Sunday 12 January 2014 09:09:52
Giurisprudenza Uso del Territorio: Urbanistica, Ambiente e Paesaggio
segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI
La vicenda giunta all'attenzione del Consiglio di Stato riguarda due ricorsi aventi ad oggetto controversie insorte in ordine alla legittimità di determinazioni amministrative consistite essenzialmente nell’escludere professionisti italiani appartenenti alla categoria degli ingegneri dal conferimento in Italia di incarichi afferenti la direzione di lavori da eseguirsi su immobili di interesse storico-artistico. In particolare, nel primo ricorso viene in rilievo il diniego implicito adottato dalla Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici di Verona in ordine alla comunicazione di subentro di un ingegnere nell’incarico di direttore dei lavori relativi alla concessione edilizia rilasciata dal Comune di San Martino Buon Albergo (Verona) per la realizzazione di lavori su un immobile di interesse storico-artistico e in quanto tale sottoposto al vincolo di tutela ai sensi del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (‘Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell'articolo 1 della L. 8 ottobre 1997, n. 352’ – in seguito: decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 -). Il provvedimento è stato adottato sull’assunto che l’attività professionale in oggetto debba ritenersi inibita agli ingegneri, essendo riservata agli architetti, ai sensi dell’art. 52, secondo comma, del r.d. n. 2537 del 23 ottobre 1925 (recante il regolamento per le professioni di ingegnere e di architetto).L’ingegnere**, unitamente all’Ordine degli ingegneri di Verona, ha impugnato il provvedimento negativo, deducendo in via principale la sua illegittimità per contrasto con la direttiva del Consiglio CE 10 giugno 1985 n. 384 (cui l’Italia ha dato esecuzione con il decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 129) nella parte in cui la stessa, con il proposito di uniformare in ambito europeo le condizioni minime di formazione di coloro che operano nel settore dell’architettura, avrebbe sostanzialmente parificato i titoli di laurea in ingegneria ed in architettura, ricorrendo alcune condizioni minime in relazione ai percorsi formativi dei distinti corsi di laurea ovvero - a titolo transitorio - in relazione ad alcuni titoli rilasciati fino ad una certa data da istituzioni europee di formazione tassativamente indicate. Da tanto i ricorrenti hanno tratto la conclusione secondo cui ogni discriminazione tra le due categorie professionali sarebbe illegittima alla luce del diritto comunitario e dei principi dallo stesso desumibili. Il Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto, investito della decisione sul ricorso, ha ritenuto prioritario rimettere alla Corte di Giustizia la questione interpretativa in relazione al contenuto degli articoli 10 e 11 della direttiva n. 85/384/CE, richiedendo in particolare se le predette disposizioni comunitarie impongano ad uno Stato membro di non escludere dall’accesso alle prestazioni dell’architetto i propri laureati in ingegneria civile che abbiano seguito un percorso didattico conforme alle prescrizioni di cui agli articoli 3 e 4 della direttiva stessa o che comunque versino nelle condizioni per l’automatico riconoscimento del titolo in base al regime transitorio previsto dalla stessa direttiva. Con ordinanza 5 aprile 2004 (resa nel procedimento C-3/02) la Corte di Giustizia si è pronunciata sulla questione statuendo che la direttiva n. 85/384/CE non incide sul regime giuridico di accesso alla professione di architetto vigente in Italia ma ha ad oggetto soltanto il reciproco riconoscimento, da parte degli Stati membri, dei certificati e degli altri titoli rispondenti a determinati requisiti qualitativi e quantitativi in materia di formazione, allo scopo di agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione dei servizi per le attività del settore dell’architettura. Ha altresì precisato la Corte che ove, in applicazione della richiamata normativa comunitaria, dovesse porsi all’interno dell’ordinamento giuridico italiano un problema di discriminazione in danno della sola categoria degli ingegneri italiani, esclusi da attività riservate agli architetti, cui invece hanno accesso i professionisti migranti di altri Stati membri in virtù delle disposizioni della ricordata direttiva, si potrebbe porre un problema di discriminazione alla rovescia in danno dei soli cittadini: ma anche tale questione sarebbe da risolvere ad opera del giudice nazionale in quanto giuridicamente non rilevante per il diritto dell’Unione europea. A seguito di tale decisione i Giudici di primo grado hanno rimesso alla Corte costituzionale la questione della legittimità costituzionale dell’art. 52, secondo comma, del R.D. n. 2537 del 23 ottobre 1925, ravvisando nella disposizione che riserva ai soli architetti (e non anche agli ingegneri civili) gli interventi professionali sugli immobili di pregio storico-artistico un possibile contrasto con gli articoli 3 e 41 della Costituzione italiana. Tuttavia la Corte costituzionale, con ordinanza 16-19 aprile 2007, n. 130, ha dichiarato la manifesta inammissibilità, stante la natura regolamentare e non legislativa delle disposizioni censurate, della questione di legittimità costituzionale dell'art. 52, secondo comma, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione. Infine, con sentenza 15 novembre 2007 n. 3630, il Tar del Veneto ha accolto il ricorso di primo grado, previa disapplicazione per quanto di interesse dell’art. 52 del regio decreto n. 2537 del 1925, sull’assunto della impossibilità di configurare, alla stregua dei principi di parità di trattamento e di non discriminazione desumibili anche dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, effetti discriminatori tra professionisti migranti da Paesi membri diversi dall’Italia e professionisti nazionali. Tale sentenza ha formato oggetto di ricorso in appello dinanzi a questo Consiglio di Stato da parte del Ministero per i beni e le attività culturali (ricorso n. 6736/2007). Nel ricorso in appello n. 2527 del 2009, a formare oggetto della impugnazione di primo grado è invece un bando di gara redatto dall’IRE – Istituzioni di Ricovero e di Educazione Venezia - per l’affidamento del servizio di direzione lavori e coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione dei lavori di restauro e recupero funzionale di Palazzo Contarini del Bovolo in Venezia, immobile di rilevante interesse culturale e come tale sottoposto a vincolo di tutela. Gli ordini provinciali veneti degli ingegneri, in epigrafe meglio indicati, hanno impugnato in primo grado il bando di gara, unitamente agli atti di aggiudicazione della stessa, nelle parti in cui con quell’atto la stazione appaltante riservava le attività professionali oggetto di affidamento ai soli architetti e non anche agli ingegneri. I motivi di ricorso sono stati proposti anzitutto sul rilievo della estraneità delle attività oggetto di affidamento da quelle riservate agli architetti in base all’art. 52, secondo comma, del R.D. n. 2537 del 1925 e, in ogni caso, sul carattere ingiustificatamente discriminatorio di tale ultima disposizione, alla luce dei principi desumibili dalla direttiva n. 85/384/CE e dalla normativa italiana di trasposizione della stessa (decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 129) . Con sentenza n. 3651 del 25 novembre 2008 il Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto ha respinto il ricorso, pervenendo a conclusioni diametralmente opposte rispetto a quelle rassegnate nella dianzi richiamata sentenza n. 3630 del 15 novembre 2007, anch’essa qui oggetto di impugnazione. Aderendo alla impostazione contenuta nella decisione di questo Consiglio di Stato n. 5239 del 2006 e richiamando il contenuto della ordinanza della Corte di Giustizia del 5 aprile 2004 (resa nell’ambito del ricorso di primo grado RG n. 1994/01), il T.A.R. del Veneto ha evidenziato che la lettura interpretativa del giudice comunitario muove dal presupposto che la direttiva n. 384/85/CE si riferisca al mutuo riconoscimento dei corsi di formazione e non riguardi le condizioni d’accesso alle distinte professioni; di guisa che non implica la piena equiordinazione del titolo di laurea in ingegneria a quello di architettura ai fini dell’accesso alle attività riservate agli architetti dal regio decreto n. 2537 del 1925 (articolo 52). A parere del Giudici di primo grado, dunque tale ultima disposizione normativa nazionale deve ritenersi senz’altro legittima, unitamente agli atti amministrativi adottati in conformità alle sue previsioni. Anche tale sentenza ha formato oggetto di ricorso in appello dinanzi a questo Consiglio di Stato da parte degli ordini provinciali degli ingegneri, già ricorrenti in primo grado. Come in premessa già precisato, in entrambi i ricorsi in appello che vengono all’esame di questo Consiglio di Stato viene riproposta, sia pure con prospettazione asimmetrica nelle distinte controversie, in ragione delle antitetiche posizioni processuali delle parti, la questione della compatibilità comunitaria della disciplina normativa italiana che riserva ai soli architetti le prestazioni principali sugli immobili di interesse culturale (art. 52 del R.D. del 22 ottobre 1925 n. 2537). Nel ricorso in appello RG n.6736/08, in particolare, è il Ministero dei beni e le attività culturali a censurare la sentenza di accoglimento del T.A.R. del Veneto, rilevando che dalla stessa ordinanza della Corte di Giustizia 5 aprile 2004 si ricaverebbe il principio secondo cui la diversificazione normativa nell’accesso ad alcune prestazioni particolari dell’architettura, oltre che essere una esclusiva prerogativa statuale, come tale estranea alla sfera di intervento del diritto comunitario, rappresenterebbe anche una soluzione coerente con la diversità dei percorsi formativi degli ingegneri e degli architetti. In ogni caso, poiché anche agli ingegneri italiani non sarebbe inibito l’accesso all’esame di abilitazione per il conseguimento del titolo professionale di architetto, e considerato che la normativa comunitaria si occupa del mutuo riconoscimento dei titoli di studio ma non delle condizioni di accesso alla professione, a parere del Ministero appellante la normativa italiana oggetto di causa (articolo 52 cit.) non arrecherebbe alcun vulnus al principio della parità di trattamento, essendo giustificata la distinzione tra le due categorie di professionisti ai fini dell’accesso a talune prestazioni sugli immobili di interesse culturale ed essendo in ogni caso tale normativa indistintamente applicabile ai cittadini italiani ed ai professionisti migranti di altri Paesi membri. Nel ricorso in appello RG n. 2527/09 sono gli ordini provinciali degli ingegneri del Veneto a censurare la sentenza di rigetto di primo grado ed a riproporre, sia pure in via subordinata, la stessa questione afferente la illegittimità de iure communitario dell’articolo 52 del R.D. 22 ottobre 1925 n. 2537, sostenendosi in via principale l’affidabilità (anche) agli ingegneri dell’incarico oggetto d’appalto, in ragione della natura delle attività oggetto di gara, in tesi estranee al campo applicativo delle prestazioni riservate agli architetti secondo la richiamata disposizione di diritto interno. Con la richiamata ordinanza 27 gennaio 2012, n. 386 questo Consiglio ha ritenuto che, al fine della definizione della controversia, fosse necessario investire la Corte di giustizia dell’UE di due quesiti pregiudiziali ai sensi dell’articolo 267 del TFUE. Il Collegio rimettente, ha quindi formulato i seguenti quesiti: a) se la direttiva comunitaria n. 85/384/CE, nella parte in cui ammette (artt. 10 e 11), in via transitoria, all’esercizio delle attività nel settore dell’architettura i soggetti migranti muniti dei titoli specificamente indicati, non osta a che in Italia sia ritenuta legittima una prassi amministrativa, avente come base giuridica l’art.52, comma secondo, parte prima del r.d. n. 2537 del 1925, che riservi specificamente taluni interventi sugli immobili di interesse artistico soltanto ai candidati muniti del titolo di “architetto” ovvero ai candidati che dimostrino di possedere particolari requisiti curriculari, specifici nel settore dei beni culturali e aggiuntivi rispetto a quelli genericamente abilitanti l’accesso alle attività rientranti nell’architettura ai sensi della citata direttiva; b) se in particolare tale prassi può consistere nel sottoporre anche i professionisti provenienti da Paesi membri diversi dall’Italia, ancorché muniti di titolo astrattamente idoneo all’esercizio delle attività rientranti nel settore dell’architettura, alla specifica verifica di idoneità professionale (ciò che avviene anche per i professionisti italiani in sede di esame di abilitazione alla professione di architetto) ai limitati fini dell’accesso alle attività professionali contemplate nell’art. 52, comma secondo, prima parte del Regio decreto n 2357 del 1925. La Corte di giustizia ha definito il ricorso per rinvio pregiudiziale con la sentenza della Quinta Sezione 21 febbraio 2013 (in causa C-111/12). Con tale decisione, in particolare, la Corte ha statuito che gli articoli 10 e 11 della direttiva 85/384/CEE del Consiglio, del 10 giugno 1985, concernente il reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli del settore dell’architettura e comportante misure destinate ad agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione di servizi, devono essere interpretati nel senso che essi ostano ad una normativa nazionale secondo cui persone in possesso di un titolo rilasciato da uno Stato membro diverso dallo Stato membro ospitante - titolo abilitante all’esercizio di attività nel settore dell’architettura ed espressamente menzionato al citato articolo 11 - possono svolgere, in quest’ultimo Stato, attività riguardanti immobili di interesse artistico solamente qualora dimostrino, eventualmente nell’ambito di una specifica verifica della loro idoneità professionale, di possedere particolari qualifiche nel settore dei beni culturali. Il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso proposto dal Ministero per i beni e le attività culturali, mentre ha respinto il ricorso proposto dagli Ordini degli Ingegneri delle Province del Veneto. 