Sunday 06 April 2014 09:06:51
Giurisprudenza Giustizia e Affari Interni
segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 13.3.2014
La Quinta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza in esame evidenzia come per giurisprudenza consolidata l’oggetto del giudizio di ottemperanza è rappresentato dalla puntuale verifica da parte del giudice dell’esatto adempimento dell’obbligo dell’amministrazione di conformarsi al giudicato per far conseguire concretamente all’interessato l’utilità o il bene della vita riconosciutogli in sede di cognizione (C.d.S., sez. V, 30 agosto 2013, n. 4322; 23 novembre 2007, n. 6018; 3 ottobre 1997, n. 1108; sez. IV, 15 aprile 1999, n. 626; 17 ottobre 2000, n. 5512). Detta verifica, che deve essere condotta nell’ambito dello stesso quadro processuale che ha costituito il substrato fattuale e giuridico della sentenza di cui si chiede l’esecuzione (C.d.S., sez. V, 9 maggio 2001, n. 2607; sez. IV, 9 gennaio 2001, n. 49; 28 dicembre 1999, n. 1964), comporta una puntuale attività di interpretazione del giudicato, al fine di enucleare e precisare il contenuto del comando, sulla base della sequenza “petitum – causa petendi – motivi – decisum” (C.d.S., sez. IV, 19 maggio 2008, n. 2312; sez. V, 7 gennaio 2009, n. 10): di conseguenza in sede di giudizio di ottemperanza non può essere riconosciuto un diritto nuovo ed ulteriore rispetto a quello fatto valere ed affermato con la sentenza da eseguire, anche se sia ad essa conseguente o collegato (C.d.S., sez. V, 24 gennaio 2013, n. 462; sez. IV, 17 gennaio 2002, n. 247) e non possono essere neppure proposte domande che non siano contenute nel “decisum” della sentenza da eseguire (C.d.S., sez. IV, 9 gennaio 2001 n. 49; 10 agosto 2000, n. 4459), trovando ingresso solo questioni che sono state oggetto dell’accertamento nel giudizio di cognizione (C.d.S., sez. VI, 8 marzo 2013, n. 1412; 3 giugno 2013, n. 3023; sez. IV, 28 maggio 2013, n. 2911). E’ stato osservato che la delineata ricostruzione dei poteri del giudice dell’ottemperanza non implica un vulnus alla stessa effettività della tutela giurisdizionale amministrativa e ai principi costituzionali sanciti dagli articoli 24, 111 e 113, rappresentando piuttosto il naturale e coerente contemperamento della pluralità degli interessi e dei principi costituzionali che vengono in gioco nel procedimento giurisdizionale amministrativo, ed in particolare di quello secondo cui la durata del processo non deve andare a detrimento della parte vittoriosa (che ha diritto, però, all’esecuzione del giudicato in base allo stato di fatto e di diritto vigente al momento dell’atto lesivo, caducato in sede giurisdizionale) e di quello della stessa dinamicità dell’azione amministrazione e dell’esercizio della relativa funzione da parte della pubblica amministrazione che ne è titolare (che non consente di poter ragionevolmente ipotizzare una sorta di “congelamento” o di “fermo” della stessa, tant’è che sia l’atto amministrativo che la sentenza di primo grado, ancorché impugnati, non perdono in linea di principio la loro efficacia e la loro idoneità a spiegare gli effetti loro propri, tranne che questi ultimi non siano ritenuti meritevoli di essere sospesi, su istanza degli interessati, da parte rispettivamente del giudice di primo grado o da quello di appello). Per completezza, aggiunge il Consiglio di Stato,è stato anche sottolineato come nel giudizio di ottemperanza può essere dedotta come contrastante con il giudicato non solo l’inerzia della pubblica amministrazione cioè il non facere (inottemperanza in senso stretto), ma anche un facere, cioè un comportamento attivo, attraverso cui si realizzi un’ottemperanza parziale o inesatta ovvero ancora la violazione o l’elusione attiva del giudicato (C.d.S., sez. VI, 12 dicembre 2011, n. 6501). Il nuovo atto emanato dall’amministrazione, dopo