Saturday 07 June 2014 11:47:50
Giurisprudenza Pubblico Impiego e Responsabilità Amministrativa
segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 27.5.2014
Il Consiglio di Stato, Sezione V, nel giudizio in esame ha ribadito i principi elaborati dalla giurisprudenza amministrativa e dalla Corte di cassazione in materia di risarcimento del danno da illecita attività provvedimentale dell’amministrazione (cfr. ex plurimis e da ultimo, Cass. civ., sez. III, 22 ottobre 2013, n. 23993; sez. un., 23 marzo 2011, n. 6594; sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576 e 582; Cons. Stato, ad. plen., 19 aprile 2013, n. 7; ad. plen., 23 marzo 2011, n. 3; sez. III, 19 marzo 2014, n. 1357; sez. V, 17 gennaio 2014, n. 183; sez. V, 31 ottobre 2013, n. 5247; sez. V, 21 giugno 2013, n. 3408; sez. III, 30 maggio 2012, n. 3245; sez. IV, 22 maggio 2012, n. 2974; sez. IV, 2 aprile 2012, n. 1957; sez. IV, 31 gennaio 2012, n. 482; cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.), in forza dei quali: a) la qualificazione del danno da illecito provvedimentale rientra nello schema della responsabilità extra contrattuale disciplinata dall’art. 2043 c.c.; conseguentemente, per accedere alla tutela è indispensabile, ancorché non sufficiente, che l’interesse legittimo o il diritto soggettivo sia stato leso da un provvedimento (o da comportamento) illegittimo dell’amministrazione reso nell’esplicazione (o nell’inerzia) di una funzione pubblica e la lesione deve incidere sul bene della vita finale, che funge da sostrato materiale della situazione soggettiva e che non consente di configurare la tutela degli interessi c.d. procedimentali puri, delle mere aspettative, dei ritardi procedimentali, o degli interessi contra ius; b) l’onere di provare la presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito extracontrattuale (condotta, evento, nesso di causalità, antigiuridicità, colpevolezza), grava sulla parte danneggiata che abbia visto riconosciuto l’illegittimo esercizio della funzione pubblica; c) la prova dell’esistenza dell’antigiuridicità del danno deve intervenire all’esito di una verifica del caso concreto che faccia concludere per la sua certezza la quale, a sua volta, presuppone: l’esistenza di una posizione giuridica sostanziale; l’esistenza di una lesione che è configurabile (oltre ché nell’ovvia evidenza fattuale) anche allorquando vi sia una rilevante probabilità di risultato utile frustrata dall’agire (o dall’inerzia) illegittima della p.a.; d) al di fuori del settore degli appalti (governato da autonomi principi sviluppati nel tempo dalla Corte di giustizia UE), in sede di accertamento della colpevolezza nell’esercizio della funzione pubblica, l’acclarata illegittimità del provvedimento amministrativo, integra, ai sensi degli artt. 2727 e 2729, co. 1, c.c., il fatto costitutivo di una presunzione semplice in ordine alla sussistenza della colpa in capo all’amministrazione; ne consegue che spetta a quest’ultima dimostrare la scusabilità dell’errore per la presenza, ad esempio, di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione della norma (o di improvvisi revirement da parte delle Corti supreme), di oscurità oggettiva del quadro normativo (anche a causa della formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore), di rilevante complessità del fatto, della influenza determinante dei comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da successiva declaratoria di incostituzionalità della norma applicata dall’amministrazione; e) ai fini del riscontro del nesso di causalità nell’ambito della responsabilità extra contrattuale da cattivo esercizio della funzione pubblica, si deve muovere dall’applicazione dei principî penalistici, di cui agli art. 40 e 41 c.p., in forza dei quali un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non); il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dall’art. 41, co. 2, c.p., in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto; al contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale; in quest’ottica, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano — ad una valutazione ex ante — del tutto inverosimili. Per quanto poi concerne l’aspetto che qui segnatamente rileva, ossia il nesso causale tra l’illecito e il danno subito, va parimenti rimarcato che l’onnicomprensiva categoria del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., pur nelle ipotesi in cui consegue alla violazione di diritti inviolabili della persona (ad es. il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost.), costituisce pur sempre un’ipotesi di danno-conseguenza, il cui ristoro è in concreto possibile solo a seguito dell’integrale allegazione e prova in ordine alla sua consistenza materiale ed in ordine alla sua riferibilità eziologica alla condotta del soggetto asseritamente danneggiante. Ne consegue, quindi, che il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale e biologico non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, da parte di colui che si pretende danneggiato, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo. In una con i principi elaborati dalle sezioni unite della Corte di cassazione (cfr. le celebri sentenze gemelle sez. un., nn. 26973, 26974, 26975 del 2008, successivamente si vedano gli affinamenti elaborati da Cass. civ., sez. III, 2228 del 2012) e dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio (n. 7 del 2013 cit.), si rileva che mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno non patrimoniale - da intendersi come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul “fare areddittuale” del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendo il soggetto medesimo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e alla realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - deve essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, potendo peraltro anche in tale evenienza assumere precipuo rilievo la prova per presunzioni; ne discende che il prestatore di lavoro, che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di c.d. danno biologico), subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, posto che tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo e che pertanto non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, nel mentre incombe al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la prova in base all’anzidetta regola generale di cui all’art. 2697 cod. civ. (.....) La giurisprudenza da tempo assegna ai provvedimenti cautelari emanati dal giudice amministrativo la funzione di escludere o, comunque, di mitigare il danno insito nel provvedimento impugnato, posto che la tutela cautelare è diretta alla temporanea salvaguardia della posizione del deducente, onde consentirgli - qualora risultasse vincitore nel merito - di trarre l’utilità sostanziale offerta dalla decisione, producendo in via temporalmente anticipata nella sua sfera giuridica benefici omogenei e comunque non superiori rispetto a quelle che la sentenza potrà procurare (così, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 27 marzo 1995 n. 191); e, proprio in dipendenza di ciò, e anche a prescindere dall’espressa statuizione al riguardo contenuta dal susseguentemente intervenuto art. 30, cod. proc. amm., la medesima giurisprudenza ha ricavato dai principi contenuti dall’art. 1227, secondo comma, cod. civ., la regola della possibile non risarcibilità dei danni evitabili con l’impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione degli strumenti di tutela cautelare previsti dall’ordinamento (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 9 ottobre 2013 n. 4968). Nel caso in esame il demansionamento lamentato dal ricorrente non è in fatto avvenuto proprio poiché il tempestivo accesso da lui fatto allo strumento di tutela cautelare ha impedito l’assunzione da parte sua dei compiti non rispondenti alla qualifica ricoperta, tanto che il suo rientro in servizio è incontestabilmente avvenuto nella stessa posizione occupata al momento del primo provvedimento di rimozione illegittimamente emanato nei suoi confronti. In questo modo, pertanto, l’intervento del giudice adito in primo grado ha fatto sì che il prestigio personale e professionale del ricorrente non fossero vulnerati anche nel lasso di tempo intercorrente tra la proposizione dei ricorsi e la loro definizione nel merito: e proprio tale circostanza rende dunque inaccoglibile una domanda risarcitoria che ha per oggetto beni della vita che si intendevano per certo colpire mediante una sequela di azioni amministrative illegittime; beni che, peraltro, non sono stati di fatto compromessi nella loro integrità proprio perché gli effetti di tali azioni sono stati repentinamente caducati ope iudicis. Per scaricare la sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale* del 2003, proposto da:
*, rappresentato e difeso dall’avv. Vincenzo Avolio, con domicilio eletto in Roma presso Placidi S.n.c. , via Cosseria, 2 ;
contro
Comune di Milano (Mi), in persona del Sindaco pro tempore, costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso dall’avv. Maria Rita Surano e dall’avv. Elena Savasta, dell’Avvocatura Comunale, nonché dall’avv. Raffaele Izzo, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, Lungotevere Marzio, 3;
per la riforma
della sentenza del T.a.r. per la Lombardia, Milano, Sez. II, n. 3808 dd. 26 settembre 2002, resa tra le parti e concernente trasferimento ad altro incarico di un dipendente comunale.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del comune di Milano;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 18 marzo 2014 il Cons. Fulvio Rocco e uditi per l’appellante* l’avv. Nino Matassa su delega dell’avv. Vincenzo Avolio e per il Comune di Milano l’avv. Franco Zambelli su delega dichiarata dell’avv. Raffaele Izzo.