4. Giova premettere che la questione della complessiva compatibilità de iure communitario della parziale riserva di cui all’articolo 52 del R.D. 2537 del 1925 è stata scrutinata da questo Giudice di appello attraverso un filone giurisprudenziale ormai consolidato (e le cui conclusioni sono qui condivise) il quale è giunto a soluzioni sostanzialmente condivise circa l’insussistenza di profili di incompatibilità con i pertinenti dettami del diritto dell’Unione europea (ex multis: Sez. VI, 16 maggio 2006, n. 2776; id., VI, 11 settembre 2006, n. 5239; id., VI, 24 ottobre 2006, n. 6343). Con la presente decisione, quindi, ci si domanderà in particolare se le conclusioni cui il richiamato orientamento è sino ad oggi pervenuto possano essere in qualche misura revocate in dubbio in considerazione del paventato rischio che le disposizioni di cui al richiamato articolo 52 possano determinare, in danno degli Ingegneri italiani, un fenomeno di ‘reverse discrimination’ – o discriminazione alla rovescia – (un fenomeno, quest’ultimo, noto alla normativa e alla giurisprudenza nazionale e in relazione al quale il Legislatore ha da ultimo approntato un rimedio generale di tutela preventiva attraverso l’adozione dell’articolo 53 della l. 24 dicembre 2012, n. 234 – sul punto, v. infra -). Tanto premesso sotto l’aspetto generale, si svolgeranno qui di seguito alcune considerazioni utili a delimitare il campo d’indagine della presente decisione. 4.1. Per quanto riguarda, in primo luogo, la delimitazione dell’ambito oggettivo della richiamata, parziale riserva, la giurisprudenza di questo Consiglio ha condivisibilmente osservato che, ai sensi dell’articolo 52, cit., non la totalità degli interventi concernenti gli immobili di interesse storico e artistico deve essere affidata alla specifica professionalità dell’architetto, ma solo “le parti di intervento di edilizia civile che riguardino scelte culturali connesse alla maggiore preparazione accademica conseguita dagli architetti nell’ambito del restauro e risanamento degli immobili di interesse storico e artistico”, restando invece nella competenza dell’ingegnere civile la cd. parte tecnica, ossia “le attività progettuali e di direzione dei lavori che riguardano l’edilizia civile vera e propria (…)” (in tal senso: Cons. Stato, VI, 11 settembre 2006, n. 5239). Il che, come è evidente, sortisce di per sé l’effetto di ridurre grandemente la portata di un eventuale effetto di ‘reverse discrimination’ (effetto che, comunque – e per le ragioni che nel prosieguo si esporranno – non è comunque nel caso di specie configurabile). Ed infatti, nonostante alcune enfatizzazioni sul punto contenute nelle difese delle parti in causa, la presente controversia non involge la generale questione della delimitazione oggettiva delle professioni di architetto e di ingegnere (si tratta di una questione che, allo stato attuale di evoluzione dell’ordinamento comunitario, non conosce misure di armonizzazione al livello UE, né interventi di ravvicinamento delle legislazioni), né le condizioni di accesso a tali professioni. Allo stesso modo, la presente controversia non riguarda la più o meno integrale assimilazione fra i due ambiti professionali al livello comunitario o nazionale, ma concerne (anche all’esito delle indicazioni interpretative fornite dalla Corte di giustizia) la ben più limitata questione relativa al se la previsione di cui al più volte richiamato articolo 52 determini una ‘discriminazione alla rovescia’ in danno dell’ingegnere italiano nei confronti dell’ingegnere di un qualunque altro Paese dell’Unione europea e in relazione ad alcune soltanto delle attività che l’architetto può esercitare in relazione alle opere ed interventi che presentano rilevante carattere artistico o che riguardano beni di interesse storico e culturale (ci si riferisce alle sole opere di edilizia civile, con esclusione dell’ampio novero degli interventi inerenti la c.d. ‘parte tecnica’). 4.2. Sempre con riferimento all’ambito di applicazione della parziale riserva di cui al più volte richiamato articolo 52, la giurisprudenza nazionale (ancora una volta, sulla scorta dei chiarimenti interpretativi forniti dalla Corte di giustizia dell’UE) ha ulteriormente chiarito che le disposizioni della direttiva 85/384/CEE (concernente il reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli del settore dell'architettura e comportante misure destinate ad agevolare l'esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione di servizi e da ultimo trasfusa nel corpus della direttiva 2005/37/CE) non hanno in alcun modo comportato la piena equiparazione dei titoli di architetto e di ingegnere civile ai fini dell’esercizio delle attività professionali nel campo dell’architettura. Al riguardo, la stessa Corte di Giustizia ha chiarito che la direttiva 85/384/CEE non si propone di disciplinare le condizioni di accesso alla professione di architetto, né di definire la natura delle attività svolte da chi esercita tale professione. In particolare, dal nono “considerando” di tale direttiva risulta che il suo articolo 1, n. 2, non intende fornire una definizione giuridica delle attività del settore dell’architettura. Spetta, piuttosto, alla normativa nazionale dello Stato membro ospitante individuare le attività che ricadono in tale settore. Al contrario, la direttiva 85/384/CEE ha ad oggetto solamente il reciproco riconoscimento, da parte degli Stati membri, dei diplomi, dei certificati e degli altri titoli rispondenti a determinati requisiti qualitativi e quantitativi minimi in materia di formazione, allo scopo di agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione di servizi per le attività del settore dell’architettura, come emerge dal secondo “considerando” della medesima direttiva. Tale direttiva prevede, inoltre, un regime transitorio diretto, in particolare, a preservare i diritti acquisiti dai possessori di titoli già rilasciati dagli Stati membri anche qualora tali titoli non soddisfino i detti requisiti minimi. Inoltre (come chiarito dalla medesima Corte di giustizia), sebbene l’art. 11, lett. g), della direttiva 85/384 menzioni, per l’Italia, i diplomi di “laurea in architettura” e di “laurea in ingegneria” come titoli che beneficiano del regime transitorio previsto dall’art. 10 di tale direttiva, ciò è solo al fine di assicurare il riconoscimento di tali diplomi da parte degli altri Stati membri, e non allo scopo di armonizzare, nello Stato membro interessato, i diritti conferiti da tali diplomi per quanto riguarda l’accesso alle attività di architetto (in tal senso, l’ordinanza della Corte 5 aprile 2004 in causa C-3/02, resa nell’ambito di un rinvio pregiudiziale sollevato dal T.A.R. del Veneto nell’ambito del ricorso di primo grado n. 1994/2001 – Mosconi Alessandro e altri -).In definitiva, secondo la Corte di giustizia, la più volte richiamata direttiva non impone allo Stato membro di porre i diplomi di laurea in architettura e in ingegneria civile indicati all’articolo 11 su un piano di perfetta parità per quanto riguarda l’accesso alla professione di architetto in Italia; né tantomeno essa può essere di ostacolo ad una normativa nazionale che riservi ai soli architetti i lavori riguardanti gli immobili d’interesse storico-artistico sottoposti a vincolo (in tal senso: Cons. Stato, sent. 5239/06, cit.). 5. La Corte di giustizia (la quale – come si è detto in precedenza – è stata adita per ben due volte nel corso della presente vicenda contenziosa ai sensi dell’articolo 234 del TCE – in seguito: articolo 267 del TFUE -) ha reso statuizioni che risultano determinanti al fine di delimitare e definire la controversia nel suo complesso. 5.1. Con la prima di tali decisioni (si tratta dell’ordinanza in data 5 aprile 2004 sul ricorso C-3/02, resa sull’ordinanza di rimessione del T.A.R. del Veneto n. 4236/2001) la Corte ha chiarito: - che l’articolo 52, secondo comma, del R.D. 2537 del 1925 non è ex se incompatibile con la direttiva comunitaria 85/384/CEE, in quanto (come si è già anticipato) quest’ultima non si propone di disciplinare le condizioni di accesso alla professione di architetto né di definire la natura delle attività svolte da chi esercita tale professione, ma soltanto di garantire “il reciproco riconoscimento, da parte degli Stati membri, dei diplomi, dei certificati e degli altri titoli rispondenti a determinati requisiti qualitativi e quantitativi minimi in materia di formazione allo scopo di agevolare l'esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione dei servizi per le attività del settore dell'architettura”; - che la richiamata direttiva non obbliga in alcun modo gli Stati membri a porre i diplomi di laurea in architettura ed in ingegneria civile (con particolare riguardo a quelli indicati all'articolo 11) su un piano di perfetta parità ai fini dell'accesso alla professione di architetto in Italia, ma, in coerenza con il principio di non discriminazione tra Stati membri, impone soltanto di non escludere da tale accesso in Italia coloro che siano in possesso di un diploma di ingegneria civile o di un titolo analogo rilasciato da un altro Stato membro, laddove tuttavia (e si tratta di un chiarimento determinante ai fini della presente decisione) tale titolo risulti abilitante – in base alla normativa di quello Stato membro – all’esercizio di attività nel settore dell’architettura (e nel prosieguo della presente decisione si vedrà che tale possibilità non può essere ammessa in modo indiscriminato ai professionisti ingegneri, ma solo al ricorrere di alcune tassative condizioni); - che la direttiva 85/384/CEE non trova in definitiva applicazione in relazione alla fattispecie di causa, poiché le relative disposizioni non impongono in alcun modo all’Italia di non escludere gli ingegneri civili che hanno conseguito in Italia il proprio titolo dall’attività di cui all’articolo 52, comma 2, del R.D. 2537 del 1925 (ma le impongono soltanto di non escludere – nella logica del mutuo riconoscimento e della libera circolazione che caratterizza la direttiva in parola - gli ingegneri civili o possessori di analoghi titoli conseguiti in altri Stati membri al ricorrere delle condizioni dinanzi richiamate). Sotto tale aspetto, la Corte ha svolto una considerazione che ha in seguito assunto un rilievo dirimente nella complessiva economia del giudizio, laddove ha affermato che “è vero che, come sostiene la Commissione, ne può derivare una discriminazione alla rovescia, poiché gli ingegneri civili che hanno conseguito i loro titoli in Italia non hanno accesso, in tale Stato membro, all'attività di cui all'art. 52, secondo comma, del R.D. 2537 del 1925, mentre tale accesso non può essere negato alle persone in possesso di un diploma di ingegnere civile o di un titolo analogo rilasciato in un altro Stato membro, qualora tale titolo sia menzionato nell'elenco redatto ai sensi dell'art. 7 della direttiva 85/384/CEE o in quello di cui all’art.11 della detta direttiva. 53. Tuttavia, dalla giurisprudenza della Corte emerge che, quando si tratta di una situazione puramente interna come quella di cui alla causa principale, il principio della parità di trattamento sancito dal diritto comunitario non può essere fatto valere. In una situazione del genere spetta al giudice nazionale stabilire se vi sia una discriminazione vietata dal diritto nazionale e, se del caso, decidere come essa debba essere eliminata (…)”. Di conseguenza, la Corte ha concluso nel senso che “quando si tratti di una situazione puramente interna ad uno Stato membro, né la direttiva 85/384 -in particolare i suoi artt. 10 e 11, lett. g) -né il principio della parità di trattamento ostano ad una normativa nazionale che riconosce, in linea di principio, l'equivalenza dei titoli di architetto e di ingegnere civile, ma riserva ai soli architetti i lavori riguardanti in particolare gli immobili vincolati appartenenti al patrimonio artistico”. 