l’annullamento in sede giurisdizionale del provvedimento illegittimo, può essere considerato adottato in violazione o elusione del giudicato solo quando da quest’ultimo derivi un obbligo assolutamente puntuale e vincolato, così che il suo contenuto sia integralmente desumibile nei suoi tratti essenziali dalla sentenza (C.d.S., sez. VI, 3 maggio 2011, n. 2602; sez. IV, 13 gennaio 2010, n. 70; 4 ottobre 2007, n. 5188), con la conseguenza che la verifica della sussistenza del vizio di violazione o elusione del giudicato implica il riscontro della difformità specifica dall’atto stesso rispetto all’obbligo processuale di attenersi esattamente all’accertamento contenuto nella sentenza da eseguire (C.d.S., sez. IV, 21 maggio 2010, n. 3233; sez. V, 6 maggio 2013, n. 2418sez. VI, 7 giugno 2011, n. 3415; 5 dicembre 2005, n. 6963). La violazione del giudicato è pertanto configurabile quando il nuovo atto riproduca gli stessi vizi già censurati in sede giurisdizionale ovvero quando si ponga in contrasto con precise e puntuali prescrizioni provenienti dalla statuizione del giudice, mentre si ha elusione del giudicato allorquando l’amministrazione, pur provvedendo formalmente a dare esecuzione alle statuizioni della sentenza, persegue l’obiettivo di aggirarle dal punto di vista sostanziale, giungendo surrettiziamente allo stesso esito già ritenuto illegittimo (C.d.S., sez. IV, 1° aprile 2011, n. 2070, 4 marzo 2011, n. 1415; 31 dicembre 2009, n. 9296). Per scaricare la sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale * del 2013, proposto da:
LAPACCIANA MARIA BRUNA RITA, rappresentata e difesa dagli avv. Nicola Palombi e Elisabetta Galati, con domicilio eletto presso Nicola Palombi in Roma, piazza S.Andrea della Valle, n. 6;
contro
PROVINCIA DI MATERA, in persona del Presidente della Giunta provinciale in carica, rappresentata e difesa dall'avv. Rosina D'Onofrio, con domicilio eletto presso Monica Basta in Roma, via Cicerone, n. 49;
nei confronti di
REGIONE BASILICATA, in persona del Presidente della Giunta regionale in carica, non costituita in giudizio;
per l’ottemperanza al giudicato
formatosi sulla sentenza del CONSIGLIO DI STATO, Sez. V, n. 5141 del 1° settembre 2009, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio della Provincia di Matera;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 17 dicembre 2013 il Cons. Carlo Saltelli e uditi per le parti gli avvocati Palombi e Basta, per delega di D'Onofrio;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.
FATTO
1. Il Consiglio di Stato, sez. V, con la sentenza n. 5141 del 1° settembre 2009, accogliendo l’appello proposto dalla sig. Maia Bruna Rita Lapacciana, ha riformato la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Basilicata n. 320 del 21 aprile 2007 ed ha annullato gli atti impugnati con il ricorso di primo grado (delibera della Giunta regionale della Basilicata n. 9020 del 31 dicembre 1993; delibera della Giunta provinciale di Matera n. 699 del 19 aprile 1994; note del Presidente dell’amministrazione provinciale di Matera n. 10658 del 12 maggio 1994 e n. 13703 del 15 giugno 1994), con salvezza del riesercizio del potere amministrativo.
Secondo il giudice d’appello, infatti, poiché l’interessata intratteneva con l’amministrazione provinciale di Matera (subentrata al disciolto Consorzio dei comuni non montani del materano che l’aveva assunta nel 1982 mediante un rapporto convenzionale trimestrale), un rapporto di lavoro a tempo indeterminato in conformità alla vigente normativa primaria e contrattuale, era da ritenersi illegittima la risoluzione di detto rapporto di lavoro a tempo indeterminato, disposta con gli atti impugnati, difettandone i presupposti normativi e contrattuali, sia che ad essa si riconoscesse natura privatistica, sia che la si volesse considerare espressione del potere di autotutela pubblicistica.