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1.1. Con provvedimento n. 157 dd. 10 luglio 1996 il Sindaco di Milano ha disposto nei confronti del dott. *i, dipendente comunale appartenente alla II^ qualifica dirigenziale e preposto alla direzione del VII Settore Ragioneria comunale, la cessazione da tale funzione con la contestuale attribuzione nei suoi confronti dell’incarico “di seguire l’attuazione degli intervenuti previsti per l’ultimo anno di attività della Giunta Comunale”.
Il * ha proposto ricorso innanzi al T.A.R. per la Lombardia, Sede di Milano – allibrato al n.r.g. 3336/1996 - avverso tale provvedimento nonché avverso tutti gli altri atti ad esso presupposti e connessi, deducendo al riguardo:
1) violazione e falsa applicazione degli artt.3, comma 2, 17, 19, 22 e 31 del D.L.vo 3 febbraio 1993 n. 19; violazione e falsa applicazione degli art.22, 40 e 41 del CCNL area della dirigenza del comparto Regioni-Enti Locali; violazione dell’art.3 della L. 7 agosto 1990 n.241, difetto di motivazione; eccesso di potere per sviamento;
2) violazione dell’allegato A al D.P.R. 25 giugno 1983 n.347; violazione dell’art.57 del D.L.vo 29 del 1993 e dei principi generali in materia di esercizio delle funzioni inerenti alla qualifica rivestita; violazione dell’art. 31 del T.U. approvato con D.P.R. 10 gennaio 1957 n.3; violazione dell’art.10 del D.P.R. 347 del 1983; violazione e falsa applicazione dell’art.41 del D.P.R. 13 maggio 1987 n.268; difetto di motivazione;
3) violazione dell’art. 7 e ss. della L. 241 del 1990; mancato avvio del procedimento.
Giova subito rilevare che con ordinanza n. 2432 dd. 12 settembre 1996 la Sez. II dell’adito T.A.R. ha accolto la domanda di sospensione cautelare del provvedimento impugnato, avanzata dal Buzzi, e che a seguito della stessa il Sindaco di Milano ha adottato il provvedimento n. 194 dd. 23 settembre 1996 assegnando al* in via provvisoria e sperimentale l’incarico di direzione del progetto per l’attuazione del servizio di controllo interno all’amministrazione comunale e dei nuclei di valutazione di cui all’art.20,comma 2 e ss. del D.L.vo 29 del 1993.
1.2. Il * ha proposto, sub R.G. 5000 del 1996, un secondo ricorso, sempre innanzi al medesimo T.A.R., avverso tale ulteriore provvedimento del Sindaco, nonché avverso gli atti ad esso presupposti e conseguenti, deducendo le seguenti censure:
1) violazione e falsa applicazione degli artt. 3, comma 2, 17, 19, 22 e 31 del D.L.vo 29 del 1993; eccesso di potere per falsità del presupposto; violazione e falsa applicazione degli artt. 22, 40 e 41 del CCNL area della dirigenza del comparto Regioni-Enti locali, violazione dell’art.3 della L. 241 del 1990; violazione dei principi generali in tema di esercizio del potere di autotutela; eccesso di potere per contraddittorietà manifesta; eccesso di potere per sviamento dell’atto dalla causa tipica;
2) violazione dell’allegato A al D.P.R. 347 del 1983; violazione dell’art. 57 del D.L.vo 29 del 1993 e dei principi generali in materia di esercizio delle funzioni inerenti alla qualifica rivestita; violazione dell’art. 31 del T.U. approvato con D.P.R. 3 del 1957; violazione dell’art.10 del D.P.R. 347 del 1983; violazione e falsa applicazione dell’art. 41 del D.P.R. 268 del 1987; difetto di motivazione;
3) violazione dell’art. 7 e ss. della L. 241 del 1990; mancato avviso di avvio del procedimento.
Anche in questo caso l’adito T.A.R. ha accolto la domanda di sospensione cautelare di tale ulteriore provvedimento con ordinanza n. 3695 dd. 19 dicembre 1996.
1.3. Con provvedimento n. 4 dd. 8 gennaio 1997 il Sindaco di Milano ha quindi revocato il proprio provvedimento n. 194 dd. 23 settembre 1996, attribuendo contestualmente al Buzzi, sempre in via provvisoria e sperimentale, “l’incarico di direzione del settore Programmazione del Piano”.
