Friday 26 July 2013 17:35:23

Giurisprudenza  Pubblico Impiego e Responsabilità Amministrativa

007 collocati in quiescenza d’ufficio a 57 anni di età anagrafica, 40 anni di anzianità contributiva e 20 anni di attività

a cura del Prof. Avv. Enrico Michetti

Per chi vuole approfondire lo speciale settore degli organismi di informazione e sicurezza troverà interessante la sentenza in esame nella quale si controverte della legittimità del DPCM 30 luglio 2010 n. 2, con il quale è stato disposto il collocamento in quiescenza d’ufficio del personale degli Organismi di informazione e sicurezza, al raggiungimento dei tre requisiti di 57 anni di età anagrafica, 40 anni di anzianità contributiva e 20 anni di attività negli organismi di informazione e sicurezza. Già il TAR Lazio in primo grado aveva rilevato che “il collocamento a riposo d’ufficio del personale, previsto, per il triennio 2011 – 2013, alla maturazione dei requisiti di cui al DPCM 2/2010 . . . è assistito da una giustificazione più che congrua, in quanto finalizzato all’ottimizzazione della spesa e dei costi, nonché al riordinamento organizzativo delle strutture”. P effetto delle norme sul collocamento a riposo di ufficio, si ottiene una riduzione della spesa complessiva ed un numero di dipendenti degli Organismi sensibilmente ridotto rispetto all’assetto organizzativo precedente, ed inoltre i requisiti individuati “hanno carattere oggettivo, sicchè non è ipotizzabile alcuna disparità di trattamento tra i singoli dipendenti degli organismi”. È' insorto avverso la sentenza del TAR lo 007 "omissis" che si duole dell’epurazione di massa” e ritiene, tra l'altro che “è impossibile ritenere ispirato a logicità e ragionevolezza un sistema che si libera indiscriminatamente di personale cinquantasettenne”, peraltro violando anche l’art. 19, co. 6, d. lgs. n. 165/2001 secondo cui il conferimento di incarichi dirigenziali è legato alle attitudini e capacità professionali vagliati alla luce dei risultati conseguiti”. La sentenza dopo aver ricostruito il quadro legislativo e regolamentare del Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica ha rigettato l'appello, tra l'altro affermato che Innanzi tutto, il Collegio non ritiene che la norma primaria evocata (art. 21 l. n. 124/2007) difetti nell’indicazione di principi, criteri e limiti, nell’esercizio della potestà regolamentare. Al contrario, tale articolo appare (come emerge soprattutto dalla elencazione di casi di cui al comma 2) estremamente specifico e dettagliato. Né, come si è già avuto modo di osservare, ricorre la mera ipotesi del regolamento di delegificazione (per il quale l’indicazione di principi e criteri direttivi è obbligatoria), posto che non vi è alcun trasferimento di disciplina di una materia dalla legge al regolamento, ma solo la parziale autorizzazione concessa a quest’ultimo a disciplinare in deroga alle norme di legge, ma pur sempre nell’ambito delle disposizioni di cui alla legge n. 124/2007. D’altra parte, occorre ricordare che l’indicazione di principi, criteri e limiti all’esercizio della potestà regolamentare non può risolversi in una puntuale indicazione di ipotesi astratte e/o casi di specie, poiché – se è vero che la norma regolamentare costituisce una integrazione della norma primaria – è altrettanto vero che la “pervasività descrittiva” di quest’ultima renderebbe inutile lo stesso esercizio della potestà regolamentare. Al contrario, come si è già affermato, in assenza di criteri più puntuali, il parametro di riferimento è offerto dalle norme primarie, ed innanzi tutto da quelle su cui si fonda l’esercizio della potestà regolamentare e da quelle cui il regolamento è destinato a dare attuazione (e sui principi da esse desumibili), ma è offerto anche dalle norme costituzionali e del diritto dell’Unione Europea, alle quali può essere riconosciuto un contenuto precettivo. In questo contesto,anche la previsione del comma 8, secondo il quale “il regolamento disciplina i casi di cessazione dei rapporti di dipendenza, di ruolo o non di ruolo”, deve essere letta nell’ambito dei principi espressi dalla legge n. 124/2007 e dalle norme costituzionali operanti in materia, ma soprattutto tenendo conto della assoluta specialità del settore entro il quale i soggetti , se pure pubblici dipendenti, esplicano la propria attività.. D’altra parte, se la ricostruzione dogmatica della fonte regolamentare dipende anche dalla “funzione” del medesimo, e quindi, in ultima analisi, dall’oggetto della sua disciplina e dal contesto normativo di riferimento, occorre considerare che il caso di specie (ordinamento del personale degli organismi di informazione per la sicurezza della Repubblica) rappresenta il massimo di specialità nell’ambito del rapporto di pubblico impiego, come è non solo intuitivamente desumibile dalla stessa evidenza del settore di riferimento, ma anche e soprattutto dal regime di eccezionalità e di “deroghe” alla disciplina generale (anche penale), che la legge n. 124/2007 prevede. Né la presenza di “deroghe”, rispetto alla disciplina generale del pubblico impiego, può essere di per sé ritenuta costituire una violazione dei principi costituzionali di eguaglianza e di imparzialità e buon andamento (artt. 3 e 97 Cost.). Come questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare (Cons. Stato, sez. IV, 29 settembre 2011 n. 5411), “la non riconducibilità del rapporto di lavoro alle dipendenze della Pubblica amministrazione (latamente intesa) ad un modello unico (di modo che possono aversi valutazioni differenti di un medesimo episodio in ragione di impieghi diversi), è già desumibile dalla stessa Costituzione, laddove, all’art. 98, comma terzo, prevede che, per determinaste categorie di pubblici dipendenti . . . possano essere disposte limitazioni finanche all’esercizio dei diritti politici (nella specie, iscrizioni ai partiti), purchè con legge ed in evidente considerazione della specificità e delicatezza delle loro funzioni”. Ne consegue che “l’esercizio della discrezionalità da parte dell’amministrazione (ed il conseguente sindacato giurisdizionale del giudice, nei limiti in cui questo è consentito) deve tenere senz’altro conto della particolarità e delicatezza delle funzioni” che il candidato (ove risultante vincitore del concorso), nel caso considerato dalla sentenza citata, o il dipendente dovrà o deve svolgere. Per accedere gratuitamente al testo integrale della sentenza cliccare sul titolo sopra linkato ed inserire le proprie credenziali.

