Monday 09 June 2014 14:36:14
Giurisprudenza Giustizia e Affari Interni
segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 30.5.2014
Il Consiglio di Stato ha annullato la sentenza del TAR che aveva ritenuto illegittimo il provvedimento adottato dal Prefetto di Brindisi di revoca della licenza di porto di pistola per uso personale. L’atto della Prefettura si basa sulla nota della Questura di Brindisi che a sua volta riporta due denunce-querele sporte dal figlio nei confronti del suo genitore, per i reati di minacce ed atti persecutori. La sentenza appellata, tuttavia, ha giudicato illegittimo il provvedimento in quanto dalle allegazioni del ricorrente ha tratto il convincimento che le tali denunce-querele presentate dal figlio siano infondate e non veritiere. A questo scopo si è basato essenzialmente sulle dichiarazioni rese nelle forme di cui all’art. 391-bis c.p.p. (investigazioni difensive ad iniziativa di parte) dalla signora B.G. (la ex moglie dell’appellato) la quale ha smentito di essere stata vittima di maltrattamenti e minacce da parte dell’ex marito, prendendo posizione in favore di quest’ultimo nel contrasto con il comune figlio (l’autore delle querele). In buona sostanza, dalla motivazione della sentenza si evince che secondo il T.A.R. l’autorità di pubblica sicurezza, una volta avuta notizia delle denunce-querele presentate da M.G. contro il padre non avrebbe potuto adottare alcun provvedimento a carico di quest’ultimo, senza avere prima svolto adeguate indagini circa la fondatezza delle querele stesse e la verità dei fatti ivi rappresentati; mentre se lo avesse fatto avrebbe constatato che quelle denunce erano infondate. Il Consiglio di Stato osserva che la decisione del T.A.R. è frutto del fraintendimento della natura e dello scopo dei provvedimenti del genere di quello impugnato, e conseguentemente del tipo di istruttoria che l’autorità di pubblica sicurezza deve svolgere prima di adottarli. In materia vi è giurisprudenza ampiamente consolidata, con riferimento vuoi all’art. 39, t.u.l.p.s. (che concerne il divieto di detenzione di armi) vuoi all’art. 43 (diniego della licenza di porto d’armi) vuoi ancora all’art. 11 (revoca delle licenze di polizia in generale). Prescindendo dai casi nei quali i provvedimenti in questione sono vincolati (es.: condanne penali per determinati reati), il potere ampiamente discrezionale conferito dalla legge all’autorità di p.s. non ha la funzione di sanzionare delitti ovvero comportamenti comunque illeciti, bensì quella di prevenire i sinistri – non necessariamente intenzionali – conseguenti all’uso inappropriato delle armi. Comunemente si ritiene che a giustificare il provvedimento basti una situazione oggettiva di rischio ancorché, in ipotesi, incolpevole o addebitabile ad un soggetto diverso dal proprietario delle armi e titolare delle relative licenze. Nel caso in esame, le due denunce-querele presentate da M.G. contro il padre descrivono una situazione radicata e annosa di grave conflitto per ragioni tanto affettive quanto economiche, e vi si afferma in modo esplicito e circostanziato che il padre del querelante avrebbe espresso minacce di morte. Supposto che il contenuto delle due denunce sia veridico, vi sarebbe materia più che sufficiente per giustificare la revoca del porto d’armi. La casistica giurisprudenziale è univoca in tal senso. E le cronache confermano che in questa materia la prudenza non è mai troppa, tanto sono frequenti i fatti di sangue originati da analoghe situazioni conflittuali persino fra congiunti. La decisione del T.A.R., tuttavia, afferma che l’autorità di p.s., avuta notizia delle due denunce e del loro contenuto, non avrebbe dovuto limitarsi a prenderne atto e a provvedere di conseguenza, ma al contrario avrebbe dovuto aprire un’istruttoria (procedendo anche ad assumere testimonianze) al fine di appurare se quelle denunce fossero o meno veridiche. Questo assunto non può essere condiviso. Atti di denuncia-querela come quelli di cui si discute hanno come destinataria naturale l’autorità giudiziaria penale. E’ compito di quest’ultima valutarne la veridicità e la fondatezza, con gli opportuni strumenti d’indagine, fino a procedere per calunnia contro il denunciante, ove ne sia il caso. Non è invece compito dell’autorità di p.s. nell’esercizio dei poteri inerenti al controllo delle armi, non avendo in quella sede né i mezzi né la competenza per sceverare le ragioni e i torti del conflitto in corso fra i privati interessati. Tanto meno è compito del giudice amministrativo di legittimità. Sicché le ponderose argomentazioni difensive svolte anche in questo grado dall’appellato risultano non tanto infondate quanto non pertinenti nel presente giudizio, come rivolte a dimostrare che nel contenzioso fra l’appellato e il figlio le ragioni sono tutte dalla parte del primo e i torti tutti da quella del secondo (il quale ultimo peraltro non può replicare non essendo parte del giudizio).