Con un terzo ricorso, proposto sub R.G. 680 del 1997 innanzi al medesimo T.A.R., il Buzzi ha chiesto l’annullamento anche di tale provvedimento e di tutti gli altri atti presupposti e conseguenti, deducendo al riguardo eccesso di potere per sviamento e difetto assoluto di motivazione, elusione delle ordinanze cautelari nn. 2437 del 1996 e 3695 del 1996 adottate dal giudice amministrativo, arbitrarietà manifesta e violazione dell’art. 7 e ss. della L. 241 del 1990.
Anche in tale procedimento l’adito T.A.R. ha disposto, con ordinanza n. 653 dd. 26 febbraio 1997, la sospensione cautelare del provvedimento impugnato.
1.4. Con un ultimo ricorso, proposto sub R.G. 3772 del 2000 innanzi allo stesso T.A.R., il * ha articolato domanda di risarcimento dei danni asseritamente da lui subiti in dipendenza degli atti impugnati.
1.5. In tutti e quattro tali procedimenti si è costituito in giudizio il Comune di Milano, replicando puntualmente alle censure avversarie e concludendo per la reiezione dei relativi ricorsi.
1.6. Con sentenza n. 3808 dd. 26 settembre 2002 la Sez. II dell’adito T.A.R., previa riunione dei predetti ricorsi, ha accolto i ricorsi proposti sub R.G. 3336 del 1996 e 680 del 1997, ha dichiarato improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse alla decisione il ricorso proposto sub R.G. 5000 del 1996 (peraltro erroneamente indicato come accolto nel dispositivo della sentenza impugnata), e ha respinto il ricorso allibrato al R.G. 3772 del 2000, quest’ultimo - come detto innanzi - segnatamente proposto al fine del risarcimento del danno asseritamente discendente dagli atti impugnati con gli altri ricorsi.
Giova sin d’ora precisare che il T.A.R. ha respinto la domanda di risarcimento del danno proposta dal * rilevando testualmente che, secondo la prospettazione di questi, dagli atti impugnati “sarebbero derivati danni alla sua salute ed alla sua immagine professionale …” e che, tuttavia, la domanda medesima non poteva essere accolta, “non apparendo sussistere nella fattispecie i presupposti per farsi luogo al richiesto risarcimento. Al riguardo è infatti sufficiente osservare che: da un lato, non risulta comprovato in giudizio che i problemi di salute del ricorrente (di stress e di tipo cardiologico) insorti nel 1996 siano da ricollegare causalmente agli anzidetti provvedimenti delSindaco di Milano; d’altro lato, non può dirsi, in mancanza d’idonea prova al riguardo, che questi provvedimenti, di spostamento del ricorrente dell’ufficio dirigenziale al quale era preposto e di assegnazione al ricorrente medesimo di compiti diversi di asserito inferiore livello di professionalità, abbiano senz’altro determinato per il ricorrente un danno all’immagine: ciò, tanto più in considerazione del fatto che i provvedimenti in discorso sono stati via via sospesi da questo T.A.R. a breve distanza di tempo della loro adozione” (cfr. pag. 9 della sentenza impugnata).
Il giudice di primo grado ha in parte compensato le spese processuali tra le parti, condannando il Comune di Milano a corrispondere al Buzzi per la parte residua delle spese medesime la complessiva somma di € 4.000,00.- (quattromila) oltre da I.V.A. e C.P.A.
2.1. Con l’appello in epigrafe il* impugna pertanto il capo della sentenza recante la reiezione della domanda di risarcimento del danno, reputandolo “manifestamente erroneo e platealmente smentito dall’esame della documentazione” prodotta nell’ultimo procedimento da lui proposto (cfr. pag. 12 dell’atto introduttivo del presente grado di giudizio).
A tale riguardo l’appellante si richiama innanzitutto ad una perizia redatta nel suo interesse dal dott. *i, specialista in cardiologia e medicina legale, il quale, in relazione ai problemi di carattere cardiologico esposti in primo grado sub R.G. 3772 del 2000 e insorti – per l’appunto – all’epoca dei fatti di causa, aveva concluso nel senso che “dal momento che vi è consenso internazionale sulla correlazione fra tensione emozionale e spasmo delle coronarie, è sostenibile l’esistenza di un nesso causale fra lo stresslavorativo ed il turbamento emozionale, fra quest’ultimo e la malattia di cuore” (cfr. ivi, doc. 4 di parte ricorrente in primo grado).