 

Testo del Provvedimento (Apri il link)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

 

sul ricorso numero di registro generale 8453 del 2011, proposto da:

-OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avv. Francesco Castiello, Mario Sanino, con domicilio eletto presso Francesco Castiello in Roma, via Giuseppe Cerbara, 64;

 

contro

Presidenza Consiglio dei Ministri, rappresentata e difesa per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12; 

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE I n. 06290/2011, resa tra le parti, concernente COLLOCAMENTO IN QUIESCENZA D'AUTORITA'

 

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Presidenza Consiglio dei Ministri;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 maggio 2012 il Cons. Oberdan Forlenza e uditi per le parti gli avvocati Francesco Castiello, Mario Sanino, Giovanni Palatiello e Fabrizio Fedeli (avv. St.);

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

 

FATTO

1. Con l’appello in esame, viene impugnata la sentenza 13 luglio 2011 n. 6290, con la quale il TAR per il Lazio ha respinto il ricorso proposto avverso il DPCM 30 luglio 2010 n. 2, con il quale è stato disposto il collocamento in quiescenza d’ufficio del personale degli Organismi di informazione e sicurezza, al raggiungimento dei tre requisiti di 57 anni di età anagrafica, 40 anni di anzianità contributiva e 20 anni di attività negli organismi di informazione e sicurezza.

La sentenza impugnata ha affermato tra l’altro:

- il decreto n. 2/2010 “pur indicando tra le proprie finalità la necessità di contenimento della spesa pubblica, non ha il suo specifico fondamento nell’art. 72, co. 11, d.l. n. 112/2008”, con conseguente infondatezza di tutte le relative censure;

- “lo speciale rapporto di servizio con gli Organismi, anche a seguito dell’entrata in vigore della legge di riforma n. 124/2007, è atipico rispetto al modulo del pubblico impiego e si caratterizza per un’ampia discrezionalità riconosciuta all’amministrazione, in contrapposizione alla quale sussistono posizioni soggettive di carattere recessivo rispetto allo specifico interesse pubblico tutelato”; in tal senso l’artt. 1, co. 3 e l’art. 21, dei quali la normativa regolamentare costituisce attuazione “ha previsto una delegificazione della materia in quanto connessa ad interessi sensibili dello Stato, a fronte dei quali l’interesse dei privati si pone in posizione subordinata e recessiva”;

- “la norma di delegificazione autorizza il regolamento ad intervenire sull’intera materia relativa al personale, materia che, altrimenti, sarebbe disciplinata dalla normativa generale di carattere primario”;

- la possibilità di disciplinare la materia “anche in deroga alle vigenti disposizioni di legge”, non è “limitata ad una singola e specifica norma di legge derogabile, ma si estende all’intero corpus normativo di settore e . . . ciò è coerente con la specificità del rapporto di lavoro, connotato da un elevatissimo elemento di fiduciarietà”;

- nel caso di specie, “il legislatore non ha affatto abdicato alla propria potestà normativa, ben potendo con una legge successiva dettare una singola norma o l’intera disciplina del rapporto di impiego alle dipendenze degli Organismi”;

- “il collocamento a riposo d’ufficio del personale, previsto, per il triennio 2011 – 2013, alla maturazione dei requisiti di cui al DPCM 2/2010 . . . è assistito da una giustificazione più che congrua, in quanto finalizzato all’ottimizzazione della spesa e dei costi, nonché al riordinamento organizzativo delle strutture”;

- in particolare, per effetto delle norme sul collocamento a riposo di ufficio, si ottiene una riduzione della spesa complessiva ed un numero di dipendenti degli Organismi sensibilmente ridotto rispetto all’assetto organizzativo precedente, ed inoltre i requisiti individuati “hanno carattere oggettivo, sicchè non è ipotizzabile alcuna disparità di trattamento tra i singoli dipendenti degli organismi”.

