legge n. 55/1990. La sospensione si verificava al momento del rinvio a giudizio, peraltro limitatamente al delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.) ovvero al favoreggiamento dello stesso. La sospensione si trasformava in decadenza al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna. E’ poi intervenuta la legge n. 16/1992, art. 1, che ha modificato radicalmente il citato art. 15, introducendovi la nuova figura della “incandidabilità” alle elezioni amministrative e regionali. La norma disponeva l’incandidabilità in caso di condanna “anche non definitiva” per una serie di fattispecie penali di una certa gravità; per altre fattispecie meno gravi prevedeva che l’incandidabilità sorgesse per effetto di una condanna definitiva, o anche di una condanna in primo grado confermata in appello. Sin qui la norma si riferiva alle sentenze penali pronunciate prima dell’elezione. Nel caso che le condanne in questione sopravvenissero dopo l’elezione, la norma prevedeva la sospensione dalla carica, convertita di diritto in decadenza al momento del passaggio in giudicato. Queste disposizioni sono state trasfuse, con qualche modifica, nel testo unico enti locali (d.lgs. n. 267/2000), articoli 58 e 59. L’art. 58 concerneva l’incandidabilità conseguente alla condanna definitiva (era eliminato ogni riferimento alle condanne non definitive; l’art. 59 la sospensione conseguente alla condanna non definitiva (e, per talune fattispecie, alla condanna in primo grado confermata in appello). Il testo degli artt. 58 e 59 del t.u.e.l. è stato a sua volta trasfuso, senza rilevanti variazioni, nel testo degli artt. 10 e 11 del d.lgs. n. 235/2012. Da questa disamina risulta dunque che lo sviluppo della normativa in materia, anteriormente alla legge delega del 2012 e a partire dalla legge n. 55/1990, è stato sempre coerente nel prevedere lo strumento della sospensione dalla carica, in presenza di un procedimento penale per fattispecie penali di una certa gravità, pur in assenza di una condanna definitiva; sopravvenendo la quale alla sospensione subentra la decadenza. Anzi i vari passaggi hanno affinato la disciplina della sospensione, nel trasparente scopo di rendere tale strumento maggiormente efficace, e non già di renderlo evanescente. Ci si deve ora dar carico dell’interpretazione del “criterio” di cui all’art. 1, comma 63, lettera (m), della legge delega: «disciplinare le ipotesi di sospensione e decadenza di diritto dalle cariche di cui al comma 63 in caso di sentenza definitiva di condanna per delitti non colposi successiva alla candidatura o all'affidamento della carica». Secondo l’appellante, si è visto sopra, questa formulazione farebbe intendere che il legislatore delegante abbia voluto uniformare la disciplina della sospensione a quella della decadenza, facendo dipendere entrambe da una sentenza “definitiva” di condanna. Questa tesi interpretativa può sembrare suggestiva ove si abbia riguardo esclusivamente all’aspetto letterale. Ma, com’è noto, il criterio letterale è uno solo degli strumenti a disposizione dell’interprete, il quale deve usare anche gli strumenti della razionalità, della coerenza logica, della sistematica, etc., per ricostruire la effettiva volontà del legislatore. Comunque si voglia risolvere la questione interpretativa ora posta, dalla lettera (m) emerge senza possibile ambiguità, proprio sul piano letterale, che il legislatore delegante non ha voluto sopprimere l’istituto della sospensione, ma anzi conservarlo, tanto è vero che ha chiesto al legislatore delegato di “disciplinarlo”, vale a dire recepirlo nell’emanando testo unico. Peraltro, come si è già detto al punto 6, il concetto stesso di “sospensione”, in questa materia, reca in sé il necessario riferimento ad un presupposto (in questo caso la condanna penale) non ancora definitivo. Se vi è una condanna definitiva, non avrebbe alcun senso applicare una sospensione; a maggior ragione in quanto la condanna definitiva produce di diritto la “decadenza” (peraltro non tutte le fattispecie penali che comportano decadenza comportano anche la sospensione, mentre tutte le fattispecie che comportano la sospensione comportano anche la decadenza). In questa situazione, anche volendo tutto concedere alla tesi interpretativa dell’appellante, resta il fatto che sul piano letterale emergono due indicazioni inconciliabili fra loro: da un lato, la dichiarata volontà di conservare nel sistema l’istituto della sospensione (che implica per definizione il riferimento ad un processo in itinere) e dall’altro lato la (supposta) volontà di subordinare