2. Con atto notificato a mezzo del servizio postale il 17 marzo 2013 la sig. Maria Bruna Lapacciana, dopo aver esposto che, malgrado il carattere self executing della predetta sentenza di appello, passata in giudicato, le amministrazioni (Regione Basilicata e Provincia di Matera) avevano ingiustamente omesso di darvi esecuzione, non provvedendo alla stabilizzazione della sua posizione di lavoro, tant’è che l’amministrazione provinciale di Matera, a riscontro della diffida del 5 dicembre 2011, aveva addirittura escluso la possibilità di ogni riconoscimento per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 364 del 22 dicembre 2010 e non aveva ricompreso il suo nominativo nel nuovo organigramma e nella nuova dotazione organica dell’ente, approvati con delibera n. 344 del 22 dicembre 2011 (atto da considerarsi nullo per violazione dell’art. 21 septies della legge 7 agosto 1990, n. 241, per macroscopica elusione del giudicato), ha chiesto al Consiglio di Stato di ordinarsi alla Provincia di Matera e alla Regione Basilicata: a) di prestare ottemperanza alla sentenza n. 514 del 1° settembre 2009, prescrivendone le relative modalità, anche mediante determinazione del contenuto dell’adottando provvedimento amministrativo ovvero emanandolo in luogo dell’amministrazione; b) di assegnare un termine per provvedere, determinando anche la somma dovuta in caso di ulteriore violazione o inosservanza successivo ovvero per il ritardo nell’esecuzione del giudicato; c) di dichiarare nulli gli atti amministrativi emanati in violazione o elusione del giudicato; d) di nominare, ove occorra, un commissario ad acta, che provveda in via sostitutiva; e) di condannare le amministrazioni intimate alle spese del giudizio di ottemperanza.
Ha resistito al ricorso la sola amministrazione provinciale di Matera, deducendone l’inammissibilità e l’infondatezza ed insistendo in particolare, oltre che per la nullità dell’atto introduttivo del giudizio (per erronea indicazione del giudice adito), anche per l’effetto paralizzante di ogni pretesa della ricorrente in conseguenza della sentenza della Corte Costituzionale n. 364 del 22 dicembre 2010, dichiarativa della incostituzionalità degli articoli 2 e 4 della legge regionale 24 dicembre 1992, n. 23.
3. All’udienza in camera di consiglio del 17 dicembre 2013, dopo la rituale discussione, nel corso della quale il difensore della ricorrente ha precisato che quest’ultima è tuttora in servizio a tempo indeterminato presso l’amministrazione provinciale (Ufficio di Polizia Provinciale), pur non avendo mai ricevuto un atto di inquadramento, la causa è trattenuta in decisione.
DIRITTO
4. Devono essere innanzitutto esaminate le eccezioni preliminari sollevate dall’amministrazione provinciale di Matera.
Esse sono infondate.
4.1. E’ stato innanzitutto rilevato che l’atto introduttivo del giudizio sarebbe stato affetto da nullità insanabile per assoluta incertezza del giudice adito, atteso che, nell’introdurre le conclusioni, conterrebbe una generica richiesta di pronuncia ad un non meglio identificato tribunale amministrativo regionale.
Al riguardo è sufficiente osservare dalla lettura secondo buona fede dell’intero ricorso introduttivo del giudizio emerge al di là di ogni ragionevole dubbio che la domanda giudiziale è effettivamente rivolta al Consiglio di Stato, che ha emesso la sentenza di cui si lamenta la mancata ottemperanza; ciò senza contare che l’avvenuta costituzione in giudizio e l’effettivo esercizio del diritto di difesa ha in ogni caso sanato ogni eventuale nullità dell’atto introduttivo del giudizio.