Avverso tale decisione, vengono proposti i seguenti motivi di impugnazione:

a) travisamento dei presupposti di fatto e di diritto; violazione del principio della domanda (art. 112 c.p.c.; art. 39 c.p.a.); insufficienza ed incongruità della motivazione; violazione art. 111 Cost:; ciò in quanto – posto che l’art. 21 l. n. 124/2007 non pone alcun principio o criterio delimitativo o anche soltanto orientativo del potere regolamentare delegato – vi è “il fondato sospetto di incostituzionalità della fonte legislativa”, poiché si autorizza “l’esercizio della potestà regolamentare senza determinazione di principi e criteri, né di tipo delimitativo e neppure soltanto orientativo, necessari a regolarne l’esercizio”. Inoltre, il regolamento in esame “riguarda l’organizzazione amministrativa, materia coperta da riserva di legge ai sensi dell’art. 97 Cost.”; inoltre, “è spirata l’autorizzazione legislativa per l’esercizio del potere regolamentare nei 180 giorni dalla data di entrata in vigore della l. n. 124/07”;

b) ulteriore travisamento di presupposto; illogicità; insufficienza e incongruità della motivazione; poiché, per il tramite del regolamento, non si sono volute eliminare duplicazioni organizzative, poiché a tal fine “si sarebbero dovuti colpire selettivamente i soggetti cui tali duplicazioni ed insufficienze erano concretamente riferibili”, mentre “l’epurazione è stata di massa”. Inoltre, “è impossibile ritenere ispirato a logicità e ragionevolezza un sistema che si libera indiscriminatamente di personale cinquantasettenne”, peraltro violando anche l’art. 19, co. 6, d. lgs. n. 165/2001 secondo cui il conferimento di incarichi dirigenziali è legato alle attitudini e capacità professionali vagliati alla luce dei risultati conseguiti”. Né i casi di pensionamento di soggetti più giovani di altri è marginale;

c) erroneità dei presupposti sotto altro profilo; illogicità; insufficienza e incongruità della motivazione; poiché dall’adozione del regolamento la spesa complessiva risulta più che raddoppiata (v. pagg. 23 – 25 app.);

d) violazione del principio della domanda (art. 112 c.p.c.; art. 39 c.p.a.); irragionevolezza; poiché non si è considerata “una delle principali censure” e precisamente “la macroscopica irragionevolezza della scelta di privarsi di soggetti cinquantasettenni, con 20 anni di anzianità nei Servizi di informazione, giunti al momento del loro pieno rendimento”. Inoltre, con il DPCM n. 1/2011 “il momento del pensionamento dei dipendenti dei Servizi di informazione è stato riportato al raggiungimento dell’età di 65 anni” e ciò costituisce “l’ulteriore prova della contraddittorietà, della perplessità e dell’irragionevolezza che viziano l’impugnato provvedimento”;

e) erroneità dei presupposti sotto altro profilo; violazione e disapplicazione dei principi di certezza dei rapporti giuridici e di tutela dell’affidamento, poiché “era stato assicurato il pensionamento all’età di 65 anni”, poi revocato;

f) violazione art. 117, co. 1, Cost; violazione dei principi dell’ordinamento comunitario; violazione art. 1, co. 1, l. n. 241/1990; irragionevolezza; poiché “la discrezionalità, pur se di grado elevato, in relazione alla specialità dei rapporti sui quali incide, non può ridondare in potere affatto libero, addirittura derogatorio di fondamentali principi costituzionali interni e comunitari”. Nel caso di specie, violando i citati principi, “piuttosto che ricorrere ad una cieca ed indiscriminata espulsione collettiva”, si sarebbe dovuto procedere “a una oculata selezione fondata sulla verifica della professionalità e della specializzazione dei dipendenti, trattenendo le risorse valide e utili e liberandosi di quelle non ritenute tali”.

Si sono costituiti in giudizio la Presidenza del Consiglio dei Ministri ed il Dipartimento informazioni per la sicurezza – D.I.S., i quali hanno richiesto il rigetto dell’appello, stante la sua infondatezza.

All’udienza di trattazione, la causa è stata riservata in decisione.

DIRITTO

2. L’appello è infondato e deve essere, pertanto, respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.

La legge 3 agosto 2007 n. 124, recante “Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto di Stato”, ha provveduto, tra l’altro, ad una complessiva riforma degli Organismi di informazione, onde renderne maggiormente coerente l’operato con i principi e le garanzie della Carta costituzionale.

In particolare, l’art. 2, precisa che:

“1. Il Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica è composto dal Presidente del Consiglio dei Ministri, dal Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica (CISR), dall’Autorità delegata di cui all’articolo 3, ove istituita, dal Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS), dall’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (AISE) e dall’Agenzia informazioni e sicurezza interna (AISI).

2. Ai fini della presente legge, per «servizi di informazione per la sicurezza» si intendono l’AISE e l’AISI”.

Il successivo art. 8, a garanzia delle funzioni svolte dai servizi, ed anche al fine di delimitare il campo di azione in un settore particolarmente “sensibile”, quale quello degli Organismi di informazione (e, di conseguenza, al fine di evitare abusi derivanti da commistioni o sistemi paralleli), precisa che “le funzioni attribuite dalla presente legge al DIS, all’AISE e all’AISI non possono essere svolte da nessun altro ente, organismo o ufficio”.

Quanto al personale operante presso i Servizi per lì’informazione e la sicurezza, l’art. 21 (rubricato “contingente speciale del personale”), prevede:

“1. Con apposito regolamento è determinato il contingente speciale del personale addetto al DIS e ai servizi di informazione per la sicurezza, istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il regolamento disciplina altresì, anche in deroga alle vigenti disposizioni di legge e nel rispetto dei criteri di cui alla presente legge, l’ordinamento e il reclutamento del personale garantendone l’unitarietà della gestione, il relativo trattamento economico e previdenziale, nonché il regime di pubblicità del regolamento stesso.