5.2. Con la seconda delle richiamate decisioni (si tratta della sentenza della quinta sezione del 21 febbraio 2013 sul ricorso C-111/12, resa sull’ordinanza di rimessione del Consiglio di Stato n. 386/2012) la Corte ha dovuto pronunziarsi su un’ulteriore ipotesi ricostruttiva prospettata da questo Consiglio di Stato in sede di ordinanza di rimessione. In particolare, questo Giudice di appello (mosso dall’evidente intento di rinvenire una sintesi fra – da un lato - l’obbligo di matrice comunitaria di operare il mutuo riconoscimento delle professionalità straniere coperte dalle previsioni della direttiva 85/384/CEE e – dall’altro - l’esigenza di prevenire i richiamati, possibili fenomeni di ‘reverse discrimination’) aveva ipotizzato un sistema applicativo volto a temperare entrambe le richiamate esigenze. Segnatamente, con l’ordinanza di rimessione n. 386/2012 questo Consiglio aveva ipotizzato l’introduzione (invero, ex novo) di una prassi applicativa consistente nel sottoporre anche i professionisti provenienti da altri Paesi membri dell’UE (e ancorché muniti di titolo astrattamente idoneo all’esercizio delle attività rientranti nel settore dell’architettura), a una specifica ed ulteriore verifica di idoneità professionale (in tutto simile a quelle svolta nei confronti dei professionisti italiani in sede di esame di abilitazione alla professione di architetto) ai limitati fini dell’accesso alle attività professionali contemplate nell’art. 52, comma secondo, prima parte del Regio decreto n 2357 del 1925. Come si è anticipato in narrativa, la Corte di giustizia non ha condiviso l’ipotesi formulata da questo Consiglio di Stato e ha concluso nel senso che gli articoli 10 e 11 della direttiva 85/384/CEE devono essere interpretati nel senso che essi ostano ad una normativa nazionale (rectius: a una prassi applicativa, quale quella ipotizzata in sede di ordinanza di rimessione) secondo cui persone in possesso di un titolo rilasciato da uno Stato membro diverso dallo Stato membro ospitante (titolo, questo, abilitante all’esercizio di attività nel settore dell’architettura ed espressamente menzionato al citato articolo 11), possono svolgere, in quest’ultimo Stato, attività riguardanti immobili di interesse artistico solamente qualora dimostrino, eventualmente nell’ambito di una specifica verifica della loro idoneità professionale, di possedere particolari qualifiche nel settore dei beni culturali. In definitiva la Corte ha ritenuto di non potersi pronunziare in modo espresso sul se la normativa italiana rilevante comporti o meno un fenomeno di ‘discriminazione alla rovescia’ in danno dei professionisti italiani (giacché ciò esula dalle sue competenze istituzionali, le quali non includono le ‘situazioni puramente interne’, al cui ambito sono pacificamente da ricondurre le controversie in esame – punto 34 della motivazione -). Tuttavia, la Corte ha ritenuto di dover comunque definire e chiarire ulteriormente i contorni applicativi della normativa comunitaria dinanzi richiamata (e segnatamente, degli obblighi di mutuo riconoscimento di cui agli articoli 7, 10 e 11 della direttiva 85/384/CEE) al fine di consentire a questo Giudice del rinvio di disporre di una quadro conoscitivo più completo per definire il giudizio – ad esso solo demandato in via esclusiva – relativo alla sussistenza o meno del richiamato fenomeno di discriminazione alla rovescia. 6. Ebbene, impostati in tal modo i termini concettuali della questione, il Collegio ritiene che l’esame degli atti di causa e della pertinente normativa comunitaria e nazionale non palesino i paventati profili di discriminazione alla rovescia in danno dell’ingegnere civile italiano, al quale (nella tesi degli ordini degli Ingegneri appellanti nel ricorso n. **2009, condivisa dal T.A.R. del Veneto con la sentenza n. 3630/2007) sarebbe indiscriminatamente e irrazionalmente vietato l’esercizio di alcune attività professionali (quelle inerenti gli interventi sui beni di interesse storico e artistico) le quali – al contrario – sarebbero altrettanto indiscriminatamente consentite agli Ingegneri di altri Paesi dell’Unione europea. 6.1. Al riguardo si osserva in primo luogo che la richiamata sentenza n. 3630/2007 sembra essere incorsa in una semplificazione eccessiva dei termini della questione laddove (indotta forse dalle abili prospettazioni di parte) ha descritto un quadro normativo e applicativo non coincidente con quello effettivamente riscontrabile. Secondo il T.A.R., in particolare, sussisterebbe una ‘evidente’ disparità di trattamento ai danni degli ingegneri civili italiani (pag. 9 della motivazione) in quanto, di fatto, a tutti gli ingegneri civili italiani sarebbero indiscriminatamente vietate tutte le attività riconducibili all’articolo 52, cit., mentre – al contrario – a tutti gli ingegneri civili di altri Paesi dell’Unione l’esercizio di quelle stesse attività sarebbe indiscriminatamente consentito. 6.1.1. Secondo i primi Giudici, in particolare, “nel momento in cui la normativa europea afferma che l’ingegnere civile laureatosi in Italia può svolgere l’attività propria dell’architetto in tutta l’Europa, ma (in virtù di una norma interna) non in Italia, si offre al giudice italiano un parametro normativo per un giudizio di disapplicazione della norma interna contrastante con quella europea”. Al riguardo i primi Giudici proseguono affermando che “è evidente l’arbitraria discriminazione a danno degli ingegneri civili italiani operata dalla norma in esame, i quali, equiparati agli ingegneri civili ed agli architetti europei dalla normativa comunitaria, possono esercitare, diversamente da questi ultimi, l’attività professionale riservata ai titolari di diploma di architetto in tutta l’Europa, ma non in Italia: discriminazione che, trovando causa nel contrasto tra la normativa nazionale e il diritto comunitario, va risolta con la disapplicazione della disciplina interna e la conseguente invalidità degli atti applicativi”. 6.1.2. Al riguardo si osserva: - che, come più volte chiarito, nello stato attuale di evoluzione del diritto comunitario, la disciplina sostanziale dell’attività degli architetti e degli ingegneri non costituisce oggetto di armonizzazione, né di ravvicinamento delle legislazioni, così come risulta allo stato non armonizzata la disciplina delle condizioni di accesso a tali professioni, ragione per cui non risulta esatto affermare (contrariamente a quanto si legge a pag. 10 della sentenza n. 3630, cit.) che la direttiva 384, cit. avrebbe sancito la piena “equiordinazione sul piano comunitario dei titoli di ingegnere civile e di architetto”; - che lo stesso passaggio dell’ordinanza della Corte di giustizia del 5 aprile 2004 il quale ha ipotizzato la sussistenza nell’ordinamento italiano di un’ipotesi di ‘reverse discrimination’ in danno dell’ingegnere civile italiano e in favore di ogni altro ingegnere di altri Paesi UE, non ha in alcun modo affermato la sicura sussistenza di una siffatta discriminazione, ma ne ha soltanto ipotizzato la possibilità, al ricorrere di taluni presupposti soggettivi e oggettivi, la cui ricorrenza dovrà essere scrutinata dal Giudice nazionale del rinvio. In particolare, con la decisione dell’aprile 2004, la Corte ha affermato che tale ipotesi potrebbe verificarsi nella sola ipotesi in cui il possesso di un diploma di ingegnere civile o di un titolo analogo rilasciato da altro Paese dell’UE fosse espressamente menzionato negli elenchi redatti – per così dire: - ‘a regìme’ ai sensi dell’articolo 7 della direttiva 85/384/CEE, ovvero nello speciale elenco transitorio di cui agli articoli 10 e 11 della medesima direttiva e laddove analoga possibilità fosse esclusa nei confronti di un professionista italiano in possesso dei medesimi requisiti. Tuttavia, è del tutto determinante osservare che (contrariamente a quanto affermato nell’impugnata sentenza n. 3630/2007 e a quanto sembrano sostenere gli Ordini degli ingegneri appellanti nel ricorso n. 2527/2009) non tutti i diplomi, certificati e altri titoli di ingegnere civile rilasciati da altri Paesi dell’UE consentono l’indifferenziato svolgimento di tutte le attività proprie della professione di architetto. Al contrario, l’esame della pertinente normativa comunitaria (e, segnatamente, dell’articolo 7 della direttiva 85/384/CEE) rende chiaro che l’inclusione negli elenchi nazionali predisposti – per così dire – ‘a regìme’ ai sensi del medesimo articolo 7 è consentita solo ai professionisti i quali abbiano svolto un adeguato percorso di formazione tipico della professione di architetto. Ed infatti, la stessa direttiva 85/384/CEE, all’articolo 3, individua il contenuto minimo obbligatorio che i percorsi formativi nazionali devono possedere affinché i professionisti che abbiano seguito tali percorsi possano plenoiure essere inclusi negli elenchi nazionali che consentono ai relativi iscritti di vantare il diritto al mutuo riconoscimento e alla libera circolazione (diritto in quale rappresenta, a ben vedere, l’ubi consistam del complesso sistema delineato dalla medesima direttiva 85/384/CEE). Ma, se solo ci si sofferma ad esaminare il contenuto minimo obbligatorio che la direttiva in questione impone affinché un determinato percorso di formazione sia incluso fra quelli che consentono di invocare il richiamato mutuo riconoscimento, ci si rende conto che tali requisiti sono pienamente compatibili con il consolidato orientamento di questo Consiglio il quale ha ritenuto del tutto congrua e non irragionevole la parziale riserva di cui all’articolo 52 del R.D. 2537 del 1925. Come è noto, infatti, la giurisprudenza di questo Consiglio ha giustificato dal punto di vista sistematico la richiamata, parziale riserva sul rilievo secondo cui “per quanto nel corso di studi degli ingegneri civili non manchino approfondimenti significativi nel settore dell’architettura, al professionista architetto si riconosce generalmente una maggiore capacità, frutto di maggiori studi e approfondimenti della evoluzione dell’architettura sul piano storico e di un più marcato approccio umanistico alla professione, di penetrare le problematiche e le sottese valutazioni tecniche afferenti gli immobili o le opere di rilevanza artistica” (in tal senso, da ultimo, la stessa ordinanza di rimessione di questa Sezione n. 386/2012, dinanzi richiamata). Ebbene, l’approccio in questione risulta del tutto compatibile con l’ordito normativo di cui alla direttiva 85/384/CEE la quale (al di là della coincidenza nominalistica dei titoli professionali di riferimento – ‘architetto’ piuttosto che ‘ingegnere’ -) ammette l’esercizio in regìme di mutuo riconoscimento e di libera circolazione delle attività tipiche della professione di architetto a condizione che il professionista in questione possa vantare un cursus di studi e di formazione il cui contenuto minimo essenziale comprende studi (anche) di carattere storico e artistico quali quelli richiesti in via necessaria per operare con adeguata cognizione di causa nel settore dei beni storici e di interesse culturale. Non a caso, lo stesso articolo 3 della direttiva richiama in modo espresso, fra i requisiti minimi necessari del percorso formativo che legittima un professionista ad invocare il regìme di mutuo riconoscimento nell’esercizio delle attività tipiche dell’architetto, “una adeguata conoscenza della storia e delle teorie dell’architettura nonché delle arti, tecnologie e scienze umane ad essa attinenti”, nonché “una conoscenza delle belle arti in quanto fattori che possono influire sulla qualità della concezione architettonica”. Si tratta, come è evidente (e riguardando la questione secondo l’approccio sostanzialistico proprio dell’ordinamento comunitario, al di là delle distinzioni puramente nominalistiche) di un orientamento normativo in tutto coincidente con quello fatto proprio dalla giurisprudenza di questo Consiglio appena richiamato. 