4.2. Quanto poi al sostanziale difetto di legittimazione passiva che l’amministrazione provinciale ha dedotto soprattutto per effetto della sopravvenuta sentenza della Corte Costituzionale n. 310 del 22 dicembre 2010, la Sezione osserva che quest’ultima non ha interamente annullato, come sostenuto dall’ente, la legge regionale 24 dicembre 1992, n. 23, recante “Soppressione del Consorzio dei comuni non montani del Materano – Delega delle funzioni all’Amministrazione provinciale di Matera”, avendo piuttosto dichiarato l’illegittimità costituzionale dei soli articoli 2 (che ha disposto il trasferimento delle funzioni amministrative delegate al predetto consorzio con la legge regionale 20 giugno 1979, n. 19, e di tutte le altre funzioni assegnate dalla Regione al Consorzio, ai sensi di leggi regionali o provvedimenti amministrativi, all’amministrazione provinciale di Matera) e 4 (che ha incaricato il Commissario liquidatore di cui all’art. 1 di provvedere a trasferire, nei novanta giorni successivi all’entrata in vigore della legge, all’amministrazione provinciale di Matera ogni rapporto giuridico ed economico in atto presso il disciolto Consorzio) per la sola mancanza di copertura finanziaria e precisamente nella parte in cui non sono state previste modalità di finanziamento della spesa per la Provincia di Matera in relazione alle passività maturate prima del passaggio a quest’ultima delle funzioni del soppresso Consorzio dei comuni non montani del Materano.
Diversamente da quanto sostenuto dall’amministrazione provinciale intimata, il giudice delle leggi non ha contestato la legittimità e la ragionevolezza della scelta di sopprimere il Consorzio e di trasferirne le relative funzioni alla Provincia di Matera, avendo soltanto rilevato che un simile disegno organizzativo non poteva essere disgiunto dalla previsione in favore dell’ente subentrante della provvista finanziaria indispensabile per far fronte alle passività che l’esercizio di quelle stesse funzioni aveva già prodotto presso il Consorzio.
L’effetto di tale pronuncia non è perciò l’abrogazione dell’intera legge ed il conseguente venir meno della soppressione del Consorzio e del trasferimento delle funzioni all’amministrazione provinciale di Matera, ma soltanto l’obbligo della Regione di prevedere le sole modalità di finanziamento della predetta spesa relativa alle passività maturate prima del passaggio all’amministrazione provinciale delle funzioni del soppresso Consorzio.
Non sussiste pertanto la dedotta inammissibilità del ricorso in esame per il difetto di legittimazione passiva dell’Amministrazione provinciale di Matera.
5. Passando all’esame del ricorso per l’ottemperanza, la Sezione osserva quanto segue.
5.1. Per giurisprudenza consolidata l’oggetto del giudizio di ottemperanza è rappresentato dalla puntuale verifica da parte del giudice dell’esatto adempimento dell’obbligo dell’amministrazione di conformarsi al giudicato per far conseguire concretamente all’interessato l’utilità o il bene della vita riconosciutogli in sede di cognizione (C.d.S., sez. V, 30 agosto 2013, n. 4322; 23 novembre 2007, n. 6018; 3 ottobre 1997, n. 1108; sez. IV, 15 aprile 1999, n. 626; 17 ottobre 2000, n. 5512).
Detta verifica, che deve essere condotta nell’ambito dello stesso quadro processuale che ha costituito il substrato fattuale e giuridico della sentenza di cui si chiede l’esecuzione (C.d.S., sez. V, 9 maggio 2001, n. 2607; sez. IV, 9 gennaio 2001, n. 49; 28 dicembre 1999, n. 1964), comporta una puntuale attività di interpretazione del giudicato, al fine di enucleare e precisare il contenuto del comando, sulla base della sequenza “petitum – causa petendi – motivi – decisum” (C.d.S., sez. IV, 19 maggio 2008, n. 2312; sez. V, 7 gennaio 2009, n. 10): di conseguenza in sede di giudizio di ottemperanza non può essere riconosciuto un diritto nuovo ed ulteriore rispetto a quello fatto valere ed affermato con la sentenza da eseguire, anche se sia ad essa conseguente o collegato (C.d.S., sez. V, 24 gennaio 2013, n. 462; sez. IV, 17 gennaio 2002, n. 247) e non possono essere neppure proposte domande che non siano contenute nel “decisum” della sentenza da eseguire (C.d.S., sez. IV, 9 gennaio 2001 n. 49; 10 agosto 2000, n. 4459), trovando ingresso solo questioni che sono state oggetto dell’accertamento nel giudizio di cognizione (C.d.S., sez. VI, 8 marzo 2013, n. 1412; 3 giugno 2013, n. 3023; sez. IV, 28 maggio 2013, n. 2911).