Il* si richiama quindi ad altra perizia, redatta dal dott. * (cfr. doc. 14 di parte ricorrente sub R.G. 3772 del 2000), riguardante la sofferenza psichica da lui concomitantemente lamentata e nella quale si legge, tra l’altro, che “l’insieme dei dati raccolti dalla documentazione cardiologica e psichiatrica, dall’anamnesi psicopatologica, dall’esame obbiettivo psichico e dal quello psicodiagnostico, consentono di stabilire che il dottor * presenta segni clinici di un disturbo Post-Traumatico da Stress, Cronico, in via di lenta risoluzione (DSM-IV) ... I suddetti riscontri clinici, pertanto, dimostrano che, causa unica ed efficiente dell’insorgenza della suddetta patologia psichica, sia stata l’esperienza violentemente traumatizzante e la brusca ed assolutamente inopinata sospensione dal proprio incarico dopo una vita dedicata alla propria formazione professionale ed all’impegno lavorativo, ottenendo ampi riconoscimenti per le ottime qualità personali e professionali... Ciò premesso si può affermare, con alta attendibilità, che il dottor +, a causa della ingiustificata misura adottata nei suoi riguardi dal Comune di Milano e della condotta inadempiente successiva, ha riportato una sofferenza psichica che è giunta a configurare una franca patologia inquadrabile nella diagnosi di Disturbo Post-Traumatico daStress”.
Secondo il *, tali due perizie – in alcun modo citate e contraddette nella motivazione della sentenza impugnata - comproverebbero eloquentemente la sussistenza di un nesso causale tra i provvedimenti illegittimamente adottati nei suoi confronti dal Comune di Milano e le malattie da lui lamentate, e smentirebbero pertanto la diversa e del tutto immotivata conclusione raggiunta al riguardo dal giudice di primo grado.
Il * evidenzia inoltre che lo stesso T.A.R. altrettanto immotivatamente avrebbe disatteso la propria istanza di consulenza tecnica d’ufficio in ordine all’accertamento del nesso eziologico tra i provvedimenti anzidetti e le patologie da lui contratte, e rinnova pertanto l’istanza medesima anche per il presente grado di giudizio.
L’appellante afferma – altresì – che il giudice di primo grado avrebbe del tutto acriticamente condiviso la tesi difensiva del Comune, escludendo la sussistenza del pregiudizio da lui dedotto in considerazione della circostanza che i provvedimenti impugnati sono stati cautelativamente sospesi nei loro effetti a breve distanza di tempo dalla loro adozione.
Tale assunto del giudice di primo grado è ricondotto dal * ad “un formalismo esasperato”, non essendosi tenuto con ciò “tenuto conto del fatto che in un ambiente lavorativo piuttosto ristretto, la rimozione da un giorno all’altro di un dirigente che occupava da oltre un decennio una posizione di lavoro di un certo prestigio ed assai delicata, in quanto implicante funzioni di controllo finanziario e contabile, non solo non può passare inosservata, ma non può che gettare scredito sul funzionario. E ciò a maggior ragione - in questo l’inconsistenza del rilievo mosso dal T.A.R. - se, pur a fronte dei provvedimenti cautelari adottati in sede giurisdizionale, il Comune, anziché ricondurre il dipendente alle sue originarie funzioni, ha strenuamente cercato di tenerlo lontano dall’ufficio fino ad allora ricoperto”, non essendo pertanto le ordinanze cautelari anzidette sufficienti a “riabilitare” la propria figura (cfr. pag. 15 dell’atto introduttivo del presente giudizio).