6.2. Concludendo sul punto: - non è esatto affermare che l’ordinamento comunitario riconosca a tutti gli ingegneri di Paesi UE diversi dall’Italia (con esclusione dei soli ingegneri italiani) l’indiscriminato esercizio delle attività tipiche della professione di architetto (fra cui – ai fini che qui rilevano – le attività afferenti le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico, ovvero relative ad immobili di interesse storico e artistico); - al contrario, in base alla pertinente normativa UE, l’esercizio di tali attività – in regìme di mutuo riconoscimento - sarà consentito ai soli professionisti i quali (al di là del nomen iuris del titolo professionale posseduto) possano vantare un percorso formativo adeguatamente finalizzato all’esercizio delle attività tipiche della professione di architetto. Come si è visto, l’articolo 3 della direttiva 85/384/CEE include in modo espresso gli studi della storia e delle teorie dell’architettura, nonché delle belle arti e delle scienze umane fra quelli che integrano il bagaglio culturale minimo e necessario perché un professionista possa svolgere in regìme di mutuo riconoscimento le richiamate attività (anche) in relazione ai beni di interesse storico e culturale; - quindi, anche ad ammettere che un professionista non italiano con il titolo professionale di ingegnere sia legittimato sulla base della normativa del Paese di origine o di provenienza a svolgere attività rientranti fra quelle esercitate abitualmente col titolo professionale di architetto, ciò non è sufficiente a determinare ex se una discriminazione ‘alla rovescia’ in danno dell’ingegnere civile italiano. Ed infatti, sulla base della direttiva 85/384/CEE, l’esercizio di tali attività sarà possibile (non sulla base del mero possesso del titolo di ingegnere nel Paese di origine o di provenienza, bensì) in quanto tale professionista non italiano avrà seguito un percorso formativo adeguato ai fini dell’esercizio delle attività abitualmente esercitate con il titolo professionale di architetto; - allo stesso modo, la sussistenza dei richiamati profili di ‘discriminazione alla rovescia’ è da escludere alla luce dell’articolo 11, lettera g) della direttiva 85/384/CEE, cit. Ed infatti, in base a tale disposizione, i soggetti che abbiano conseguito in Italia il diploma di laurea in ingegneria nel settore della costruzione civile rilasciati da Università o da istituti politecnici possono nondimeno esercitare le attività tipiche degli architetti (ivi comprese quelle di cui al più volte richiamato articolo 52) a condizione che abbiano altresì conseguito il diploma di abilitazione all'esercizio indipendente di una professione nel settore dell'architettura, rilasciato dal ministro della Pubblica Istruzione a seguito del superamento dell'esame di Stato che lo abilita all'esercizio indipendente della professione (in tal modo conseguendo il titolo di ‘dott. Ing. architetto’ o di ‘dott. Ing. in ingegneria civile’);- conclusivamente, non è possibile affermare che il sistema normativo nazionale di parziale riserva in favore degli architetti delle attività previste dall’articolo 52 del R.D. 2537 del 1925 sia idoneo a sortire in danno degli ingegneri italiani l’effetto di ‘discriminazione alla rovescia’ richiamato dalla sentenza del T.A.R. del Veneto n. 3630/2007 e la cui sussistenza in concreto la stessa Corte di giustizia ha demandato alla verifica in sede giudiziale da parte di questo Giudice del rinvio, trattandosi pur sempre – secondo quanto statuito dalla medesima Corte – di controversia nell’ambito della quale vengono pacificamente in rilievo ‘situazioni puramente interne’ (in tal senso: CGCE, sentenza in causa C-111/12, cit. punto 34). 6.3. E il richiamato (e meramente paventato) effetto di ‘reverse discrimination’ quale effetto della previsione di cui all’articolo 52, cit. deve essere escluso sia per quanto riguarda il particolare sistema transitorio e derogatorio di cui agli articoli 10 e 11 della direttiva 85/384/CEE, sia per quanto riguarda il sistema ‘a regime’ di cui all’articolo 7 della medesima direttiva. 6.3.1. Per quanto concerne, infatti, il particolare sistema (transitorio e derogatorio) di cui agli articoli 10 e 11 della direttiva 85/384/CEE, è noto che il primo di tali articoli ha previsto la possibilità per ciascuno degli Stati membri di individuare taluni diplomi, certificati e altri titoli del settore dell’architettura da ammettere sin da subito al regìme di mutuo riconoscimento, anche a prescindere dalla piena rispondenza ai requisiti minimi di formazione di cui all’articolo 3 della medesima direttiva. Il successivo articolo 11 ha, quindi, individuato per ciascuno degli Stati membri tali diplomi, certificati ed altri titoli da ammettere immediatamente al richiamato regìme di mutuo riconoscimento (per l’Italia, tale regìme di immediata ammissione ha riguardato: a) i diplomi di ‘laurea in architettura’ rilasciati dalle università, dagli istituti politecnici e dagli istituti superiori di architettura di Venezia e di Reggio Calabria, accompagnati dal diploma di abilitazione all'esercizio indipendente della professione di architetto, rilasciato dal ministro della Pubblica Istruzione una volta che il candidato abbia sostenuto con successo, davanti ad un'apposita Commissione, l'esame di Stato che abilita all'esercizio indipendente della professione di architetto (dott. architetto); b) i diplomi di ‘laurea in ingegneria’ nel settore della costruzione civile rilasciati dalle università e dagli istituti politecnici, accompagnati dal diploma di abilitazione all'esercizio indipendente di una professione nel settore dell'architettura, rilasciato dal ministro della Pubblica Istruzione una volta che il candidato abbia sostenuto con successo, davanti ad un'apposita Commissione, l'esame di Stato che lo abilita all'esercizio indipendente della professione (dott. ing. architetto o dott. ing. in ingegneria civile)). Ebbene, in relazione a tale periodo transitorio, non è dato individuare i paventati profili di ‘discriminazione alla rovescia’ in danno degli ingegneri civili italiani, laddove si consideri: - che, esaminando gli elenchi delle professioni ammesse dagli altri Stati membri al regìme di immediata applicazione al mutuo riconoscimento, non è dato rinvenire pressoché alcun caso di professioni che, anche dal punto di vista del nomen iuris, si discostino dal tipico ambito della professione di architetto, fino a coincidere con il tipico ambito della professione di ingegnere. Le uniche eccezioni a questa regola sostanzialmente generalizzata sono rappresentate: a) dal caso belga dei diplomi di ‘ingegnere civile-architetto’ e di ‘ingegnere-architetto’ rilasciati dalle facoltà di scienze applicate delle università e dal politecnico di Mons; b) dal caso portoghese del diploma di genio civile (licenciatura em engenharia civil) rilasciato dall'Istituto superiore tecnico dell'Università tecnica di Lisbona; c) dai casi greci dei diplomi di ‘ingegnere-architetto’ rilasciati da alcuni Istituti di formazione e dei diplomi di ‘ingegnere-ingegnere civile’ rilasciati dal Metsovion Polytechnion di Atene (in ambo i casi, peraltro, a condizione che il possesso dei richiamati diplomi si accompagni a un attestato rilasciato dalla Camera tecnica di Grecia e conferente il diritto di esercitare le attività nel settore dell’architettura). Si tratta, però, di eccezioni talmente puntuali e limitate da non poter essere assunte (nella richiamata ottica di carattere sostanzialistico) quali indizi dell’esistenza di un effettivo fenomeno di ‘reverse discrimination’ in danno degli ingegneri civili italiani e in favore di una platea indiscriminata o quanto meno significativa di ingegneri di altri Paesi dell’Unione europea; - che, paradossalmente, esaminando gli elenchi nazionali di cui al richiamato articolo 11, è proprio il caso italiano dei professionisti in possesso del diploma di ‘laurea in ingegneria’ nel settore della costruzione civile (e nondimeno abilitati per il diritto italiano al’esercizio di una professione indipendente di una professione nel settore dell’architettura) a presentare (al pari dei richiamati casi belgi, portoghesi e greci) possibili profili di vantaggio in favore dei professionisti nazionali, con potenziali effetti distorsivi in danno degli ingegneri di altri Paesi dell’UE la cui normativa nazionale di riferimento non consenta agli ingegneri di conseguire una analoga abilitazione; - che, in ogni caso, anche a voler ammettere (il che – per le ragioni appena esaminate – non è) che la disciplina transitoria e derogatoria di cui ai richiamati articoli 10 e 11 consenta in talune ipotesi a un limitato numero di ingegneri di alcuni Paesi dell’UE di svolgere in regìme di mutuo riconoscimento (e quindi anche in Italia) talune attività nel settore dell’architettura sui beni di interesse storico e culturale (attività tipicamente sottratte agli ingegneri italiani); ebbene, anche in questo caso, non si individuerebbero ragioni sufficienti per ritenere la sussistenza di un’ipotesi di ‘reverse discrimination’ in danno degli ingegneri italiani, sì da indurre alla generalizzata disapplicazione della previsione di cui all’articolo 52 del R.D. 2537 del 1925. Al riguardo si osserva che non appare metodologicamente corretto assumere quale parametro stabile di valutazione, nell’ambito di un giudizio volto a stabilire se una discriminazione vi sia oppure no, talune situazioni per definizione transitorie ed eccezionali (quali quelle contemplate dagli articoli 10 e 11 della più volte richiamata direttiva del 1985). E’ evidente al riguardo che, laddove si accedesse alla soluzione qui non condivisa, si perverrebbe alla inammissibile conseguenza per cui le situazioni e i dettami propri di una fase transitoria (assunti quali impropri parametri stabili di comparazione) costituirebbero essi stessi un ostacolo definitivo e insormontabile per la piena entrata a regìme di un sistema di mutuo riconoscimento basato, invece, sull’oggettiva valutazione di un determinato livello quali-quantitativo di formazione propedeutica all’esercizio della professione di architetto. 6.3.2. Per quanto concerne, poi, il sistema – per così dire – ‘a regìme’ delineato dall’articolo 7 della direttiva 85/384/CEE, l’assenza dei richiamati profili di ‘discriminazione alla rovescia’ emerge con tanto maggiore evidenza laddove si consideri: - che l’iscrizione di una categoria di professionisti nell’ambito degli elenchi nazionali ‘a regime’ di cui all’articolo 7 della direttiva presuppone che il rilascio dei relativi diplomi, certificati o titoli faccia seguito a percorsi formativi i cui contenuti minimi e necessari siano conformi alle previsioni di cui all’articolo 3 della direttiva (e si è detto in precedenza che tali percorsi formativi devono comprendere in via necessaria un’adeguata conoscenza della storia e delle tecniche dell’architettura, nonché delle belle arti e delle scienze umane – ossia, di quel complesso di discipline umanistiche che caratterizzano il bagaglio culturale tipico dell’architetto e il cui possesso giustifica la parziale riserva professionale di cui al più volte richiamato articolo 52 -); - che, anche ad ammettere che un professionista di Paese dell’UE in possesso del titolo di ingegnere possa essere incluso negli elenchi di cui all’articolo 7, cit. (e sia, quindi, ammesso ad esercitare in Italia le attività tipiche dell’architetto anche in relazione ai beni di interesse storico ed artistico), ciò non costituirà di per sé una discriminazione in danno dell’ingegnere italiano (nei cui confronti l’esercizio di quelle stesse attività resta tipicamente escluso). E infatti, l’inclusione di quella particolare tipologia di ingegnere UE nell’ambito degli elenchi di cui all’articolo 7, cit. dimostrerà ex se che quel professionista ha seguito un percorso formativo idoneo (anche nei campi della storia e delle tecniche dell’architettura, nonché delle belle arti e delle scienze umane) tale da giustificare in modo pieno l’esercizio da parte di quel professionista ingegnere (e al di là delle limitazioni recate dal nomen iuris della qualifica professionale posseduta) delle attività abitualmente esercitate con il titolo professionale di architetto (ivi comprese quindi, ai fini che qui rilevano, le opere di edilizia che presentano rilevante carattere artistico e il ripristino degli edifici di cui alla legge 20 giugno 1909, n, 364). Anche sotto tale aspetto, quindi, deve essere esclusa la sussistenza della paventata ipotesi di ‘discriminazione alla rovescia’ in danno degli ingegneri civili italiani. 7. Per le ragioni sin qui esposte il ricorso in appello proposto dal Ministero per i beni e le attività culturali deve essere accolto e per l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado, deve essere respinto il ricorso di primo grado proposto dall’ingegnere e dall’Ordine degli ingegneri di Verona e provincia. 8. Per le medesime ragioni il ricorso in appello proposto dagli Ordini degli ingegneri delle province di Venezia, Padova, Treviso, Vicenza, Verona, Rovigo e Belluno, deve essere respinto, con conseguente conferma della sentenza del T.A.R. n. 3651/2008 la quale ha sancito la legittimità degli atti e delle determinazioni amministrative le quali avevano escluso gli ingegneri dall’affidamento del servizio di direzione dei lavori e di coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione dei lavori di restauro e di recuperi funzionale di un immobile di interesse storico e artistico. 8.1. Per quanto riguarda, in particolare, il ricorso in appello n. 2527/2009 il Collegio deve ora esaminare i motivi di appello ulteriori e diversi rispetto a quelli inerenti la portata applicativa del più volte richiamato articolo 52 del R.D. 2537 del 1925. 