5.2. E’ stato osservato che la delineata ricostruzione dei poteri del giudice dell’ottemperanza non implica un vulnus alla stessa effettività della tutela giurisdizionale amministrativa e ai principi costituzionali sanciti dagli articoli 24, 111 e 113, rappresentando piuttosto il naturale e coerente contemperamento della pluralità degli interessi e dei principi costituzionali che vengono in gioco nel procedimento giurisdizionale amministrativo, ed in particolare di quello secondo cui la durata del processo non deve andare a detrimento della parte vittoriosa (che ha diritto, però, all’esecuzione del giudicato in base allo stato di fatto e di diritto vigente al momento dell’atto lesivo, caducato in sede giurisdizionale) e di quello della stessa dinamicità dell’azione amministrazione e dell’esercizio della relativa funzione da parte della pubblica amministrazione che ne è titolare (che non consente di poter ragionevolmente ipotizzare una sorta di “congelamento” o di “fermo” della stessa, tant’è che sia l’atto amministrativo che la sentenza di primo grado, ancorché impugnati, non perdono in linea di principio la loro efficacia e la loro idoneità a spiegare gli effetti loro propri, tranne che questi ultimi non siano ritenuti meritevoli di essere sospesi, su istanza degli interessati, da parte rispettivamente del giudice di primo grado o da quello di appello).
5.3. Per completezza deve aggiungersi che è stato anche sottolineato come nel giudizio di ottemperanza può essere dedotta come contrastante con il giudicato non solo l’inerzia della pubblica amministrazione cioè il non facere (inottemperanza in senso stretto), ma anche un facere, cioè un comportamento attivo, attraverso cui si realizzi un’ottemperanza parziale o inesatta ovvero ancora la violazione o l’elusione attiva del giudicato (C.d.S., sez. VI, 12 dicembre 2011, n. 6501).
Il nuovo atto emanato dall’amministrazione, dopo l’annullamento in sede giurisdizionale del provvedimento illegittimo, può essere considerato adottato in violazione o elusione del giudicato solo quando da quest’ultimo derivi un obbligo assolutamente puntuale e vincolato, così che il suo contenuto sia integralmente desumibile nei suoi tratti essenziali dalla sentenza (C.d.S., sez. VI, 3 maggio 2011, n. 2602; sez. IV, 13 gennaio 2010, n. 70; 4 ottobre 2007, n. 5188), con la conseguenza che la verifica della sussistenza del vizio di violazione o elusione del giudicato implica il riscontro della difformità specifica dall’atto stesso rispetto all’obbligo processuale di attenersi esattamente all’accertamento contenuto nella sentenza da eseguire (C.d.S., sez. IV, 21 maggio 2010, n. 3233; sez. V, 6 maggio 2013, n. 2418sez. VI, 7 giugno 2011, n. 3415; 5 dicembre 2005, n. 6963).
La violazione del giudicato è pertanto configurabile quando il nuovo atto riproduca gli stessi vizi già censurati in sede giurisdizionale ovvero quando si ponga in contrasto con precise e puntuali prescrizioni provenienti dalla statuizione del giudice, mentre si ha elusione del giudicato allorquando l’amministrazione, pur provvedendo formalmente a dare esecuzione alle statuizioni della sentenza, persegue l’obiettivo di aggirarle dal punto di vista sostanziale, giungendo surrettiziamente allo stesso esito già ritenuto illegittimo (C.d.S., sez. IV, 1° aprile 2011, n. 2070, 4 marzo 2011, n. 1415; 31 dicembre 2009, n. 9296).
5.4. Sulla scorta di tali principi, pienamente applicabili al caso di specie, la domanda proposta dalla sig. Maria Bruna Rita Lapacciana non può trovare accoglimento-
5.4.1. Occorre rilevare che la sentenza di questa Sezione del Consiglio di Stato n. 5141 del 1° settembre 2009, di cui la ricorrente lamenta la mancata integrale esecuzione, ha annullato gli atti dell’amministrazione provinciale che avevano disposto la risoluzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato trattenuto con l’amministrazione provinciale di Materia subentrata al disciolto Consorzio dei comuni non montani del Materano: il bene della vita concretamente perseguito con quell’azione di annullamento era esclusivamente la conservazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, bene che gli è stato effettivamente riconosciuto dalla predetta pronuncia giurisdizionale.