2. Il regolamento determina, in particolare:

a) l’istituzione di un ruolo unico del personale dei servizi di informazione per la sicurezza e del DIS, prevedendo le distinzioni per le funzioni amministrative, operative e tecniche;

b) la definizione di adeguate modalità concorsuali e selettive, aperte anche a cittadini esterni alla pubblica amministrazione, per la scelta del personale;

c) i limiti temporali per le assunzioni a tempo determinato nel rispetto della normativa vigente per coloro che, ai sensi della lettera e), non vengono assunti tramite concorso;

d) l’individuazione di una quota di personale chiamato a svolgere funzioni di diretta collaborazione con il direttore generale del DIS e con i direttori dei servizi di informazione per la sicurezza, la cui permanenza presso i rispettivi organismi è legata alla permanenza in carica dei medesimi direttori;

e) il divieto di assunzione diretta, salvo casi di alta e particolare specializzazione debitamente documentata, per attività assolutamente necessarie all’operatività del DIS e dei servizi di informazione per la sicurezza;

f) le ipotesi di incompatibilità, collegate alla presenza di rapporti di parentela entro il terzo grado o di affinità entro il secondo grado o di convivenza o di comprovata cointeressenza economica con dipendenti dei servizi di informazione per la sicurezza o del DIS, salvo che l’assunzione avvenga per concorso; qualora il rapporto di parentela o di affinità o di convivenza o di cointeressenza economica riguardi il direttore generale del DIS o i direttori dei servizi di informazione per la sicurezza, l’incompatibilità è assoluta;

g) il divieto di affidare incarichi a tempo indeterminato a chi è cessato per qualunque ragione dal rapporto di dipendenza dal DIS e dai servizi di informazione per la sicurezza;

h) i criteri per la progressione di carriera;

i) la determinazione per il DIS e per ciascun servizio della percentuale minima dei dipendenti del ruolo di cui alla lettera a);

l) i casi eccezionali di conferimento di incarichi ad esperti esterni, nei limiti e in relazione a particolari profili professionali, competenze o specializzazioni;

m) i criteri e le modalità relativi al trattamento giuridico ed economico del personale che rientra nell’amministrazione di provenienza al fine del riconoscimento delle professionalità acquisite e degli avanzamenti di carriera conseguiti;

n) i criteri e le modalità per il trasferimento del personale del ruolo di cui alla lettera a) ad altra amministrazione.

3. Per il reclutamento del personale addetto al DIS e ai servizi di informazione per la sicurezza non si applicano le norme di cui alla legge 12 marzo 1999, n. 68, e successive modificazioni, e all’articolo 16 della legge 28 febbraio 1987, n. 56, e successive modificazioni.

4. Le assunzioni effettuate in violazione dei divieti previsti dalla presente legge o dal regolamento sono nulle, ferma restando la responsabilità personale, patrimoniale e disciplinare di chi le ha disposte.

5. Il regolamento definisce la consistenza numerica, le condizioni e le modalità del passaggio del personale della Segreteria generale del CESIS, del SISMI e del SISDE nel ruolo di cui al comma 2, lettera a).

6. Il regolamento definisce, nei limiti delle risorse finanziarie previste a legislazione vigente e fermo restando quanto stabilito dal comma 6 dell’articolo 29 della presente legge, il trattamento economico onnicomprensivo del personale appartenente al DIS, all’AISE e all’AISI, costituito dallo stipendio, dall’indennità integrativa speciale, dagli assegni familiari e da una indennità di funzione, da attribuire in relazione al grado, alla qualifica e al profilo rivestiti e alle funzioni svolte.

7. È vietato qualsiasi trattamento economico accessorio diverso da quelli previsti dal regolamento. In caso di rientro nell’amministrazione di appartenenza o di trasferimento presso altra pubblica amministrazione, è escluso il mantenimento del trattamento economico principale e accessorio maturato alle dipendenze dei servizi di informazione per la sicurezza, fatte salve le misure eventualmente disposte ai sensi della lettera m) del comma 2.

8. Il regolamento disciplina i casi di cessazione dei rapporti di dipendenza, di ruolo o non di ruolo.

9. Il regolamento stabilisce le incompatibilità preclusive del rapporto con il DIS e con i servizi di informazione per la sicurezza, in relazione a determinate condizioni personali, a incarichi ricoperti e ad attività svolte, prevedendo specifici obblighi di dichiarazione e, in caso di violazione, le conseguenti sanzioni.

10. Non possono svolgere attività, in qualsiasi forma, alle dipendenze del Sistema di informazione per la sicurezza persone che, per comportamenti o azioni eversive nei confronti delle istituzioni democratiche, non diano sicuro affidamento di scrupolosa fedeltà alla Costituzione.

11. In nessun caso il DIS e i servizi di informazione per la sicurezza possono, nemmeno saltuariamente, avere alle loro dipendenze o impiegare in qualità di collaboratori o di consulenti membri del Parlamento europeo, del Parlamento o del Governo nazionali, consiglieri regionali, provinciali, comunali o membri delle rispettive giunte, dipendenti degli organi costituzionali, magistrati, Ministri di confessioni religiose e giornalisti professionisti o pubblicisti.

12. Tutto il personale che presta comunque la propria opera alle dipendenze o a favore del DIS o dei servizi di informazione per la sicurezza è tenuto, anche dopo la cessazione di tale attività, al rispetto del segreto su tutto ciò di cui sia venuto a conoscenza nell’esercizio o a causa delle proprie funzioni.”.