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale* del 2014, proposto da:
Ministero dell'Interno, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
*, rappresentato e difeso dall'avv. Francesca Conte, con domicilio eletto presso Francesca G. Conte in Roma, via M. Dionigi, 29;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. PUGLIA - SEZ. STACCATA DI LECCE: SEZIONE I n. 02455/2013, resa tra le parti, concernente revoca licenza porto di pistola per difesa personale
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Angelo Maci;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 29 maggio 2014 il Cons. Pier Giorgio Lignani e uditi per le parti l’avvocato Conte e l’avvocato dello Stato Santoro;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. L’appellato, già ricorrente in primo grado, è stato destinatario del provvedimento 15 gennaio 2013 del Prefetto di Brindisi con il quale è stata disposta la revoca della licenza di porto di pistola per uso personale.
Il provvedimento è stato impugnato dall’interessato davanti al T.A.R. della Puglia-sezione staccata di Lecce, con un ricorso nel quale si deducevano, in sintesi, i seguenti motivi: (a) illegittima omissione dell’avviso del procedimento di cui all’art. 7 della legge n. 241/1990; (b) insussistenza dei presupposti e/o insufficienza dell’istruttoria e della motivazione al riguardo.
2. Il T.A.R. Lecce, con sentenza n. 2455/2013, ha accolto il ricorso essenzialmente per difetto di istruttoria e di motivazione.
E’ seguito l’appello del Ministero dell’Interno a questo Consiglio, contenente anche una domanda di sospensione cautelare della sentenza.
L’originario ricorrente, ora appellato, resiste con la produzione di memorie e documenti.
3. In occasione della trattazione della domanda cautelare in camera di consiglio, il Collegio ravvisa le condizioni per la definizione immediata della controversia.
4. In punto di fatto, la sentenza del T.A.R. espone che l’atto della Prefettura (revoca della licenza di porto di pistola per difesa personale) si basa sulla nota della Questura di Brindisi del 2 gennaio 2013, che a sua volta riporta le denunce-querele 1 agosto 2012 e 26 novembre 2012, sporte da M. G. (figlio del ricorrente) nei confronti del suo genitore, per i reati di minacce ed atti persecutori.
4.1. Nelle denunce si legge fra l’altro: «… da circa un anno il rapporto sentimentale tra me e mio padre si è deteriorato a causa dei tantissimi maltrattamenti, umiliazioni e minacce nei confronti di mia madre B. G… Nel periodo di agosto 2011, dopo aver ricevuto da mia madre una telefonata, la quale si lamentava piangendo del comportamento che aveva avuto mio padre nei suoi confronti, in quella circostanza contattai via sms mio padre allo scopo di dare rispetto a mia madre … lo stesso mi rispondeva con messaggio dicendomi: “dove stai che vengo e ti sparo in bocca”» (cfr. denuncia-querela di M. G. dell’1.8.2012).
E ancora: «Da tempo i rapporti familiari e professionali miei e di mia moglie con mio padre sono deteriorati e degenerano di giorno in giorno tanto che entrambi siamo continuamente oggetto di minacce di morte da parte del genitore. … Tutto ciò ... è scaturito dal fatto che in tempi passati ho preso le difese di mia madre la quale era continuamente maltrattata sia fisicamente che psicologicamente da mio padre» (cfr. denuncia-querela di M. G. del 26.11.2012).
4.2. La sentenza appellata, tuttavia, ha giudicato illegittimo il provvedimento in quanto dalle allegazioni del ricorrente ha tratto il convincimento che le suddette denunce-querele presentate dal figlio di costui siano infondate e non veritiere.
A questo scopo si è basato essenzialmente sulle dichiarazioni rese nelle forme di cui all’art. 391-bis c.p.p. (investigazioni difensive ad iniziativa di parte) dalla signora B.G. (la ex moglie dell’appellato) la quale ha smentito di essere stata vittima di maltrattamenti e minacce da parte dell’ex marito, prendendo posizione in favore di quest’ultimo nel contrasto con il comune figlio (l’autore delle querele).
4.3. In buona sostanza, dalla motivazione della sentenza si evince che secondo il T.A.R. l’autorità di pubblica sicurezza, una volta avuta notizia delle denunce-querele presentate da M.G. contro il padre non avrebbe potuto adottare alcun provvedimento a carico di quest’ultimo, senza avere prima svolto adeguate indagini circa la fondatezza delle querele stesse e la verità dei fatti ivi rappresentati; mentre se lo avesse fatto avrebbe constatato che quelle denunce erano infondate.
5. Il Collegio osserva che la decisione del T.A.R. è frutto del fraintendimento della natura e dello scopo dei provvedimenti del genere di quello impugnato, e conseguentemente del tipo di istruttoria che l’autorità di pubblica sicurezza deve svolgere prima di adottarli.