Il * insiste pertanto nel richiamare come conferente al proprio caso la ben nota giurisprudenza riguardante il danno da c.d. “demansionamento” (cfr. sul punto, ad es., Cass. Sez. Lav., 25 febbraio 1997 n. 1704, 29 maggio 1996, n. 4991, 14 luglio 1993 n. 7789 e 16 febbraio 1992 n. 13299; cfr., altresì, Corte Cost., 27 dicembre 1991 n. 485 e 18 luglio 1991 n. 356), avuto riguardo alla circostanza che i provvedimenti impugnati gli attribuivano funzioni diverse da quelle tipicamente dirigenziali da lui per l’innanzi svolte e con conseguente sussistenza di una lesione sia della propria sfera morale, sia della propria figura professionale, e rinnova quindi la domanda di condanna del Comune di Milano al risarcimento dei danni da lui subiti nella complessiva misura di € 118.954,48.-, ovvero alla minore o maggior somma che risulterà provata in corso di causa o, in subordine, stabilita in via equitativa.
L’appellante chiede che la somma medesima, escluse le spese mediche da sostenere, sia maggiorata degli interessi e della rivalutazione del credito a decorrere dal luglio 1996 e sino all’effettivo saldo.
2.2. Si è costituito anche nel presente grado di giudizio il Comune di Milano, replicando puntualmente alle deduzioni avversarie e concludendo per la reiezione dell’appello.
3. Alla pubblica udienza del 18 marzo 2014 la causa è stata trattenuta per la decisione.
4.1. Tutto ciò doverosamente premesso, l’appello in epigrafe va respinto.
4.2.1. Il Collegio non intende decampare dai principi elaborati dalla giurisprudenza di questo Consiglio e della Corte di cassazione in materia di risarcimento del danno da illecita attività provvedimentale dell’amministrazione (cfr. ex plurimis e da ultimo, Cass. civ., sez. III, 22 ottobre 2013, n. 23993; sez. un., 23 marzo 2011, n. 6594; sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576 e 582; Cons. Stato, ad. plen., 19 aprile 2013, n. 7; ad. plen., 23 marzo 2011, n. 3; sez. III, 19 marzo 2014, n. 1357; sez. V, 17 gennaio 2014, n. 183; sez. V, 31 ottobre 2013, n. 5247; sez. V, 21 giugno 2013, n. 3408; sez. III, 30 maggio 2012, n. 3245; sez. IV, 22 maggio 2012, n. 2974; sez. IV, 2 aprile 2012, n. 1957; sez. IV, 31 gennaio 2012, n. 482; cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.), in forza dei quali:
a) la qualificazione del danno da illecito provvedimentale rientra nello schema della responsabilità extra contrattuale disciplinata dall’art. 2043 c.c.; conseguentemente, per accedere alla tutela è indispensabile, ancorché non sufficiente, che l’interesse legittimo o il diritto soggettivo sia stato leso da un provvedimento (o da comportamento) illegittimo dell’amministrazione reso nell’esplicazione (o nell’inerzia) di una funzione pubblica e la lesione deve incidere sul bene della vita finale, che funge da sostrato materiale della situazione soggettiva e che non consente di configurare la tutela degli interessi c.d. procedimentali puri, delle mere aspettative, dei ritardi procedimentali, o degli interessi contra ius;
b) l’onere di provare la presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito extracontrattuale (condotta, evento, nesso di causalità, antigiuridicità, colpevolezza), grava sulla parte danneggiata che abbia visto riconosciuto l’illegittimo esercizio della funzione pubblica;
c) la prova dell’esistenza dell’antigiuridicità del danno deve intervenire all’esito di una verifica del caso concreto che faccia concludere per la sua certezza la quale, a sua volta, presuppone: l’esistenza di una posizione giuridica sostanziale; l’esistenza di una lesione che è configurabile (oltre ché nell’ovvia evidenza fattuale) anche allorquando vi sia una rilevante probabilità di risultato utile frustrata dall’agire (o dall’inerzia) illegittima della p.a.;
d) al di fuori del settore degli appalti (governato da autonomi principi sviluppati nel tempo dalla Corte di giustizia UE), in sede di accertamento della colpevolezza nell’esercizio della funzione pubblica, l’acclarata illegittimità del provvedimento amministrativo, integra, ai sensi degli artt. 2727 e 2729, co. 1, c.c., il fatto costitutivo di una presunzione semplice in ordine alla sussistenza della colpa in capo all’amministrazione; ne consegue che spetta a quest’ultima dimostrare la scusabilità dell’errore per la presenza, ad esempio, di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione della norma (o di improvvisi revirement da parte delle Corti supreme), di oscurità oggettiva del quadro normativo (anche a causa della formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore), di rilevante complessità del fatto, della influenza determinante dei comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da successiva declaratoria di incostituzionalità della norma applicata dall’amministrazione;
e) ai fini del riscontro del nesso di causalità nell’ambito della responsabilità extra contrattuale da cattivo esercizio della funzione pubblica, si deve muovere dall’applicazione dei principî penalistici, di cui agli art. 40 e 41 c.p., in forza dei quali un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non); il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dall’art. 41, co. 2, c.p., in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto; al contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale; in quest’ottica, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano — ad una valutazione ex ante — del tutto inverosimili.