Come è dato osservare, l’art. 21 demanda ad un regolamento sia la determinazione del contingente di personale, sia “l’ordinamento e il reclutamento del personale garantendone l’unitarietà della gestione, il relativo trattamento economico e previdenziale, nonché il regime di pubblicità del regolamento stesso”, specificando altresì (comma 2), una serie di aspetti da sottoporre alla disciplina regolamentare.

In ordine a ciò, il regolamento è autorizzato a disporre “anche in deroga alle vigenti disposizioni di legge e nel rispetto dei criteri” di cui alla medesima l. n. 124/2007.

Quanto alla natura della fonte, si tratta, a tutta evidenza, di un regolamento non già “di delegificazione” (non essendo previsto il trasferimento al regolamento della disciplina di una materia già affidata alla legge), bensì di un regolamento autorizzato a disporre in deroga a norme primarie, operanti per il generale settore dell’impiego pubblico, norme che continuano ad essere vigenti e, in quanto tali, applicabili.

Proprio per tali ragioni, non risulta espressamente richiamato l’art. 17, co. 2, l. 23 agosto 1988 n. 400, che di tale tipo di fonti (regolamenti di delegificazione) costituisce la norma generale di riferimento.

Anzi, è possibile affermare che, nel caso di specie, ricorre un’ipotesi di regolamento “atipico” e “rinforzato”, dato che vi sono ulteriori aspetti (quali, ad esempio, l’autodefinizione delle forme di pubblicità della fonte), che determinano, per tale regolamento, una “species” affatto singolare nel “genus” delle fonti secondarie

Agli aspetti relativi alla legittima adozione della fonte, in relazione alla insufficiente autorizzazione legislativa, la parte appellante dedica il primo motivo di appello (sub a) dell’esposizione in fatto), e, almeno in parte, anche il motivo riportato sub f).

Viene, infatti, sostenuto che - posto che l’art. 21 l. n. 124/2007 non pone alcun principio o criterio delimitativo o anche soltanto orientativo del potere regolamentare delegato – vi è “il fondato sospetto di incostituzionalità della fonte legislativa”, poiché si autorizza “l’esercizio della potestà regolamentare senza determinazione di principi e criteri, né di tipo delimitativo e neppure soltanto orientativo, necessari a regolarne l’esercizio”. Inoltre, il regolamento in esame “riguarda l’organizzazione amministrativa, materia coperta da riserva di legge ai sensi dell’art. 97 Cost.”; inoltre, “è spirata l’autorizzazione legislativa per l’esercizio del potere regolamentare nei 180 giorni dalla data di entrata in vigore della l. n. 124/07”.

 

 

3. Questo Collegio ha già avuto modo di occuparsi della potestà regolamentare in generale, e dei rapporti tra norma primaria che prevede l’esercizio di potestà regolamentare e regolamento, anche con riferimento alla indicazione di principi, criteri e limiti (ovvero al difetto di tale indicazione), con due decisioni (Cons. Stato, sez. IV, 16 febbraio 2012 n. 812 e 28 febbraio 2012 n. 1120), e dalle considerazioni generali ivi espresse non vi è motivo di discostarsi nella presente sede.

Si è, in particolare, sostenuto che, a fronte delle diverse tipologie di regolamento – distinguibili sia in relazione all’Autorità emanante, sia in relazione alla funzione – il rapporto tra legge e regolamento non possa che ricevere una risposta diversificata.

Innanzi tutto, il conferimento espresso di potestà regolamentare e la contestuale indicazione di criteri e principi per il suo esercizio devono essere ritenuti obbligatori e come tale fondanti un presupposto di legittimità della stessa adozione dell’atto, nel caso di regolamenti di delegificazione, adottati ai sensi dell’art. 17, comma 2, della l. n. 400/1988.

In questo caso, laddove – come afferma la stessa Corte Costituzionale (sent. 22 luglio 2002 n. 376) – il regolamento attua “la sostituzione di una disciplina di livello regolamentare ad una preesistente di livello legislativo”; una sottrazione di una materia alla preesistente disciplina della fonte primaria, con contestuale abrogazione delle norme di legge previgenti, non può essere priva di indicazioni (oggetto/materia, criteri e principi direttivi, limiti) volte a costituire un parametro, pur ampio e generico, per il successivo sindacato giurisdizionale di legittimità dell’atto da parte del giudice amministrativo, pena la violazione degli artt. 24 e 113 Cost..

D’altra parte, lo stesso art. 17, co. 2, prevede che il legislatore, nel conferire al Governo la potestà regolamentare di delegificazione, deve indicare “le norme generali regolatrici della materia”, con ciò escludendo, in via espressa, che la delegificazione comporti un affidamento “integrale” di una materia alla fonte secondaria, persistendo l’esigenza di sia pur minimi e generali riferimenti di rango primario; e con ciò affermando altresì, per implicito., che l’esercizio di detta potestà regolamentare debba essere limitato nella discrezionalità da criteri e principi dettati dal Legislativo all’Esecutivo.

A differenti conclusioni occorre, invece, giungere per le ipotesi di regolamenti di esecuzione, di attuazione e cd. “indipendenti”.

Nel caso dei regolamenti indipendenti (art. 17, co. 1, lett. c), la stessa previsione legislativa per un verso, risolve il problema della necessità della previa indicazione di legge quanto al possibile esercizio della potestà regolamentare; per altro verso, porta logicamente a concludere che il potere regolamentare possa essere esercitato in assenza di indicazione legislativa dei criteri e limiti, proprio perché il caso ipotizzato dal legislatore è quello delle “materie in cui manchi la disciplina da parte di leggi”.