la sospensione all’esistenza di una condanna definitiva. L’esegesi meramente letterale non permette di sciogliere questa contraddizione. E’ quindi giocoforza ricorrere ad altri criteri. Il primo, già di per sé risolutivo, è quello per cui si deve preferire l’interpretazione che attribuisce un senso alla frase, piuttosto che quella che la rende priva di senso e di effetti pratici. Il secondo è quello per cui si deve preferire l’interpretazione più corrispondente alla ratio legis ed alla presumibile volontà del legislatore (ricostruibile anche mediante il riferimento al contesto politico-programmatico, alla evoluzione storica della legislazione, etc.), e più coerente con il sistema. In questo caso, ciascuno di questi criteri porta univocamente a rigettare la tesi interpretativa dell’appellante. Oltre a tutto quanto si è già detto a proposito dell’inquadramento sistematico, basti ricordare che l’intera legge n. 190/2012 è stata concepita con la dichiarata finalità di rendere più efficaci e penetranti gli strumenti di prevenzione e repressione della corruzione, anche per adempiere agli obblighi internazionali assunti in questo senso. Concludendo sul punto, la prospettazione dell’eccesso di delega appare manifestamente infondata. L’appellante propone altresì una seconda questione di costituzionalità sotto il profilo di una presunta illogicità, ovvero irragionevolezza, violazione del principio di uguaglianza, etc.. In sintesi, la questione si basa sulla circostanza che il regime della sospensione è differenziato per le varie fattispecie penali, cosicché può accadere che la sospensione consegua, di diritto ad una condanna a pena più lieve, e non consegua invece ad una condanna a pena più onerosa, solo perché la prima è stata pronunciata per un certo tipo di reato, e la seconda per un reato di altro tipo (in concreto l’interessato è stato sospeso dalla carica perché condannato a quattro mesi di reclusione per il reato di cui all’art. 323 c.p., abuso d’ufficio; mentre reati di altro genere non comportano la sospensione se la pena irrogata è inferiore a due anni di reclusione). Il Collegio ritiene manifestamente infondata anche questa eccezione. Infatti non è irragionevole che il legislatore differenzi il regime della sospensione dalla carica a seconda delle tipologie di reato. La sospensione dalla carica va intesa, in sostanza, come uno strumento cautelare: la norma vuol allontanare dall’esercizio di determinate funzioni pubbliche il soggetto che, avendo riportato una condanna penale sia pur non definitiva, presenta un apprezzabile rischio di esercitarle in modo illecito o comunque contrario al pubblico interesse. E’ intuitivo che, a parità di pena irrogata, le condanne per taluni tipi di reato (ad esempio: i reati del pubblico ufficiale contro la pubblica amministrazione) hanno un valore indiziario più significativo rispetto alle condanne per altri tipi di reato. S’intende che le valutazioni compiute dal legislatore al riguardo sono altamente discrezionali, e come tali opinabili: ma nel caso in esame non sono irragionevoli. Per scaricare la sentenza per esteso cliccare su "Accedi al Provvedimento".
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
ex artt. 38 e 60 cod. proc. amm.
sul ricorso numero di registro generale *** del 2013, proposto da:
***, rappresentato e difeso dagli avv. Ernesto Sticchi Damiani e Flavio Fasano, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Sticchi Damiani in Roma, via Bocca di Leone, n. 78;
contro
Ministero dell'Interno, in persona del Ministro pro-tempore, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via dei Portoghesi, n.12;
Comune di ****, in persona del Comune pro-tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Pietro Quinto, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Alfredo Placidi in Roma, via Cosseria, n. 2;
nei confronti di
***;
per la riforma
della sentenza breve del T.A.R. PUGLIA - SEZ. STACCATA DI LECCE, SEZIONE I, n. ****, resa tra le parti, concernente sospensione dalla carica di consigliere comunale.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno e di Comune di Parabita;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 30 gennaio 2014 il Cons. Paola Alba Aurora Puliatti e uditi per le parti gli avvocati Dettori su delega di Sticchi Damiani, Taurino su delega di Fasano, Quinto e dello Stato Vessichelli;
Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
1. L’appellante, già ricorrente in primo grado, è stato proclamato eletto consigliere comunale del Comune di Parabita, in surrogazione di un consigliere dimissionario.