In materia vi è giurisprudenza ampiamente consolidata, con riferimento vuoi all’art. 39, t.u.l.p.s. (che concerne il divieto di detenzione di armi) vuoi all’art. 43 (diniego della licenza di porto d’armi) vuoi ancora all’art. 11 (revoca delle licenze di polizia in generale).
Prescindendo dai casi nei quali i provvedimenti in questione sono vincolati (es.: condanne penali per determinati reati), il potere ampiamente discrezionale conferito dalla legge all’autorità di p.s. non ha la funzione di sanzionare delitti ovvero comportamenti comunque illeciti, bensì quella di prevenire i sinistri – non necessariamente intenzionali – conseguenti all’uso inappropriato delle armi.
Comunemente si ritiene che a giustificare il provvedimento basti una situazione oggettiva di rischio ancorché, in ipotesi, incolpevole o addebitabile ad un soggetto diverso dal proprietario delle armi e titolare delle relative licenze.
6. Nel caso in esame, le due denunce-querele presentate da M.G. contro il padre descrivono una situazione radicata e annosa di grave conflitto per ragioni tanto affettive quanto economiche, e vi si afferma in modo esplicito e circostanziato che il padre del querelante avrebbe espresso minacce di morte.
Supposto che il contenuto delle due denunce sia veridico, vi sarebbe materia più che sufficiente per giustificare la revoca del porto d’armi. La casistica giurisprudenziale è univoca in tal senso. E le cronache confermano che in questa materia la prudenza non è mai troppa, tanto sono frequenti i fatti di sangue originati da analoghe situazioni conflittuali persino fra congiunti.
7. La decisione del T.A.R., tuttavia, afferma che l’autorità di p.s., avuta notizia delle due denunce e del loro contenuto, non avrebbe dovuto limitarsi a prenderne atto e a provvedere di conseguenza, ma al contrario avrebbe dovuto aprire un’istruttoria (procedendo anche ad assumere testimonianze) al fine di appurare se quelle denunce fossero o meno veridiche.
Questo assunto non può essere condiviso.
Atti di denuncia-querela come quelli di cui si discute hanno come destinataria naturale l’autorità giudiziaria penale. E’ compito di quest’ultima valutarne la veridicità e la fondatezza, con gli opportuni strumenti d’indagine, fino a procedere per calunnia contro il denunciante, ove ne sia il caso. Non è invece compito dell’autorità di p.s. nell’esercizio dei poteri inerenti al controllo delle armi, non avendo in quella sede né i mezzi né la competenza per sceverare le ragioni e i torti del conflitto in corso fra i privati interessati.
Tanto meno è compito del giudice amministrativo di legittimità. Sicché le ponderose argomentazioni difensive svolte anche in questo grado dall’appellato risultano non tanto infondate quanto non pertinenti nel presente giudizio, come rivolte a dimostrare che nel contenzioso fra l’appellato e il figlio le ragioni sono tutte dalla parte del primo e i torti tutti da quella del secondo (il quale ultimo peraltro non può replicare non essendo parte del giudizio).
8. Semmai, le difese dell’appellato, proprio grazie alla loro particolareggiata (ancorché unilaterale) descrizione dei fatti, confermano che una situazione di conflitto oggettivamente esiste, è grave, di pubblica notorietà e profondamente radicata; ed include non solo reciproche accuse anche di ordine penale, ma anche comportamenti rivolti a screditarsi e danneggiarsi reciprocamente nelle rispettive attività imprenditoriali.
In questo contesto, se uno dei due contendenti riferisce che l’altro lo ha minacciato di morte, si tratta di un’accusa che all’esito del giudizio penale potrà anche risultare calunniosa, ma non appare ictu oculi tanto inverosimile da dispensare l’autorità di pubblica sicurezza dall’adottare – con la cognizione sommaria tipica dell’esercizio dei suoi poteri - le appropriate misure preventive e cautelative, in primo luogo il ritiro del porto d’armi. E dal farlo con doverosa urgenza: pertanto è infondata anche la censura di omessa comunicazione dell’avviso di procedimento.
9. In conclusione, l’appello va accolto con la riforma della sentenza appellata ed il rigetto del ricorso di primo grado.
S’intende che la presente decisione non impedisce all’autorità di p.s. di determinarsi diversamente in prosieguo, in relazione agli sviluppi della vicenda.
La natura della controversia giustifica la compensazione delle spese.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) accoglie l’appello e, in riforma della sentenza di primo grado, rigetta il ricorso proposto in quella sede dall’appellato. Compensa le spese dell’intero giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 29 maggio 2014 con l'intervento dei magistrati:
Pier Giorgio Lignani, Presidente, Estensore
Angelica Dell'Utri, Consigliere
Dante D'Alessio, Consigliere
Lydia Ada Orsola Spiezia, Consigliere
Massimiliano Noccelli, Consigliere
IL PRESIDENTE, ESTENSORE | ||
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 30/05/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
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