8.1.1. In primo luogo si osserva che non può essere accolto il motivo di appello con cui (reiterando un analogo motivo di doglianza già articolato in primo grado e disatteso dal T.A.R.) si è osservato che i servizi messi a gara con gli atti impugnati in primo grado non rientrano a pieno titolo nell’ambito di quelli per i quali opera la riserva parziale in favore degli architetti di cui al medesimo articolo 52, avendo essi ad oggetto ‘la parte tecnica’ delle lavorazioni (la quale, ai sensi del medesimo articolo 52, può essere demandata tanto all’architetto, quanto all’ingegnere). Il motivo in questione non può essere condiviso, dovendo – al contrario – trovare puntuale conferma in parte qua la sentenza appellata, la quale ha affermato che l’attività di direzione dei lavori per il restauro di Palazzo Contarini del Bovolo in Venezia – San Marco 4299 implica con ogni evidenza scelte connesse “al restauro, al risanamento e al recupero funzionale dell’immobile, per la cui attuazione ottimale è conferente l’intervento dell’architetto in ragione dell’indubbia preminenza della sua professionalità nell’ambito delle belle arti, nel mentre risultano - con altrettanta evidenza – del tutto residuali le ulteriori lavorazioni strutturali ed impiantistiche rientranti nell’edilizia civile propriamente intesa”. Al riguardo si osserva che, anche a voler enfatizzare la previsione di cui all’ultima parte del secondo comma dell’articolo 52, cit. (secondo cui la parte tecnica delle opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico e il restauro e ripristino degli edifici di interesse storico e artistico “ne può essere compiuta tanto dall’architetto quanto dall’ingegnere”), non può ritenersi che le attività relative al servizio di direzione dei lavori e di coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione dei lavori all’origine dei fatti di causa possano farsi rientrare fra quelle relative alla sola ‘parte tecnica’. Al riguardo si osserva che, secondo un condiviso orientamento, la parziale riserva di cui al più volte richiamato articolo 52 non riguarda la totalità degli interventi concernenti immobili di interesse storico e artistico, ma inerisce alle sole parti di intervento di edilizia civile che implichino scelte culturali connesse alla maggiore preparazione accademica conseguita dagli architetti nell’ambito delle attività di restauro e risanamento di tale particolarissima tipologia di immobili (si richiama ancora una volta, al riguardo, la sentenza di questo Consiglio n. 5239 del 2006). Tuttavia (e si tratta di una notazione dirimente ai fini della presente decisione) non può negarsi che la richiamata riserva operasse in relazione alle attività all’origine di fatti di causa, il cui contenuto essenziale e certamente prevalente riguardava – appunto - scelte connesse al restauro, al risanamento e al recupero funzionale di un immobile sottoposto a vincolo storico-artistico, sì da giustificare certamente sotto il profilo sistematico e funzionale la richiamata riserva. Non può, pertanto, essere condivisa la tesi degli Ordini appellanti secondo cui l’attività di direzione dei lavori nel caso di specie potesse essere ricondotta alle attività di mero rilievo tecnico, in quanto tali esercitabili anche dai professionisti ingegneri. Né può essere condiviso l’argomento secondo cui, a ben vedere, l’attività di direzione dei lavori coinciderebbe ex se con la nozione di ‘parte tecnica’ delle attività e delle lavorazioni, atteso che i) di tale coincidenza non è traccia alcuna nell’ambito della normativa di riferimento; ii) laddove si accedesse a tale opzione interpretativa, di fatto, si priverebbe di senso compiuto la stessa individuazione di una ‘parte tecnica’ (intesa quale componente di una più ampia serie di attività) facendola coincidere, di fatto, con il più ampio e onnicomprensivo novero delle attività relative alla direzione dei lavori. Ma la sentenza in epigrafe è altresì meritevole di conferma laddove ha osservato che gli atti della lex specialis impugnati in primo grado, lungi dall’aver irragionevolmente compresso le prerogative dei professionisti ingegneri, ne hanno – al contrario – tenuto in adeguata considerazione le peculiarità. Ciò, in quanto la medesima lex specialis ha previsto l’istituzione di un organo collegiale di direzione dei lavori composto – fra gli altri – da un direttore operativo per gli impianti (ruolo, questo, che avrebbe certamente potuto essere ricoperto da un ingegnere), da un direttore operativo per le strutture e da un direttore operativo restauratore di beni culturali. 8.1.2. Neppure può essere condiviso il secondo motivo di appello, con il quale (reiterando un analogo motivo di doglianza già articolato in primo grado e disatteso dal T.A.R.) si è lamentata la contraddittorietà intrinseca che sussisterebbe fra: - (da un lato), gli atti impugnati in primo grado, con cui sono state precluse agli ingegneri le attività di direzione dei lavori e coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione dei richiamati lavori di restauro e recupero funzionale e - (dall’altro) un diverso bando di gara, indetto dalla medesima amministrazione e relativo al medesimo immobile vincolato, con cui è stata – al contrario – consentita agli ingegneri la partecipazione (insieme agli architetti) alla gara avente ad oggetto la progettazione esecutiva dei lavori. Al riguardo giova premettere (e si tratta di notazione dirimente ai fini del decidere) che, quand’anche il richiamato profilo di contraddittorietà fosse in concreto sussistente, ciò non sortirebbe l’effetto di consentire agli ingegneri la partecipazione alla gara per l’affidamento del servizio di direzione dei lavori e di coordinamento della sicurezza (si tratta di attività che, per le ragioni dinanzi richiamate, sono state legittimamente precluse agli ingegneri in coerente applicazione dell’articolo 52 del R.D. 2537 del 1925). Al contrario, l’eventuale accoglimento del richiamato motivo potrebbe al più sortire l’unico effetto di palesare l’illegittimità delle determinazioni con cui l’amministrazione ha ammesso gli ingegneri a partecipare alla gara avente ad oggetto la progettazione esecutiva dei lavori. Il che palesa altresì rilevanti dubbi in ordine alla sussistenza di un effettivo interesse in capo agli Ordini professionali appellanti alla proposizione del motivo di appello in esame. Ma, anche a prescindere da tale assorbente rilievo, si osserva che la sentenza in epigrafe risulta comunque meritevole di conferma laddove ha osservato che, nel caso in esame, le scelte anche di dettaglio relative agli interventi di restauro, risanamento e recupero funzionale dell’immobile erano state effettuate in sede di stesura del progetto definitivo (progetto, quest’ultimo, che era stato peraltro approvato dalla competente Soprintendenza per i Beni architettonici e dalla Commissione per la salvaguardia di Venezia). Ne consegue che – come condivisibilmente osservato dai primi Giudici – la stesura del progetto definitivo coincideva di fatto, nel caso in esame, con la mera ingegnerizzazione del progetto definitivo, in tal modo giustificando che la relativa attività potesse essere demandata anche ad ingegneri, senza contrasto alcuno con la previsione di cui all’articolo 52 del più volte richiamato R.D. n. 2537 del 1925. Né può essere condiviso l’ulteriore motivo al riguardo profuso dagli Ordini appellanti (motivo che risulta basato su una sorte di argomento a fortiori, in base al quale: i) se viene legittimamente demandata agli ingegneri un’attività puramente tecnica quale quella propria della progettazione esecutiva, ii) a maggior ragione non potrà essere negata agli ingegneri l’effettuazione di un’attività – quella di direzione dei lavori – “più tecnica rispetto alla progettazione vera e propria” – pag. 19 dell’atto di appello -). E’ evidente al riguardo che l’argomento in questione si fonda sull’assiomatica affermazione secondo cui, appunto, l’attività di direzione dei lavori risulterebbe “più tecnica” rispetto a quella di mera progettazione ed ingegnerizzazione. Si tratta di un’affermazione il cui carattere indimostrato non può evidentemente essere assunto a parametro di giudizio. 8.1.3. Infine, non può trovare accoglimento il terzo motivo di appello, con il quale (reiterando ancora una volta un motivo di doglianza già articolato in primo grado e disatteso dal T.A.R.) si è lamentata l’illegittimità della scelta di riservare agli architetti anche il ruolo di coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione. Secondo gli Ordini appellanti, la sentenza in epigrafe si sarebbe inammissibilmente limitata a motivare la reiezione in parte qua del ricorso sulla base dell’articolo 127 del d.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554 (il quale al comma 1, primo periodo, stabilisce che “le funzioni del coordinatore per l’esecuzione dei lavori previsti dalla vigente normativa sulla sicurezza nei cantieri sono svolte dal direttore dei lavori”). Tuttavia, i primi Giudici avrebbero omesso di tenere in considerazione la previsione di cui all’articolo 10 della legge 14 agosto 1996, n. 494 il quale ammette –inter alios – gli ingegneri a svolgere i compiti tipici del coordinatore per l’esecuzione dei lavori. Il motivo in esame non può trovare accoglimento in considerazione dell’evidente carattere di specialità che caratterizza la previsione di cui all’articolo 127 del d.P.R. 554 del 1999 (ora: articolo 152 del d.P.R. 207 del 2010) rispetto all’articolo 10 del decreto legislativo 494 del 1996. Ed infatti, premesso che la vicenda di causa resta governata dalle pregresse disposizioni di cui al richiamato articolo 127, cit., è pacifico che tale disposizione imponesse la coincidenza soggettiva fra il direttore dei lavori e il coordinatore per l’esecuzione dei lavori (fatta salva l’ipotesi in cui il direttore dei lavori designato fosse privo dei requisiti previsti per svolgere altresì i compiti tipici del coordinatore per l’esecuzione dei lavori – ma sul punto non è stata sollevata contestazione alcuna in corso di causa -). Tuttavia, nelle ipotesi in cui (come nel caso di specie e per le ragioni dinanzi esaminate) i compiti di direttore dei lavori fossero riservate a un professionista architetto, del tutto legittimamente l’amministrazione aggiudicatrice avrebbe potuto (rectius: dovuto) riservare a quest’ultimo anche le funzioni di coordinatore per l’esecuzione dei lavori (scil.: sempre che il professionista in questione fosse altresì munito dei prescritti requisiti). Anche sotto questo aspetti, quindi, il ricorso in appello n. 2527/2009 deve essere respinto. Conclusivamente, il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso in appello proposto dal Ministero per i beni e le attività culturali deve essere accolto, mentre respinto il ricorso di primo grado proposto dall’ingegnere e dall’Ordine degli ingegneri di Verona e provincia e ha altresì respinto il ricorso in appello proposto dagli Ordini degli ingegneri delle province di Venezia, Padova, Treviso, Vicenza, Verona, Rovigo e Belluno, deve essere respinto. Per scaricare la sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale **del 2008, proposto dal Ministero per i beni e le attività culturali, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12
contro
**;Comune di S. Martino Buon Albergo;
Ordine degli Ingegneri di Verona e Provincia, rappresentato e difeso dagli avvocati Luigi Manzi, G. Paolo Sardos Albertini e Paolo Piva, con domicilio eletto presso Luigi Manzi in Roma, via Federico Confalonieri, 5;
Consiglio Nazionale degli Ingegneri, rappresentato e difeso dagli avvocati Bruno Nascimbene e Augusto Moretti, con domicilio eletto presso Augusto Moretti in Roma, corso Vittorio Emanuele II 154;
Consiglio Nazionale degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori, Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Verona, rappresentati e difesi dall'avvocato Francesco Vanni, con domicilio eletto presso l’avvocato Ugo De Luca - Studio BDL in Roma, via Bocca di Leone, 78
sul ricorso numero di registro generale **del 2009, proposto dall’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Venezia, dall’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Padova, dall’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Treviso, dall’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Vicenza, dall’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Verona, dall’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Rovigo e dall’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Belluno, rappresentati e difesi dagli avvocati Guido Francesco Romanelli e Francesco M. Curato, con domicilio eletto presso Guido Francesco Romanelli in Roma, via Cosseria, n. 5
contro
IRE - Istituzioni di Ricovero e di Educazione Venezia, rappresentato e difeso dagli avvocati Nicola Marcone, Mario Barioli e Lorenzo Anelli, con domicilio eletto presso Lorenzo Anelli in Roma, piazza dell'Orologio, 7;
Ordine degli Architetti della Provincia di Venezia
nei confronti di
Faccio Engineering S.r.l. in proprio e in qualità di capogruppo mandataria di R.T.I.; TIFS Ingegneria S.r.l. in proprio e in qualità di mandante di R.T.I.; Lithos S.n.c. in proprio e in qualità di mandante di R.T.I.
e con l'intervento di
ad adiuvandum: Consiglio Nazionale degli Ingegneri, rappresentato e difeso dagli avvocati Augusto Moretti e Bruno Nascimbene, con domicilio eletto presso Augusto Moretti in Roma, corso Vittorio Emanuele II, n. 154
per la riforma:
quanto al ricorso n. ** del 2008, della sentenza del T.A.R del Veneto, Sezione II, 15 novembre 2007, n. 3630;
- quanto al ricorso n. ** del 2009: della sentenza del T.A.R. del Veneto, Sezione I, 25 novembre 2008, n. 3651
Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 3 dicembre 2013 il Cons. Claudio Contessa e uditi per le parti l’avvocato dello Stato Biagini, l’avvocato Piva, l’avvocato Nascimbene, l’avvocato Angelini per delega dell’avvocato Vanni Curato, l’avvocato Romanelli, l’avvocato Pesce per delega dell’avvocato Anelli e l’avvocato Nascimbene;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue
FATTO
Ai fini della ricostruzione della vicenda di causa si può fare rinvio a quanto esaustivamente riportato nell’ordinanza di questa Sezione n. 386 del 27 gennaio 2012, che si esprime nei termini che seguono.