Il Prefetto di Lecce lo ha dichiarato sospeso di diritto dalla carica, ai sensi dell’art.11, comma 1, lettera a)del decreto legislativo n. 235/2012. Questa disposizione in effetti prevede che sia sospeso di diritto dalla carica il consigliere comunale condannato, con sentenza non definitiva, per determinati reati. Se in seguito la condanna diviene definitiva, il consigliere sospeso decade dalla carica; se invece sopravviene una nuova decisione (sia pure essa stessa non definitiva) che elimina la condanna la sospensione cessa, e l’interessato viene reintegrato nelle funzioni; in ogni caso, lo stato di sospensione non può eccedere una certa durata, e cessa di diritto allo scadere del termine se nel frattempo la sentenza non definitiva non è stata né confermata né riformata.
2. L’interessato ha proposto ricorso al T.A.R. Puglia, sezione staccata di Lecce. Il ricorrente non sollevava alcuna contestazione sulla correttezza del provvedimento in sé; l’impugnazione consisteva invece unicamente nella prospettazione di alcune eccezioni di costituzionalità nei confronti del d.lgs. n. 235/2012.
Il T.A.R. Lecce, con la sentenza n. 2257/2013, ha respinto il ricorso a conclusione di un’ampia ed argomentata disamina delle eccezioni di costituzionalità, che ne dimostrava la manifesta infondatezza.
3. L’interessato propone ora appello a questo Consiglio, riproponendo le questioni già disattese dal giudice di primo grado. Resistono all’appello l’Amministrazione dell’Interno ed il Comune di Parabita. Non si è costituito il controinteressato evocato in giudizio (che è il candidato che ha assunto le funzioni di consigliere comunale in supplenza del ricorrente sospeso).
4. Il Collegio, all’esito della camera di consiglio cautelare, avendone dato avviso alle parti ravvisa le condizioni per procedere alla definizione immediata della controversia.
5. La prima e principale questione di costituzionalità che viene dedotta attiene ad un supposto “eccesso di delega”.
Premesso che il d.lgs. n. 235/2012 è un testo unico emanato sulla base della delega conferita dal legislatore con l’art. 1, commi 63 e 64 della legge n. 190/2012 (detta anche legge anticorruzione), il ricorrente sostiene che la legge delega indica esclusivamente le condanne penali “definitive” quali presupposto della incandidabilità alla carica di consigliere comunale, ovvero della decadenza dalla stessa carica (se l’impedimento si verifica dopo l’assunzione della carica) o infine della sospensione.
Ciò posto, sempre secondo il ricorrente, là dove il testo unico (decreto delegato) prevede la sospensione quale effetto di condanne penali “non definitive”, vi sarebbe un contrasto con la legge delega.
6. Il Collegio osserva, innanzi tutto, che la “sospensione” è, per definizione, uno stato transitorio, necessariamente limitato nel tempo, e destinato a concludersi o con la definitiva cessazione dall’incarico (decadenza) o con la reintegrazione nelle funzioni.
Sembra evidente dunque che la “sospensione” non possa dipendere, per sua stessa natura, che da una condanna non definitiva. Se invece la condanna è definitiva, vi è la decadenza, non la sospensione. Se la legge n. 190/2012 avesse veramente inteso accomunare la sospensione e la decadenza nel riferimento alla condanna “definitiva” avrebbe fatto un non senso; si sarebbe trattato, in realtà, della soppressione dell’istituto della “sospensione” e tanto valeva dirlo apertamente.
Ciò appare ancor più evidente se si considera che nel disposto del d.lgs. n. 235/2012 (come del resto nella normativa anteriore) le fattispecie penali che dànno luogo alla sospensione sono un campo più ristretto di quello delle fattispecie che comportano la decadenza. Questa differenza si spiega ed appare perfettamente logica se si correla la sospensione ad una condanna non definitiva: proprio perché la posizione penale dell’interessato è ancora sub iudice la sospensione si giustifica solo per le ipotesi più gravi di reato; quando invece l’illecito penale è definitivamente accertato la decadenza si giustifica anche per ipotesi relativamente meno gravi.