Per quanto poi concerne l’aspetto che qui segnatamente rileva, ossia il nesso causale tra l’illecito e il danno subito, va parimenti rimarcato che l’onnicomprensiva categoria del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., pur nelle ipotesi in cui consegue alla violazione di diritti inviolabili della persona (ad es. il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost.), costituisce pur sempre un’ipotesi di danno-conseguenza, il cui ristoro è in concreto possibile solo a seguito dell’integrale allegazione e prova in ordine alla sua consistenza materiale ed in ordine alla sua riferibilità eziologica alla condotta del soggetto asseritamente danneggiante.
Ne consegue, quindi, che il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale e biologico non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, da parte di colui che si pretende danneggiato, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo.
In una con i principi elaborati dalle sezioni unite della Corte di cassazione (cfr. le celebri sentenze gemelle sez. un., nn. 26973, 26974, 26975 del 2008, successivamente si vedano gli affinamenti elaborati da Cass. civ., sez. III, 2228 del 2012) e dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio (n. 7 del 2013 cit.), si rileva che mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno non patrimoniale - da intendersi come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul “fare areddittuale” del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendo il soggetto medesimo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e alla realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - deve essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, potendo peraltro anche in tale evenienza assumere precipuo rilievo la prova per presunzioni; ne discende che il prestatore di lavoro, che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di c.d. danno biologico), subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, posto che tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo e che pertanto non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, nel mentre incombe al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la prova in base all’anzidetta regola generale di cui all’art. 2697 cod. civ.
Ciò posto, nel caso di specie il* ha allegato a comprova delle componenti biologica e esistenziale del danno da lui asseritamente subito i sopradescritti referti del dott. * e del dott. * e, per quanto attiene alla componente professionale del danno medesimo, si è richiamato alla circostanza che i provvedimenti adottati dal Sindaco e da lui impugnati contemplavano un ben evidente suo demansionamento proprio in quanto non prevedevano l’assegnazione nei suoi riguardi di funzioni dirigenziali.
4.2.2. Il Collegio, per parte propria, reputa che nella specie non sussista il nesso causale tra l’illecito e il danno subito, ossia una delle condizioni necessarie per configurare la sussistenza di una colpa della P.A.
Dall’esame degli eventi considerati nei ricorsi proposti in primo grado dal Buzzi e della documentazione contenuta nei relativi fascicoli processuali, consta che con decorrenza 10 luglio 1996, e cioè dallo stesso giorno nel quale è stato emesso il primo dei provvedimenti impugnati – recante la rimozione dalle funzioni di Direttore del Settore VII della Ragioneria del Comune con contestuale assegnazione all’incarico “di seguire l’attuazione degli intervenuti previsti per l’ultimo anno di attività della Giunta Comunale”– il * è rimasto assente dal servizio alternando periodi di malattia con periodi di ferie fino alla data del 12 marzo 1997, durante il quale sono comunque intervenute, a seguito dei ricorsi giurisdizionali da lui presentati, le ordinanze cautelari n. 2432 dd. 12 settembre 1996, n. 3695 dd. 19 dicembre 1996 e n. 653 dd. 26 febbraio 1997 con le quali sono stati puntualmente rimossi gli effetti dei provvedimenti recanti in prosieguo di tempo la rimozione dalla direzione del predetto Settore VII della Ragioneria del Comune.
Il * è rientrato in servizio, per sua scelta, in data 12 marzo 1997 riassumendo pertanto le funzioni che aveva all’anzidetta data del 10 luglio 1996.
Sempre per sua scelta, il *è stato collocato in quiescenza con decorrenza dal 5 marzo 1998.