Entrambi i ricorsi in epigrafe, sia pur con distinta graduazione dei motivi di censura, hanno ad oggetto controversie insorte in ordine alla legittimità di determinazioni amministrative consistite essenzialmente nell’escludere professionisti italiani appartenenti alla categoria degli ingegneri dal conferimento in Italia di incarichi afferenti la direzione di lavori da eseguirsi su immobili di interesse storico-artistico.
In particolare, nel ricorso n.** del 2008 viene in rilievo il diniego implicito adottato dalla Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici di Verona in ordine alla comunicazione di subentro dell’ingegnere ** nell’incarico di direttore dei lavori relativi alla concessione edilizia n. 29 del 2001 rilasciata dal Comune di San Martino Buon Albergo (Verona) per la realizzazione di lavori su un immobile di interesse storico-artistico e in quanto tale sottoposto al vincolo di tutela ai sensi del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (‘Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell'articolo 1 della L. 8 ottobre 1997, n. 352’ – in seguito: decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 -).
Il provvedimento è stato adottato sull’assunto che l’attività professionale in oggetto debba ritenersi inibita agli ingegneri, essendo riservata agli architetti, ai sensi dell’art. 52, secondo comma, del r.d. n. 2537 del 23 ottobre 1925 (recante il regolamento per le professioni di ingegnere e di architetto).
L’ingegnere **, unitamente all’Ordine degli ingegneri di Verona, ha impugnato il provvedimento negativo, deducendo in via principale la sua illegittimità per contrasto con la direttiva del Consiglio CE 10 giugno 1985 n. 384 (cui l’Italia ha dato esecuzione con il decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 129) nella parte in cui la stessa, con il proposito di uniformare in ambito europeo le condizioni minime di formazione di coloro che operano nel settore dell’architettura, avrebbe sostanzialmente parificato i titoli di laurea in ingegneria ed in architettura, ricorrendo alcune condizioni minime in relazione ai percorsi formativi dei distinti corsi di laurea ovvero - a titolo transitorio - in relazione ad alcuni titoli rilasciati fino ad una certa data da istituzioni europee di formazione tassativamente indicate.
Da tanto i ricorrenti hanno tratto la conclusione secondo cui ogni discriminazione tra le due categorie professionali sarebbe illegittima alla luce del diritto comunitario e dei principi dallo stesso desumibili.
Il Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto, investito della decisione sul ricorso, ha ritenuto prioritario rimettere alla Corte di Giustizia la questione interpretativa in relazione al contenuto degli articoli 10 e 11 della direttiva n. 85/384/CE, richiedendo in particolare se le predette disposizioni comunitarie impongano ad uno Stato membro di non escludere dall’accesso alle prestazioni dell’architetto i propri laureati in ingegneria civile che abbiano seguito un percorso didattico conforme alle prescrizioni di cui agli articoli 3 e 4 della direttiva stessa o che comunque versino nelle condizioni per l’automatico riconoscimento del titolo in base al regime transitorio previsto dalla stessa direttiva.
Con ordinanza 5 aprile 2004 (resa nel procedimento C-3/02) la Corte di Giustizia si è pronunciata sulla questione statuendo che la direttiva n. 85/384/CE non incide sul regime giuridico di accesso alla professione di architetto vigente in Italia ma ha ad oggetto soltanto il reciproco riconoscimento, da parte degli Stati membri, dei certificati e degli altri titoli rispondenti a determinati requisiti qualitativi e quantitativi in materia di formazione, allo scopo di agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione dei servizi per le attività del settore dell’architettura. Ha altresì precisato la Corte che ove, in applicazione della richiamata normativa comunitaria, dovesse porsi all’interno dell’ordinamento giuridico italiano un problema di discriminazione in danno della sola categoria degli ingegneri italiani, esclusi da attività riservate agli architetti, cui invece hanno accesso i professionisti migranti di altri Stati membri in virtù delle disposizioni della ricordata direttiva, si potrebbe porre un problema di discriminazione alla rovescia in danno dei soli cittadini: ma anche tale questione sarebbe da risolvere ad opera del giudice nazionale in quanto giuridicamente non rilevante per il diritto dell’Unione europea.
A seguito di tale decisione i Giudici di primo grado hanno rimesso alla Corte costituzionale la questione della legittimità costituzionale dell’art. 52, secondo comma, del R.D. n. 2537 del 23 ottobre 1925, ravvisando nella disposizione che riserva ai soli architetti (e non anche agli ingegneri civili) gli interventi professionali sugli immobili di pregio storico-artistico un possibile contrasto con gli articoli 3 e 41 della Costituzione italiana.
Tuttavia la Corte costituzionale, con ordinanza 16-19 aprile 2007, n. 130, ha dichiarato la manifesta inammissibilità, stante la natura regolamentare e non legislativa delle disposizioni censurate, della questione di legittimità costituzionale dell'art. 52, secondo comma, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione.
Infine, con sentenza 15 novembre 2007 n. 3630, il Tar del Veneto ha accolto il ricorso di primo grado, previa disapplicazione per quanto di interesse dell’art. 52 del regio decreto n. 2537 del 1925, sull’assunto della impossibilità di configurare, alla stregua dei principi di parità di trattamento e di non discriminazione desumibili anche dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, effetti discriminatori tra professionisti migranti da Paesi membri diversi dall’Italia e professionisti nazionali.
Tale sentenza ha formato oggetto di ricorso in appello dinanzi a questo Consiglio di Stato da parte del Ministero per i beni e le attività culturali (ricorso n. **/2007).
Nel ricorso in appello n. ** del 2009, a formare oggetto della impugnazione di primo grado è invece un bando di gara redatto dall’IRE – Istituzioni di Ricovero e di Educazione Venezia - per l’affidamento del servizio di direzione lavori e coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione dei lavori di restauro e recupero funzionale di Palazzo Contarini del Bovolo in Venezia, immobile di rilevante interesse culturale e come tale sottoposto a vincolo di tutela.
Gli ordini provinciali veneti degli ingegneri, in epigrafe meglio indicati, hanno impugnato in primo grado il bando di gara, unitamente agli atti di aggiudicazione della stessa, nelle parti in cui con quell’atto la stazione appaltante riservava le attività professionali oggetto di affidamento ai soli architetti e non anche agli ingegneri. I motivi di ricorso sono stati proposti anzitutto sul rilievo della estraneità delle attività oggetto di affidamento da quelle riservate agli architetti in base all’art. 52, secondo comma, del R.D. n. 2537 del 1925 e, in ogni caso, sul carattere ingiustificatamente discriminatorio di tale ultima disposizione, alla luce dei principi desumibili dalla direttiva n. 85/384/CE e dalla normativa italiana di trasposizione della stessa (decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 129) .
Con sentenza n. 3651 del 25 novembre 2008 il Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto ha respinto il ricorso, pervenendo a conclusioni diametralmente opposte rispetto a quelle rassegnate nella dianzi richiamata sentenza n. 3630 del 15 novembre 2007, anch’essa qui oggetto di impugnazione. Aderendo alla impostazione contenuta nella decisione di questo Consiglio di Stato n. 5239 del 2006 e richiamando il contenuto della ordinanza della Corte di Giustizia del 5 aprile 2004 (resa nell’ambito del ricorso di primo grado RG n. 1994/01), il T.A.R. del Veneto ha evidenziato che la lettura interpretativa del giudice comunitario muove dal presupposto che la direttiva n. 384/85/CE si riferisca al mutuo riconoscimento dei corsi di formazione e non riguardi le condizioni d’accesso alle distinte professioni; di guisa che non implica la piena equiordinazione del titolo di laurea in ingegneria a quello di architettura ai fini dell’accesso alle attività riservate agli architetti dal regio decreto n. 2537 del 1925 (articolo 52).
A parere del Giudici di primo grado, dunque tale ultima disposizione normativa nazionale deve ritenersi senz’altro legittima, unitamente agli atti amministrativi adottati in conformità alle sue previsioni. Anche tale sentenza ha formato oggetto di ricorso in appello dinanzi a questo Consiglio di Stato da parte degli ordini provinciali degli ingegneri, già ricorrenti in primo grado.
Come in premessa già precisato, in entrambi i ricorsi in appello che vengono all’esame di questo Consiglio di Stato viene riproposta, sia pure con prospettazione asimmetrica nelle distinte controversie, in ragione delle antitetiche posizioni processuali delle parti, la questione della compatibilità comunitaria della disciplina normativa italiana che riserva ai soli architetti le prestazioni principali sugli immobili di interesse culturale (art. 52 del R.D. del 22 ottobre 1925 n. 2537).
Nel ricorso in appello RG n.6736/08, in particolare, è il Ministero dei beni e le attività culturali a censurare la sentenza di accoglimento del T.A.R. del Veneto, rilevando che dalla stessa ordinanza della Corte di Giustizia 5 aprile 2004 si ricaverebbe il principio secondo cui la diversificazione normativa nell’accesso ad alcune prestazioni particolari dell’architettura, oltre che essere una esclusiva prerogativa statuale, come tale estranea alla sfera di intervento del diritto comunitario, rappresenterebbe anche una soluzione coerente con la diversità dei percorsi formativi degli ingegneri e degli architetti.
In ogni caso, poiché anche agli ingegneri italiani non sarebbe inibito l’accesso all’esame di abilitazione per il conseguimento del titolo professionale di architetto, e considerato che la normativa comunitaria si occupa del mutuo riconoscimento dei titoli di studio ma non delle condizioni di accesso alla professione, a parere del Ministero appellante la normativa italiana oggetto di causa (articolo 52 cit.) non arrecherebbe alcunvulnus al principio della parità di trattamento, essendo giustificata la distinzione tra le due categorie di professionisti ai fini dell’accesso a talune prestazioni sugli immobili di interesse culturale ed essendo in ogni caso tale normativa indistintamente applicabile ai cittadini italiani ed ai professionisti migranti di altri Paesi membri.
Nel ricorso in appello RG n. **/09 sono gli ordini provinciali degli ingegneri del Veneto a censurare la sentenza di rigetto di primo grado ed a riproporre, sia pure in via subordinata, la stessa questione afferente la illegittimità de iure communitario dell’articolo 52 del R.D. 22 ottobre 1925 n. 2537, sostenendosi in via principale l’affidabilità (anche) agli ingegneri dell’incarico oggetto d’appalto, in ragione della natura delle attività oggetto di gara, in tesi estranee al campo applicativo delle prestazioni riservate agli architetti secondo la richiamata disposizione di diritto interno.
Con la richiamata ordinanza 27 gennaio 2012, n. 386 questo Consiglio ha ritenuto che, al fine della definizione della controversia, fosse necessario investire la Corte di giustizia dell’UE di due quesiti pregiudiziali ai sensi dell’articolo 267 del TFUE.
Il Collegio rimettente, ha quindi formulato i seguenti quesiti:
a) se la direttiva comunitaria n. 85/384/CE, nella parte in cui ammette (artt. 10 e 11), in via transitoria, all’esercizio delle attività nel settore dell’architettura i soggetti migranti muniti dei titoli specificamente indicati, non osta a che in Italia sia ritenuta legittima una prassi amministrativa, avente come base giuridica l’art.52, comma secondo, parte prima del r.d. n. 2537 del 1925, che riservi specificamente taluni interventi sugli immobili di interesse artistico soltanto ai candidati muniti del titolo di “architetto” ovvero ai candidati che dimostrino di possedere particolari requisiti curriculari, specifici nel settore dei beni culturali e aggiuntivi rispetto a quelli genericamente abilitanti l’accesso alle attività rientranti nell’architettura ai sensi della citata direttiva;
b) se in particolare tale prassi può consistere nel sottoporre anche i professionisti provenienti da Paesi membri diversi dall’Italia, ancorché muniti di titolo astrattamente idoneo all’esercizio delle attività rientranti nel settore dell’architettura, alla specifica verifica di idoneità professionale (ciò che avviene anche per i professionisti italiani in sede di esame di abilitazione alla professione di architetto) ai limitati fini dell’accesso alle attività professionali contemplate nell’art. 52, comma secondo, prima parte del Regio decreto n 2357 del 1925.