7. Si è visto, dunque, che subordinare la sospensione all’esistenza di una condanna “definitiva” equivale a cancellare la figura della sospensione. Ci si chiede, ora, se sia credibile che dettando la legge n. 190/2012 il legislatore avesse questa intenzione. Per rispondere a questa domanda è utile ripercorrere le evoluzioni della normativa in materia.
8. L’istituto della sospensione degli amministratori regionali e degli enti locali assoggettati a un procedimento penale ha avuto la prima manifestazione nell’art. 15 della legge n. 55/1990. La sospensione si verificava al momento del rinvio a giudizio, peraltro limitatamente al delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.) ovvero al favoreggiamento dello stesso. La sospensione si trasformava in decadenza al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna.
E’ poi intervenuta la legge n. 16/1992, art. 1, che ha modificato radicalmente il citato art. 15, introducendovi la nuova figura della “incandidabilità” alle elezioni amministrative e regionali. La norma disponeva l’incandidabilità in caso di condanna “anche non definitiva” per una serie di fattispecie penali di una certa gravità; per altre fattispecie meno gravi prevedeva che l’incandidabilità sorgesse per effetto di una condanna definitiva, o anche di una condanna in primo grado confermata in appello. Sin qui la norma si riferiva alle sentenze penali pronunciate prima dell’elezione. Nel caso che le condanne in questione sopravvenissero dopo l’elezione, la norma prevedeva la sospensione dalla carica, convertita di diritto in decadenza al momento del passaggio in giudicato.
Queste disposizioni sono state trasfuse, con qualche modifica, nel testo unico enti locali (d.lgs. n. 267/2000), articoli 58 e 59. L’art. 58 concerneva l’incandidabilità conseguente alla condanna definitiva (era eliminato ogni riferimento alle condanne non definitive; l’art. 59 la sospensione conseguente alla condanna non definitiva (e, per talune fattispecie, alla condanna in primo grado confermata in appello).
Il testo degli artt. 58 e 59 del t.u.e.l. è stato a sua volta trasfuso, senza rilevanti variazioni, nel testo degli artt. 10 e 11 del d.lgs. n. 235/2012.
8. Da questa disamina risulta dunque che lo sviluppo della normativa in materia, anteriormente alla legge delega del 2012 e a partire dalla legge n. 55/1990, è stato sempre coerente nel prevedere lo strumento della sospensione dalla carica, in presenza di un procedimento penale per fattispecie penali di una certa gravità, pur in assenza di una condanna definitiva; sopravvenendo la quale alla sospensione subentra la decadenza. Anzi i vari passaggi hanno affinato la disciplina della sospensione, nel trasparente scopo di rendere tale strumento maggiormente efficace, e non già di renderlo evanescente.
9. Ci si deve ora dar carico dell’interpretazione del “criterio” di cui all’art. 1, comma 63, lettera (m), della legge delega: «disciplinare le ipotesi di sospensione e decadenza di diritto dalle cariche di cui al comma 63 in caso di sentenza definitiva di condanna per delitti non colposi successiva alla candidatura o all'affidamento della carica».
Secondo l’appellante, si è visto sopra, questa formulazione farebbe intendere che il legislatore delegante abbia voluto uniformare la disciplina della sospensione a quella della decadenza, facendo dipendere entrambe da una sentenza “definitiva” di condanna. Questa tesi interpretativa può sembrare suggestiva ove si abbia riguardo esclusivamente all’aspetto letterale. Ma, com’è noto, il criterio letterale è uno solo degli strumenti a disposizione dell’interprete, il quale deve usare anche gli strumenti della razionalità, della coerenza logica, della sistematica, etc., per ricostruire la effettiva volontà del legislatore.
Comunque si voglia risolvere la questione interpretativa ora posta, dalla lettera (m) emerge senza possibile ambiguità, proprio sul piano letterale, che il legislatore delegante non ha voluto sopprimere l’istituto della sospensione, ma anzi conservarlo, tanto è vero che ha chiesto al legislatore delegato di “disciplinarlo”, vale a dire recepirlo nell’emanando testo unico. Peraltro, come si è già detto al punto 6, il concetto stesso di “sospensione”, in questa materia, reca in sé il necessario riferimento ad un presupposto (in questo caso la condanna penale) non ancora definitivo. Se vi è una condanna definitiva, non avrebbe alcun senso applicare una sospensione; a maggior ragione in quanto la condanna definitiva produce di diritto la “decadenza” (peraltro non tutte le fattispecie penali che comportano decadenza comportano anche la sospensione, mentre tutte le fattispecie che comportano la sospensione comportano anche la decadenza).