Al carattere direttamente auto – esecutivo di quest’ultima, pacificamente ammesso dalla stessa interessata, consegue che per la sua effettiva attuazione non era necessaria un’ulteriore attività amministrativa, atteso che l’effetto, diretto, immediato ed automatico dell’annullamento degli atti di risoluzione del rapporto del lavoro, era la reintegrazione della dipendente nell’organizzazione dell’ente, con conseguente diritto/dovere di svolgere la prestazione lavorativa e diritto di ricevere la relativa retribuzione, cose tutte di cui non è contestata la sussistenza.
Deve pertanto escludersi che nel caso di specie si versi in un’ipotesi di inottemperanza al giudicato, giacché difettava la necessità di un atto (di per sé meramente) formale (privo allo stato di qualsiasi giustificazione logico – giuridica) di annullamento da parte dell’amministrazione provinciale di Matera (e dell’amministrazione regionale) degli atti di risoluzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, come preteso dalla ricorrente, tanto più che si tratterebbe di un atto meramente ricognitivo della pronuncia giurisdizionale della più volte citata sentenza di questa Sezione n. 5141 del 1° settembre 2009, privo di un autonomo valore provvedimentale.
5.4.2. Non può poi convenirsi con le tesi della ricorrente laddove essa pretende di far discendere dal giudicato di cui si discute un ulteriore obbligo di definitiva sistemazione del proprio rapporto lavorativo, mediante un provvedimento di stabilizzazione (in relazione al quale non si indicano peraltro neppure i referenti normativi eventualmente violati).
E’ appena il caso di rilevare che in tal senso alcun ulteriore obbligo derivava all’amministrazione provinciale di Materia dal giudicato formatosi sulla sentenza di questa Sezione del Consiglio di Stato n. 5141 del 1° settembre 2009.
Né, d’altra parte, l’obbligo di stabilizzazione del rapporto di lavoro (già a tempo indeterminato) può ritenersi diretta ed immediata conseguenza dell’annullamento giudiziale degli atti risolutivi di quello stesso rapporto di lavoro, essendo macroscopicamente diverso nei predetti casi il bene della vita perseguito, nel primo caso quello alla definitiva collocazione nell’ambito della struttura organizzativa dell’ente, nel secondo caso quello alla conservazione del posto di lavoro (unico oggetto della tutela giurisdizionale azionata dall’interessata ed effettivamente riconosciuto).
Sotto tale profilo deve negarsi che la delibera n. 344 del 22 dicembre 2011 che ha approvato il nuovo organigramma dell’ente e la relativa pianta organica sia elusiva o violativa del giudicato di cui si discute e che come tale possa essere sindacata nel presente giudizio.
5.4.3. E’ appena il caso di rilevare che il rigetto del presente ricorso per l’ottemperanza al giudicato non esclude la facoltà dell’interessata di far valere nei modi e nelle forme di rito le proprie eventuali pretese alla definitiva stabilizzazione del proprio rapporto lavorativo (e a tutte le relative conseguenze, sotto il profilo giuridico e/o economico) anche in sede giurisdizionale, ricorrendone i presupposti.
6. Alla stregua delle osservazioni svolte l’appello deve essere respinto.
La assoluta peculiarità delle questioni trattate giustifica la compensazione tra le parti costituite delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sul ricorso proposto dalla sig. Maria Bruna Rita Lapacciana per l’ottemperanza al giudicato formatosi sulla sentenza del Consiglio di Stato, Sezione Quinta, n. 5141 del 1° settembre 2009, lo rigetta.
Dichiara interamente compensate tra le parti costituite le spese del presente giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 dicembre 2013 con l'intervento dei magistrati:
Francesco Caringella, Presidente FF
Carlo Saltelli, Consigliere, Estensore
Manfredo Atzeni, Consigliere
Doris Durante, Consigliere
Raffaele Prosperi, Consigliere
L'ESTENSORE | IL PRESIDENTE | |
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 13/03/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
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