La Corte di giustizia ha definito il ricorso per rinvio pregiudiziale con la sentenza della Quinta Sezione 21 febbraio 2013 (in causa C-111/12).
Con tale decisione, in particolare, la Corte ha statuito che gli articoli 10 e 11 della direttiva 85/384/CEE del Consiglio, del 10 giugno 1985, concernente il reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli del settore dell’architettura e comportante misure destinate ad agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione di servizi, devono essere interpretati nel senso che essi ostano ad una normativa nazionale secondo cui persone in possesso di un titolo rilasciato da uno Stato membro diverso dallo Stato membro ospitante - titolo abilitante all’esercizio di attività nel settore dell’architettura ed espressamente menzionato al citato articolo 11 - possono svolgere, in quest’ultimo Stato, attività riguardanti immobili di interesse artistico solamente qualora dimostrino, eventualmente nell’ambito di una specifica verifica della loro idoneità professionale, di possedere particolari qualifiche nel settore dei beni culturali.
A seguito della riassunzione del giudizio, le parti hanno confermato e in parte precisato le proprie conclusioni.
Alla pubblica udienza del 3 dicembre 2013 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
1. Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello proposto dal Ministero per i beni e le attività culturali avverso la sentenza del T.A.R. del Veneto con cui è stato accolto il ricorso proposto dall’Ingegner **i e dall’Ordine degli Ingegneri di Verona e provincia e per l’effetto – previa disapplicazione delle disposizioni di cui all’articolo 52 del r.d. 2537 del 23 ottobre 1925 (‘Approvazione del regolamento per le professioni d’ingegnere e di architetto’) - è stato disposto l’annullamento del provvedimento con cui la competente Soprintendenza aveva negato il subentro dell’Ingegner Mosconi nella direzione di alcuni lavori da realizzarsi su un immobile sottoposto a vincolo ai sensi del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (‘Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell'articolo 1 della L. 8 ottobre 1997, n. 352’ – in seguito: decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 -).
Giunge, altresì, alla decisione del Collegio il ricorso proposto da sette Ordini degli ingegneri della Regione Veneto avverso la sentenza del T.A.R. del Veneto con cui è stato respinto il ricorso da essi proposto avverso il bando e il disciplinare di gara per l’affidamento del servizio di direzione dei lavori e di coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione dei lavori di restauro e recupero funzionale di alcuni immobili sottoposti a vincolo ai sensi del richiamato decreto legislativo n. 490 del 1999.
2. Va disposta anzitutto la riunione dei ricorsi in appello di cui in epigrafe atteso che gli stessi, supponendo la soluzione di analoghe questioni giuridiche, meritano di essere trattati congiuntamente per essere definiti con un’unica sentenza.
3. Nel merito, il ricorso n. **/2008 – proposto dal Ministero per i beni e le attività culturali – deve essere accolto, mentre deve essere respinto il ricorso n. **/2009 – proposto dagli Ordini degli Ingegneri delle Province del Veneto -.
4. Giova premettere che la questione della complessiva compatibilità de iure communitario della parziale riserva di cui all’articolo 52 del R.D. 2537 del 1925 è stata scrutinata da questo Giudice di appello attraverso un filone giurisprudenziale ormai consolidato (e le cui conclusioni sono qui condivise) il quale è giunto a soluzioni sostanzialmente condivise circa l’insussistenza di profili di incompatibilità con i pertinenti dettami del diritto dell’Unione europea (ex multis: Sez. VI, 16 maggio 2006, n. 2776; id., VI, 11 settembre 2006, n. 5239; id., VI, 24 ottobre 2006, n. 6343).
Con la presente decisione, quindi, ci si domanderà in particolare se le conclusioni cui il richiamato orientamento è sino ad oggi pervenuto possano essere in qualche misura revocate in dubbio in considerazione del paventato rischio che le disposizioni di cui al richiamato articolo 52 possano determinare, in danno degli Ingegneri italiani, un fenomeno di ‘reverse discrimination’ – o discriminazione alla rovescia – (un fenomeno, quest’ultimo, noto alla normativa e alla giurisprudenza nazionale e in relazione al quale il Legislatore ha da ultimo approntato un rimedio generale di tutela preventiva attraverso l’adozione dell’articolo 53 della l. 24 dicembre 2012, n. 234 – sul punto, v. infra -).
Tanto premesso sotto l’aspetto generale, si svolgeranno qui di seguito alcune considerazioni utili a delimitare il campo d’indagine della presente decisione.
4.1. Per quanto riguarda, in primo luogo, la delimitazione dell’ambito oggettivo della richiamata, parziale riserva, la giurisprudenza di questo Consiglio ha condivisibilmente osservato che, ai sensi dell’articolo 52, cit., non la totalità degli interventi concernenti gli immobili di interesse storico e artistico deve essere affidata alla specifica professionalità dell’architetto, ma solo “le parti di intervento di edilizia civile che riguardino scelte culturali connesse alla maggiore preparazione accademica conseguita dagli architetti nell’ambito del restauro e risanamento degli immobili di interesse storico e artistico”, restando invece nella competenza dell’ingegnere civile la cd. parte tecnica, ossia “le attività progettuali e di direzione dei lavori che riguardano l’edilizia civile vera e propria (…)” (in tal senso: Cons. Stato, VI, 11 settembre 2006, n. 5239).
Il che, come è evidente, sortisce di per sé l’effetto di ridurre grandemente la portata di un eventuale effetto di ‘reverse discrimination’ (effetto che, comunque – e per le ragioni che nel prosieguo si esporranno – non è comunque nel caso di specie configurabile).
Ed infatti, nonostante alcune enfatizzazioni sul punto contenute nelle difese delle parti in causa, la presente controversia non involge la generale questione della delimitazione oggettiva delle professioni di architetto e di ingegnere (si tratta di una questione che, allo stato attuale di evoluzione dell’ordinamento comunitario, non conosce misure di armonizzazione al livello UE, né interventi di ravvicinamento delle legislazioni), né le condizioni di accesso a tali professioni.
Allo stesso modo, la presente controversia non riguarda la più o meno integrale assimilazione fra i due ambiti professionali al livello comunitario o nazionale, ma concerne (anche all’esito delle indicazioni interpretative fornite dalla Corte di giustizia) la ben più limitata questione relativa al se la previsione di cui al più volte richiamato articolo 52 determini una ‘discriminazione alla rovescia’ in danno dell’ingegnere italiano nei confronti dell’ingegnere di un qualunque altro Paese dell’Unione europea e in relazione adalcune soltanto delle attività che l’architetto può esercitare in relazione alle opere ed interventi che presentano rilevante carattere artistico o che riguardano beni di interesse storico e culturale (ci si riferisce alle sole opere di edilizia civile, con esclusione dell’ampio novero degli interventi inerenti la c.d. ‘parte tecnica’).
4.2. Sempre con riferimento all’ambito di applicazione della parziale riserva di cui al più volte richiamato articolo 52, la giurisprudenza nazionale (ancora una volta, sulla scorta dei chiarimenti interpretativi forniti dalla Corte di giustizia dell’UE) ha ulteriormente chiarito che le disposizioni della direttiva 85/384/CEE (concernente il reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli del settore dell'architettura e comportante misure destinate ad agevolare l'esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione di servizi e da ultimo trasfusa nel corpus della direttiva 2005/37/CE) non hanno in alcun modo comportato la piena equiparazione dei titoli di architetto e di ingegnere civile ai fini dell’esercizio delle attività professionali nel campo dell’architettura.
Al riguardo, la stessa Corte di Giustizia ha chiarito che la direttiva 85/384/CEE non si propone di disciplinare le condizioni di accesso alla professione di architetto, né di definire la natura delle attività svolte da chi esercita tale professione. In particolare, dal nono “considerando” di tale direttiva risulta che il suo articolo 1, n. 2, non intende fornire una definizione giuridica delle attività del settore dell’architettura.
Spetta, piuttosto, alla normativa nazionale dello Stato membro ospitante individuare le attività che ricadono in tale settore.
Al contrario, la direttiva 85/384/CEE ha ad oggetto solamente il reciproco riconoscimento, da parte degli Stati membri, dei diplomi, dei certificati e degli altri titoli rispondenti a determinati requisiti qualitativi e quantitativi minimi in materia di formazione, allo scopo di agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione di servizi per le attività del settore dell’architettura, come emerge dal secondo “considerando” della medesima direttiva.
Tale direttiva prevede, inoltre, un regime transitorio diretto, in particolare, a preservare i diritti acquisiti dai possessori di titoli già rilasciati dagli Stati membri anche qualora tali titoli non soddisfino i detti requisiti minimi.
Inoltre (come chiarito dalla medesima Corte di giustizia), sebbene l’art. 11, lett. g), della direttiva 85/384 menzioni, per l’Italia, i diplomi di “laurea in architettura” e di “laurea in ingegneria” come titoli che beneficiano del regime transitorio previsto dall’art. 10 di tale direttiva, ciò è solo al fine di assicurare il riconoscimento di tali diplomi da parte degli altri Stati membri, e non allo scopo di armonizzare, nello Stato membro interessato, i diritti conferiti da tali diplomi per quanto riguarda l’accesso alle attività di architetto (in tal senso, l’ordinanza della Corte 5 aprile 2004 in causa C-3/02, resa nell’ambito di un rinvio pregiudiziale sollevato dal T.A.R. del Veneto nell’ambito del ricorso di primo grado n. 1994/2001 – Mosconi Alessandro e altri -).
In definitiva, secondo la Corte di giustizia, la più volte richiamata direttiva non impone allo Stato membro di porre i diplomi di laurea in architettura e in ingegneria civile indicati all’articolo 11 su un piano di perfetta parità per quanto riguarda l’accesso alla professione di architetto in Italia; né tantomeno essa può essere di ostacolo ad una normativa nazionale che riservi ai soli architetti i lavori riguardanti gli immobili d’interesse storico-artistico sottoposti a vincolo (in tal senso: Cons. Stato, sent. 5239/06, cit.).
5. La Corte di giustizia (la quale – come si è detto in precedenza – è stata adita per ben due volte nel corso della presente vicenda contenziosa ai sensi dell’articolo 234 del TCE – in seguito: articolo 267 del TFUE -) ha reso statuizioni che risultano determinanti al fine di delimitare e definire la controversia nel suo complesso.
5.1. Con la prima di tali decisioni (si tratta dell’ordinanza in data 5 aprile 2004 sul ricorso C-3/02, resa sull’ordinanza di rimessione del T.A.R. del Veneto n. 4236/2001) la Corte ha chiarito:
- che l’articolo 52, secondo comma, del R.D. 2537 del 1925 non è ex se incompatibile con la direttiva comunitaria 85/384/CEE, in quanto (come si è già anticipato) quest’ultima non si propone di disciplinare le condizioni di accesso alla professione di architetto né di definire la natura delle attività svolte da chi esercita tale professione, ma soltanto di garantire “il reciproco riconoscimento, da parte degli Stati membri, dei diplomi, dei certificati e degli altri titoli rispondenti a determinati requisiti qualitativi e quantitativi minimi in materia di formazione allo scopo di agevolare l'esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione dei servizi per le attività del settore dell'architettura”;
- che la richiamata direttiva non obbliga in alcun modo gli Stati membri a porre i diplomi di laurea in architettura ed in ingegneria civile (con particolare riguardo a quelli indicati all'articolo 11) su un piano di perfetta parità ai fini dell'accesso alla professione di architetto in Italia, ma, in coerenza con il principio di non discriminazione tra Stati membri, impone soltanto di non escludere da tale accesso in Italia coloro che siano in possesso di un diploma di ingegneria civile o di un titolo analogo rilasciato da un altro Stato membro, laddove tuttavia (e si tratta di un chiarimento determinante ai fini della presente decisione) tale titolo risulti abilitante – in base alla normativa di quello Stato membro – all’esercizio di attività nel settore dell’architettura (e nel prosieguo della presente decisione si vedrà che tale possibilità non può essere ammessa in modo indiscriminato ai professionisti ingegneri, ma solo al ricorrere di alcune tassative condizioni);
- che la direttiva 85/384/CEE non trova in definitiva applicazione in relazione alla fattispecie di causa, poiché le relative disposizioni non impongono in alcun modo all’Italia di non escludere gli ingegneri civili che hanno conseguito in Italia il proprio titolo dall’attività di cui all’articolo 52, comma 2, del R.D. 2537 del 1925 (ma le impongono soltanto di non escludere – nella logica del mutuo riconoscimento e della libera circolazione che caratterizza la direttiva in parola - gli ingegneri civili o possessori di analoghi titoli conseguiti in altri Stati membri al ricorrere delle condizioni dinanzi richiamate).