10. In questa situazione, anche volendo tutto concedere alla tesi interpretativa dell’appellante, resta il fatto che sul piano letterale emergono due indicazioni inconciliabili fra loro: da un lato, la dichiarata volontà di conservare nel sistema l’istituto della sospensione (che implica per definizione il riferimento ad un processoin itinere) e dall’altro lato la (supposta) volontà di subordinare la sospensione all’esistenza di una condanna definitiva. L’esegesi meramente letterale non permette di sciogliere questa contraddizione.
E’ quindi giocoforza ricorrere ad altri criteri. Il primo, già di per sé risolutivo, è quello per cui si deve preferire l’interpretazione che attribuisce un senso alla frase, piuttosto che quella che la rende priva di senso e di effetti pratici.
Il secondo è quello per cui si deve preferire l’interpretazione più corrispondente alla ratio legis ed alla presumibile volontà del legislatore (ricostruibile anche mediante il riferimento al contesto politico-programmatico, alla evoluzione storica della legislazione, etc.), e più coerente con il sistema.
In questo caso, ciascuno di questi criteri porta univocamente a rigettare la tesi interpretativa dell’appellante. Oltre a tutto quanto si è già detto a proposito dell’inquadramento sistematico, basti ricordare che l’intera legge n. 190/2012 è stata concepita con la dichiarata finalità di rendere più efficaci e penetranti gli strumenti di prevenzione e repressione della corruzione, anche per adempiere agli obblighi internazionali assunti in questo senso.
11. Concludendo sul punto, la prospettazione dell’eccesso di delega appare manifestamente infondata.
12. L’appellante propone altresì una seconda questione di costituzionalità sotto il profilo di una presunta illogicità, ovvero irragionevolezza, violazione del principio di uguaglianza, etc..
In sintesi, la questione si basa sulla circostanza che il regime della sospensione è differenziato per le varie fattispecie penali, cosicché può accadere che la sospensione consegua, di diritto ad una condanna a pena più lieve, e non consegua invece ad una condanna a pena più onerosa, solo perché la prima è stata pronunciata per un certo tipo di reato, e la seconda per un reato di altro tipo (in concreto l’interessato è stato sospeso dalla carica perché condannato a quattro mesi di reclusione per il reato di cui all’art. 323 c.p., abuso d’ufficio; mentre reati di altro genere non comportano la sospensione se la pena irrogata è inferiore a due anni di reclusione).
Il Collegio ritiene manifestamente infondata anche questa eccezione. Infatti non è irragionevole che il legislatore differenzi il regime della sospensione dalla carica a seconda delle tipologie di reato. La sospensione dalla carica va intesa, in sostanza, come uno strumento cautelare: la norma vuol allontanare dall’esercizio di determinate funzioni pubbliche il soggetto che, avendo riportato una condanna penale sia pur non definitiva, presenta un apprezzabile rischio di esercitarle in modo illecito o comunque contrario al pubblico interesse. E’ intuitivo che, a parità di pena irrogata, le condanne per taluni tipi di reato (ad esempio: i reati del pubblico ufficiale contro la pubblica amministrazione) hanno un valore indiziario più significativo rispetto alle condanne per altri tipi di reato. S’intende che le valutazioni compiute dal legislatore al riguardo sono altamente discrezionali, e come tali opinabili: ma nel caso in esame non sono irragionevoli.
13. In conclusione, l’appello deve essere respinto.
Le spese del grado seguono la soccombenza, non essendovi ragione per disporre diversamente, visto che tutti gli argomenti del ricorrente avevano ricevuto adeguata risposta già in primo grado.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) rigetta l’appello. Condanna l’appellante al pagamento delle spese del grado, liquidandole in euro 2.000 per ciascuna delle due parti costituite (Comune di Parabita e Amministrazione dell’Interno) oltre agli accessori dovuti per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 gennaio 2014 con l'intervento dei magistrati:
Pier Giorgio Lignani, Presidente
Michele Corradino, Consigliere
Salvatore Cacace, Consigliere
Bruno Rosario Polito, Consigliere
Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE | IL PRESIDENTE | |
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 14/02/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
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