Restano, ovviamente, escluse da questa possibilità ora descritta, le materie “comunque riservate alla legge”, intendendosi quelle sottoposte sia a riserva assoluta, sia a riserva relativa.

Pur non essendo la presente la sede nella quale porsi il problema della (eventuale) illegittimità costituzionale dell’art. 17, co. 1, lett. c), è appena il caso di osservare come – rimarcata l’esclusione dall’ambito di tale disposizione delle materie sottoposte a riserva assoluta o relativa di legge – non è dato rinvenire, in Costituzione, l’esigenza per qualsivoglia materia di una previa ed indefettibile disciplina, in tutto o in parte, recata da legge (così come, argomentando a contrario, si evince proprio dalla stessa indicazione espressa della riserva di legge).

Infine, nella diversa ipotesi di regolamenti di esecuzione o di attuazione (e, ovviamente, nelle materie assoggettate a riserva relativa di legge), dove una previgente disciplina legislativa non può non esservi, occorre osservare che senza dubbio l’ordinata attuazione del sistema delle fonti auspica che tale esercizio venga espressamente previsto da legge (ciò è indispensabile per i regolamenti ministeriali, ex art. 17, co. 3; Corte Cost., 21 maggio 1970 n. 79), sia dall’indicazione di criteri e limiti. E ciò in particolare laddove la materia sia espressamente sottoposta dalla Costituzione a riserva relativa di legge (essendo, ovviamente, del tutto escluso, se non per aspetti minimi e marginali, l’esercizio di potestà regolamentare in materie sottoposte a riserva assoluta di legge).

Tuttavia, laddove tale indicazione risulti assente o insufficiente, ciò non comporta necessariamente l’illegittimità costituzionale della norma primaria “carente”, per violazione della riserva di legge. Ed infatti:

- per un verso, la stessa riconosciuta sussistenza di una potestà regolamentare generale (anche implicitamente) attribuita alla Pubblica Amministrazione, nella misura in cui esclude la necessità della previa autorizzazione legislativa all’adozione dei regolamenti (Cons. St., sez. atti norm., 7 giugno 1999 n. 107), non può che a fortiori escludere anche la necessità di predisposizione di criteri e limiti per il suo esercizio;

- per altro verso, ritenendo necessaria detta previa indicazione, si finirebbe per “irrigidire” oltre misura il sistema delle fonti, dovendosi affermare che, ogni qualvolta tale indicazione non vi sia o sia insufficiente, non sarebbe possibile attuare un (pur necessario) completamento dell’assetto normativo.

D’altra parte, la stessa Corte Costituzionale tende a delimitare fortemente la necessità di previa definizione di criteri e limiti, anche nei casi di materia sottoposta a riserva relativa di legge. Come afferma la sent. 20 maggio 1996 n. 157, in riferimento all’art. 23 Cost.:

“Secondo la giurisprudenza costituzionale, il principio della riserva di legge di cui al menzionato precetto della Costituzione, in tema di prestazioni imposte, va inteso in senso relativo, ponendo l'obbligo per il legislatore di determinare preventivamente e sufficientemente criteri direttivi di base e linee generali di disciplina della discrezionalità amministrativa, tanto che la Corte ha già avuto occasione di affermare che non contrasta con tale principio l'assegnazione ad organi amministrativi non solo di compiti meramente esecutivi, bensì anche di quello di determinare elementi, presupposti o limiti, variamente individuabili, della prestazione stessa, sulla base di dati e valutazioni di ordine tecnico (sentenze n. 129 del 1969 e n. 27 del 1979). Né tale principio può ritenersi violato, anche in assenza di una espressa indicazione legislativa dei criteri, dei limiti e dei controlli che delimitano l'ambito di discrezionalità della pubblica amministrazione, quando gli stessi siano desumibili dalla composizione e dal funzionamento degli organi competenti a determinare la misura della prestazione di cui trattasi (sentenze n. 4 del 1957; n. 51 del 1960; n. 5 del 1963; n. 21 del 1969; e n. 67 del 1973) ovvero quando esista, per l'emanazione dei provvedimenti amministrativi concernenti la prestazione medesima, un modulo procedimentale con il quale venga a realizzarsi la collaborazione di una pluralità di organi al fine di escludere eventuali arbitrii dell'amministrazione (sentenza n. 507 del 1988)”.

Se, quindi, può affermarsi che un regolamento di esecuzione, per il quale la legge abbia omesso di fissare criteri e limiti per l’esercizio della potestà regolamentare che ha portato alla sua adozione, non è da considerare per ciò solo illegittimo, nondimeno occorre che il giudice operi una attenta ricostruzione del parametro normativo di riferimento, e ciò al fine di evitare che sia impedito o reso difficoltoso (se non evanescente) il sindacato giurisdizionale con riferimento al vizio di violazione di legge.

In presenza di un mero regolamento di esecuzione, dunque, il sindacato di legittimità sulle disposizioni del medesimo si risolve in una ipotesi di sindacato giurisdizionale sull’atto amministrativo, per il quale il parametro di legittimità è offerto dalle norme primarie, ed innanzi tutto da quelle su cui si fonda l’esercizio della potestà regolamentare e da quelle cui il regolamento è destinato a dare attuazione (e sui principi da esse desumibili), ma è offerto anche dalle norme costituzionali e del diritto dell’Unione Europea, alle quali può essere riconosciuto un contenuto precettivo.