Le patologie da lui lamentate e riferite agli atti impugnati non gli hanno, peraltro, impedito sia di espletare, anche nell’anzidetto lasso di tempo intercorrente tra il 10 luglio 1996 e il 12 marzo 1997, gli incarichi extra-istituzionali di revisore dei conti dell’Azienda ospedaliera “Ospedale Niguarda Ca’ Granda” e dell’Azienda sanitaria “Città di Milano” (già U.S.S.L. n. 37); e, soprattutto, non hanno costituito per lui ostacolo al fine di presentare in data 12 dicembre 1996 (ossia, si badi, ben prima di riassumere servizio in data 12 marzo 1997) domanda di trattenimento in servizio per un biennio oltre il 65° anno di età, ossia fino al 15 giugno 1999.
Se così è stato, quindi, deve necessariamente concludersi nel senso che le anzidette patologie pur da lui lamentate non sono risultate in tutto o in parte inibenti al fine dell’espletamento dell’attività lavorativa, tanto che il medesimo* ha reputato di essere in grado di prorogarne la durata, usufruendo del relativo beneficio dal 15 giugno 1997 al 5 marzo 1998, ossia per quasi nove mesi: e che, pertanto, le patologie medesime non possono essere ragionevolmente ascritte a un danno che, per essere veramente tale, avrebbe impedito all’interessato di svolgere l’attività lavorativa sia istituzionale, sia extra-istituzionale dianzi descritta.
Né possono dirsi sussistenti nella loro materialità sia il danno da demansionamento che quello all’immagine, entrambi lamentati dall’appellante.
La giurisprudenza da tempo assegna ai provvedimenti cautelari emanati dal giudice amministrativo la funzione di escludere o, comunque, di mitigare il danno insito nel provvedimento impugnato, posto che la tutela cautelare è diretta alla temporanea salvaguardia della posizione del deducente, onde consentirgli - qualora risultasse vincitore nel merito - di trarre l’utilità sostanziale offerta dalla decisione, producendo in via temporalmente anticipata nella sua sfera giuridica benefici omogenei e comunque non superiori rispetto a quelle che la sentenza potrà procurare (così, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 27 marzo 1995 n. 191); e, proprio in dipendenza di ciò, e anche a prescindere dall’espressa statuizione al riguardo contenuta dal susseguentemente intervenuto art. 30, cod. proc. amm., la medesima giurisprudenza ha ricavato dai principi contenuti dall’art. 1227, secondo comma, cod. civ., la regola della possibile non risarcibilità dei danni evitabili con l’impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione degli strumenti di tutela cautelare previsti dall’ordinamento (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 9 ottobre 2013 n. 4968).
Nel caso in esame il demansionamento lamentato dal* non è in fatto avvenuto proprio poiché il tempestivo accesso da lui fatto allo strumento di tutela cautelare ha impedito l’assunzione da parte sua dei compiti non rispondenti alla qualifica ricoperta, tanto che il suo rientro in servizio è incontestabilmente avvenuto nella stessa posizione occupata al momento del primo provvedimento di rimozione illegittimamente emanato nei suoi confronti.
In questo modo, pertanto, l’intervento del giudice adito in primo grado ha fatto sì che il prestigio personale e professionale del* non fossero vulnerati anche nel lasso di tempo intercorrente tra la proposizione dei ricorsi e la loro definizione nel merito: e proprio tale circostanza rende dunque inaccoglibile una domanda risarcitoria che ha per oggetto beni della vita che si intendevano per certo colpire mediante una sequela di azioni amministrative illegittime; beni che, peraltro, non sono stati di fatto compromessi nella loro integrità proprio perché gli effetti di tali azioni sono stati repentinamente caducati ope iudicis .
5. Le spese e gli onorari del presente grado di giudizio seguono la regola della soccombenza e sono liquidati nel dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge (ricorso: 5858 del 2003).
Condanna l’appellante al pagamento delle spese e degli onorari del presente grado di giudizio, complessivamente liquidati nella misura di € 2.000,00.- (duemila/00), oltre ad I.V.A. e C.P.A.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 marzo 2014 con l’intervento dei magistrati:
Vito Poli, Presidente FF
Fulvio Rocco, Consigliere, Estensore
Doris Durante, Consigliere
Nicola Gaviano, Consigliere
Fabio Franconiero, Consigliere
L'ESTENSORE | IL PRESIDENTE | |
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 27/05/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
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