E ciò a maggior ragione nei casi in cui, in difetto di indicazione di criteri generali, ovvero in presenza di un contenuto normativo delle disposizioni primarie affatto lacunoso, viene meno o è insufficiente il parametro legislativo.

Diversamente considerando:

- per un verso, verrebbe meno il fondamentale principio di cui all’art. 117, comma primo, Cost., che, se pure riferito alla potestà legislativa (la quale “è esercitata nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”), nondimeno è suscettivo di più generale applicazione, con più ampio riferimento alla potestà normativa. E ciò si verificherebbe a maggior ragione laddove la lacunosità della norma primaria, (insieme ad una ritenuta inapplicabilità del citato art. 117, primo comma, ai regolamenti) consentirebbe l’aggiramento del precetto costituzionale;

- per altro verso, ne verrebbe pregiudicato il diritto alla tutela giurisdizionale delle posizioni soggettive, ex artt. 24 e 113 Cost., sia in quanto il sindacato giurisdizionale sui regolamenti sarebbe escluso da parte della Corte Costituzionale e, al contempo, si presenterebbe estremamente labile (per difetto o insufficienza di parametro legislativo), innanzi al giudice amministrativo; sia in quanto – laddove si volesse seguire la tesi della sindacabilità da parte della Corte della legge priva di un minimo contenuto prescrittivo – si costringerebbe la parte ad attendere il giudizio di costituzionalità della norma primaria, sulla quale (malamente) si fonda la potestà concretizzatasi nell’emanazione del regolamento ritenuto lesivo.

In conclusione, l’assenza di indicazione, da parte della norma primaria, di criteri e limiti all’esercizio della potestà regolamentare, anche nei casi di materia sottoposta a riserva relativa di legge, non determina la (possibile) illegittimità costituzionale della norma che, pur prevedendo la successiva adozione di un regolamento, non prevede al tempo stesso detti criteri e limiti, e quindi la necessità di rimessione alla Corte Costituzionale. Viceversa, tale assenza di indicazione si risolve in una diversa articolazione (nei sensi sopra esposti) del sindacato giurisdizionale sulla legittimità del regolamento.

Quanto al termine per l’esercizio della potestà regolamentare, occorre ricordare che esso non può che essere considerato ordinatorio, sia in quanto un termine cogente per l’esercizio di potestà normativa è espressamente previsto, nel nostro ordinamento, solo per l’emanazione dei decreti legislativi delegati (ex art. 76 Cost. e, in attuazione, ex art. 14 l. n. 400/1988), sia in quanto lo stesso riconoscimento dell’esistenza di una potestà regolamentare “generale” in capo all’Esecutivo (o alla Pubblica Amministrazione), anche in assenza di indicazione di legge richiedente l’integrazione normativa della disposizione primaria, esclude ex se la perentorietà del termine per l’esercizio di potestà regolamentare.

 

 

4. Le considerazioni generali sin qui espresse risultano viepiù rafforzate nel caso di specie, dove ricorre l’ipotesi – come si è già affermato – di un regolamento atipico e rinforzato.

Innanzi tutto, il Collegio non ritiene che la norma primaria evocata (art. 21 l. n. 124/2007) difetti nell’indicazione di principi, criteri e limiti, nell’esercizio della potestà regolamentare.

Al contrario, tale articolo appare (come emerge soprattutto dalla elencazione di casi di cui al comma 2) estremamente specifico e dettagliato.

Né, come si è già avuto modo di osservare, ricorre la mera ipotesi del regolamento di delegificazione (per il quale l’indicazione di principi e criteri direttivi è obbligatoria), posto che non vi è alcun trasferimento di disciplina di una materia dalla legge al regolamento, ma solo la parziale autorizzazione concessa a quest’ultimo a disciplinare in deroga alle norme di legge, ma pur sempre nell’ambito delle disposizioni di cui alla legge n. 124/2007.

D’altra parte, occorre ricordare che l’indicazione di principi, criteri e limiti all’esercizio della potestà regolamentare non può risolversi in una puntuale indicazione di ipotesi astratte e/o casi di specie, poiché – se è vero che la norma regolamentare costituisce una integrazione della norma primaria – è altrettanto vero che la “pervasività descrittiva” di quest’ultima renderebbe inutile lo stesso esercizio della potestà regolamentare.

Al contrario, come si è già affermato, in assenza di criteri più puntuali, il parametro di riferimento è offerto dalle norme primarie, ed innanzi tutto da quelle su cui si fonda l’esercizio della potestà regolamentare e da quelle cui il regolamento è destinato a dare attuazione (e sui principi da esse desumibili), ma è offerto anche dalle norme costituzionali e del diritto dell’Unione Europea, alle quali può essere riconosciuto un contenuto precettivo.

In questo contesto,anche la previsione del comma 8, secondo il quale “il regolamento disciplina i casi di cessazione dei rapporti di dipendenza, di ruolo o non di ruolo”, deve essere letta nell’ambito dei principi espressi dalla legge n. 124/2007 e dalle norme costituzionali operanti in materia, ma soprattutto tenendo conto della assoluta specialità del settore entro il quale i soggetti , se pure pubblici dipendenti, esplicano la propria attività..

D’altra parte, se la ricostruzione dogmatica della fonte regolamentare dipende anche dalla “funzione” del medesimo, e quindi, in ultima analisi, dall’oggetto della sua disciplina e dal contesto normativo di riferimento, occorre considerare che il caso di specie (ordinamento del personale degli organismi di informazione per la sicurezza della Repubblica) rappresenta il massimo di specialità nell’ambito del rapporto di pubblico impiego, come è non solo intuitivamente desumibile dalla stessa evidenza del settore di riferimento, ma anche e soprattutto dal regime di eccezionalità e di “deroghe” alla disciplina generale (anche penale), che la legge n. 124/2007 prevede.

Né la presenza di “deroghe”, rispetto alla disciplina generale del pubblico impiego, può essere di per sé ritenuta costituire una violazione dei principi costituzionali di eguaglianza e di imparzialità e buon andamento (artt. 3 e 97 Cost.).

Come questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare (Cons. Stato, sez. IV, 29 settembre 2011 n. 5411), “la non riconducibilità del rapporto di lavoro alle dipendenze della Pubblica amministrazione (latamente intesa) ad un modello unico (di modo che possono aversi valutazioni differenti di un medesimo episodio in ragione di impieghi diversi), è già desumibile dalla stessa Costituzione, laddove, all’art. 98, comma terzo, prevede che, per determinaste categorie di pubblici dipendenti . . . possano essere disposte limitazioni finanche all’esercizio dei diritti politici (nella specie, iscrizioni ai partiti), purchè con legge ed in evidente considerazione della specificità e delicatezza delle loro funzioni”.

Ne consegue che “l’esercizio della discrezionalità da parte dell’amministrazione (ed il conseguente sindacato giurisdizionale del giudice, nei limiti in cui questo è consentito) deve tenere senz’altro conto della particolarità e delicatezza delle funzioni” che il candidato (ove risultante vincitore del concorso), nel caso considerato dalla sentenza citata, o il dipendente dovrà o deve svolgere.

Per le ragioni sin qui esposte il primo motivo di appello (e il motivo sub f) dell’esposizione in fatto, in parte) devono essere ritenuti infondati.

 

 

5. Le considerazioni sin qui svolte sorreggono anche la reiezione degli ulteriori motivi di appello.

Occorre, inoltre, aggiungere che la natura eccezionale delle funzioni svolte dagli appartenenti agli organismi di informazione, il fatto che le stesse afferiscono alla indipendenza e sicurezza della stessa Repubblica, alla tutela dei suoi principi democratici, al conseguente mantenimento delle garanzie costituzionali per i cittadini, non può che costituire, per un verso, fondamento di una lata discrezionalità nelle previsioni di organizzazione dei servizi, anche con riferimento allo status giuridico ed economico dei soggett8i ad essi appartenenti; per altro verso, costituisce parametro interpretativo delle disposizioni concretamente adottate, potendosi le stesse ritenere illegittime nella misura in cui risultino violative di fondamentali diritti dell’uomo e di garanzie costituzionali inalienabili, ovvero appaiono di totale irragionevolezza.

Nel caso di specie, l’amministrazione, con il DPCM n. 2/2010 ha adottato un criterio per il collocamento a riposo del proprio personale che – considerata anche la già richiamata alta discrezionalità di cui tale amministrazione è titolare – non appare affatto irragionevole, e che – come condivisibilmente afferma la sentenza impugnata:

- per un verso è finalizzato “al riordinamento organizzativo delle strutture”;

- per altro verso, i requisiti individuati “hanno carattere oggettivo, sicchè non è ipotizzabile alcuna disparità di trattamento tra i singoli dipendenti degli organismi”.

La circostanza che si sia prescelto di operare non già attraverso una selezione caso per caso, ma stabilendo una “soglia” oltrepassata la quale si determina il collocamento a riposo, non appare irragionevole (oltre ad essere adesivo al principio di imparzialità) e risponde ad una valutazione dell’amministrazione in ordine alla potenzialità del proprio personale, valutazione che evidentemente considera l’esperienza maturata ma anche il dispendio di energie lavorative in un settore estremamente difficile ed usurante, in cui lo stesso ricambio del personale può costituire una regola di sicurezza.

Si tratta, come appare evidente, di un giudizio dell’amministrazione non censurabile in sede di legittimità, se non per eccesso di potere per irragionevolezza, vizio la cui ricorrenza si è innanzi esclusa.

D’altra parte, stante la particolarità del settore ed i fondamentali interessi della Repubblica, il parametro del risparmio di spesa (che pure l’amministrazione tende a validare), risulta assumere un ruolo non incontrovertibile.

Per le ragioni esposte, anche i motivi sub lett. b) – e) ed in parte f) dell’esposizione in fatto, devono essere ritenuti infondati.

Per tutte le ragioni esposte, l’appello deve essere rigettato, con conseguente conferma della sentenza impugnata.

Stante la particolare natura delle questioni trattate, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

definitivamente pronunciando sull’appello n. 8453/2011 r.g., lo rigetta e, per l’effetto, conferma la sentenza appellata.

Compensa tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

 

 

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 maggio 2012 con l'intervento dei magistrati:

 

 

Gaetano Trotta, Presidente

Raffaele Greco, Consigliere

Raffaele Potenza, Consigliere

Andrea Migliozzi, Consigliere

Oberdan Forlenza, Consigliere, Estensore

 

 

 

 

     
     
L'ESTENSORE   IL PRESIDENTE
     
     
     
     
     

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

 

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