Sotto tale aspetto, la Corte ha svolto una considerazione che ha in seguito assunto un rilievo dirimente nella complessiva economia del giudizio, laddove ha affermato che “è vero che, come sostiene la Commissione, ne può derivare una discriminazione alla rovescia, poiché gli ingegneri civili che hanno conseguito i loro titoli in Italia non hanno accesso, in tale Stato membro, all'attività di cui all'art. 52, secondo comma, del R.D. 2537 del 1925, mentre tale accesso non può essere negato alle persone in possesso di un diploma di ingegnere civile o di un titolo analogo rilasciato in un altro Stato membro, qualora tale titolo sia menzionato nell'elenco redatto ai sensi dell'art. 7 della direttiva 85/384/CEE o in quello di cui all’art.11 della detta direttiva. 53. Tuttavia, dalla giurisprudenza della Corte emerge che, quando si tratta di una situazione puramente interna come quella di cui alla causa principale, il principio della parità di trattamento sancito dal diritto comunitario non può essere fatto valere. In una situazione del genere spetta al giudice nazionale stabilire se vi sia una discriminazione vietata dal diritto nazionale e, se del caso, decidere come essa debba essere eliminata (…)”.
Di conseguenza, la Corte ha concluso nel senso che “quando si tratti di una situazione puramente interna ad uno Stato membro, né la direttiva 85/384 -in particolare i suoi artt. 10 e 11, lett. g) -né il principio della parità di trattamento ostano ad una normativa nazionale che riconosce, in linea di principio, l'equivalenza dei titoli di architetto e di ingegnere civile, ma riserva ai soli architetti i lavori riguardanti in particolare gli immobili vincolati appartenenti al patrimonio artistico”.
5.2. Con la seconda delle richiamate decisioni (si tratta della sentenza della quinta sezione del 21 febbraio 2013 sul ricorso C-111/12, resa sull’ordinanza di rimessione del Consiglio di Stato n. 386/2012) la Corte ha dovuto pronunziarsi su un’ulteriore ipotesi ricostruttiva prospettata da questo Consiglio di Stato in sede di ordinanza di rimessione.
In particolare, questo Giudice di appello (mosso dall’evidente intento di rinvenire una sintesi fra – da un lato - l’obbligo di matrice comunitaria di operare il mutuo riconoscimento delle professionalità straniere coperte dalle previsioni della direttiva 85/384/CEE e – dall’altro - l’esigenza di prevenire i richiamati, possibili fenomeni di ‘reverse discrimination’) aveva ipotizzato un sistema applicativo volto a temperare entrambe le richiamate esigenze.
Segnatamente, con l’ordinanza di rimessione n. 386/2012 questo Consiglio aveva ipotizzato l’introduzione (invero, ex novo) di una prassi applicativa consistente nel sottoporre anche i professionisti provenienti da altri Paesi membri dell’UE (e ancorché muniti di titolo astrattamente idoneo all’esercizio delle attività rientranti nel settore dell’architettura), a una specifica ed ulteriore verifica di idoneità professionale (in tutto simile a quelle svolta nei confronti dei professionisti italiani in sede di esame di abilitazione alla professione di architetto) ai limitati fini dell’accesso alle attività professionali contemplate nell’art. 52, comma secondo, prima parte del Regio decreto n 2357 del 1925.
Come si è anticipato in narrativa, la Corte di giustizia non ha condiviso l’ipotesi formulata da questo Consiglio di Stato e ha concluso nel senso che gli articoli 10 e 11 della direttiva 85/384/CEE devono essere interpretati nel senso che essi ostano ad una normativa nazionale (rectius: a una prassi applicativa, quale quella ipotizzata in sede di ordinanza di rimessione) secondo cui persone in possesso di un titolo rilasciato da uno Stato membro diverso dallo Stato membro ospitante (titolo, questo, abilitante all’esercizio di attività nel settore dell’architettura ed espressamente menzionato al citato articolo 11), possono svolgere, in quest’ultimo Stato, attività riguardanti immobili di interesse artistico solamente qualora dimostrino, eventualmente nell’ambito di una specifica verifica della loro idoneità professionale, di possedere particolari qualifiche nel settore dei beni culturali.
In definitiva la Corte ha ritenuto di non potersi pronunziare in modo espresso sul se la normativa italiana rilevante comporti o meno un fenomeno di ‘discriminazione alla rovescia’ in danno dei professionisti italiani (giacché ciò esula dalle sue competenze istituzionali, le quali non includono le ‘situazioni puramente interne’, al cui ambito sono pacificamente da ricondurre le controversie in esame – punto 34 della motivazione -).
Tuttavia, la Corte ha ritenuto di dover comunque definire e chiarire ulteriormente i contorni applicativi della normativa comunitaria dinanzi richiamata (e segnatamente, degli obblighi di mutuo riconoscimento di cui agli articoli 7, 10 e 11 della direttiva 85/384/CEE) al fine di consentire a questo Giudice del rinvio di disporre di una quadro conoscitivo più completo per definire il giudizio – ad esso solo demandato in via esclusiva – relativo alla sussistenza o meno del richiamato fenomeno di discriminazione alla rovescia.
6. Ebbene, impostati in tal modo i termini concettuali della questione, il Collegio ritiene che l’esame degli atti di causa e della pertinente normativa comunitaria e nazionale non palesino i paventati profili di discriminazione alla rovescia in danno dell’ingegnere civile italiano, al quale (nella tesi degli ordini degli Ingegneri appellanti nel ricorso n. 2527/2009, condivisa dal T.A.R. del Veneto con la sentenza n. 3630/2007) sarebbe indiscriminatamente e irrazionalmente vietato l’esercizio di alcune attività professionali (quelle inerenti gli interventi sui beni di interesse storico e artistico) le quali – al contrario – sarebbero altrettanto indiscriminatamente consentite agli Ingegneri di altri Paesi dell’Unione europea.
6.1. Al riguardo si osserva in primo luogo che la richiamata sentenza n. 3630/2007 sembra essere incorsa in una semplificazione eccessiva dei termini della questione laddove (indotta forse dalle abili prospettazioni di parte) ha descritto un quadro normativo e applicativo non coincidente con quello effettivamente riscontrabile.
Secondo il T.A.R., in particolare, sussisterebbe una ‘evidente’ disparità di trattamento ai danni degli ingegneri civili italiani (pag. 9 della motivazione) in quanto, di fatto, a tutti gli ingegneri civili italiani sarebbero indiscriminatamente vietate tutte le attività riconducibili all’articolo 52, cit., mentre – al contrario – a tutti gli ingegneri civili di altri Paesi dell’Unione l’esercizio di quelle stesse attività sarebbe indiscriminatamente consentito.
6.1.1. Secondo i primi Giudici, in particolare, “nel momento in cui la normativa europea afferma che l’ingegnere civile laureatosi in Italia può svolgere l’attività propria dell’architetto in tutta l’Europa, ma (in virtù di una norma interna) non in Italia, si offre al giudice italiano un parametro normativo per un giudizio di disapplicazione della norma interna contrastante con quella europea”.
Al riguardo i primi Giudici proseguono affermando che “è evidente l’arbitraria discriminazione a danno degli ingegneri civili italiani operata dalla norma in esame, i quali, equiparati agli ingegneri civili ed agli architetti europei dalla normativa comunitaria, possono esercitare, diversamente da questi ultimi, l’attività professionale riservata ai titolari di diploma di architetto in tutta l’Europa, ma non in Italia: discriminazione che, trovando causa nel contrasto tra la normativa nazionale e il diritto comunitario, va risolta con la disapplicazione della disciplina interna e la conseguente invalidità degli atti applicativi”.
6.1.2. Al riguardo si osserva:
- che, come più volte chiarito, nello stato attuale di evoluzione del diritto comunitario, la disciplina sostanziale dell’attività degli architetti e degli ingegneri non costituisce oggetto di armonizzazione, né di ravvicinamento delle legislazioni, così come risulta allo stato non armonizzata la disciplina delle condizioni di accesso a tali professioni, ragione per cui non risulta esatto affermare (contrariamente a quanto si legge a pag. 10 della sentenza n. 3630, cit.) che la direttiva 384, cit. avrebbe sancito la piena “equiordinazione sul piano comunitario dei titoli di ingegnere civile e di architetto”;
- che lo stesso passaggio dell’ordinanza della Corte di giustizia del 5 aprile 2004 il quale ha ipotizzato la sussistenza nell’ordinamento italiano di un’ipotesi di ‘reverse discrimination’ in danno dell’ingegnere civile italiano e in favore di ogni altro ingegnere di altri Paesi UE, non ha in alcun modo affermato la sicura sussistenza di una siffatta discriminazione, ma ne ha soltanto ipotizzato la possibilità, al ricorrere di taluni presupposti soggettivi e oggettivi, la cui ricorrenza dovrà essere scrutinata dal Giudice nazionale del rinvio. In particolare, con la decisione dell’aprile 2004, la Corte ha affermato che tale ipotesi potrebbe verificarsi nella sola ipotesi in cui il possesso di un diploma di ingegnere civile o di un titolo analogo rilasciato da altro Paese dell’UE fosse espressamente menzionato negli elenchi redatti – per così dire: - ‘a regìme’ ai sensi dell’articolo 7 della direttiva 85/384/CEE, ovvero nello speciale elenco transitorio di cui agli articoli 10 e 11 della medesima direttiva e laddove analoga possibilità fosse esclusa nei confronti di un professionista italiano in possesso dei medesimi requisiti.
Tuttavia, è del tutto determinante osservare che (contrariamente a quanto affermato nell’impugnata sentenza n. 3630/2007 e a quanto sembrano sostenere gli Ordini degli ingegneri appellanti nel ricorso n. 2527/2009) non tutti i diplomi, certificati e altri titoli di ingegnere civile rilasciati da altri Paesi dell’UE consentono l’indifferenziato svolgimento di tutte le attività proprie della professione di architetto.
Al contrario, l’esame della pertinente normativa comunitaria (e, segnatamente, dell’articolo 7 della direttiva 85/384/CEE) rende chiaro che l’inclusione negli elenchi nazionali predisposti – per così dire – ‘a regìme’ ai sensi del medesimo articolo 7 è consentita solo ai professionisti i quali abbiano svolto un adeguato percorso di formazione tipico della professione di architetto.
Ed infatti, la stessa direttiva 85/384/CEE, all’articolo 3, individua il contenuto minimo obbligatorio che i percorsi formativi nazionali devono possedere affinché i professionisti che abbiano seguito tali percorsi possano plenoiure essere inclusi negli elenchi nazionali che consentono ai relativi iscritti di vantare il diritto al mutuo riconoscimento e alla libera circolazione (diritto in quale rappresenta, a ben vedere, l’ubi consistam del complesso sistema delineato dalla medesima direttiva 85/384/CEE).
Ma, se solo ci si sofferma ad esaminare il contenuto minimo obbligatorio che la direttiva in questione impone affinché un determinato percorso di formazione sia incluso fra quelli che consentono di invocare il richiamato mutuo riconoscimento, ci si rende conto che tali requisiti sono pienamente compatibili con il consolidato orientamento di questo Consiglio il quale ha ritenuto del tutto congrua e non irragionevole la parziale riserva di cui all’articolo 52 del R.D. 2537 del 1925.
Come è noto, infatti, la giurisprudenza di questo Consiglio ha giustificato dal punto di vista sistematico la richiamata, parziale riserva sul rilievo secondo cui “per quanto nel corso di studi degli ingegneri civili non manchino approfondimenti significativi nel settore dell’architettura, al professionista architetto si riconosce generalmente una maggiore capacità, frutto di maggiori studi e approfondimenti della evoluzione dell’architettura sul piano storico e di un più marcato approccio umanistico alla professione, di penetrare le problematiche e le sottese valutazioni tecniche afferenti gli immobili o le opere di rilevanza artistica” (in tal senso, da ultimo, la stessa ordinanza di rimessione di questa Sezione n. 386/2012, dinanzi richiamata).
Ebbene, l’approccio in questione risulta del tutto compatibile con l’ordito normativo di cui alla direttiva 85/384/CEE la quale (al di là della coincidenza nominalistica dei titoli professionali di riferimento – ‘architetto’ piuttosto che ‘ingegnere’ -) ammette l’esercizio in regìme di mutuo riconoscimento e di libera circolazione delle attività tipiche della professione di architetto a condizione che il professionista in questione possa vantare un cursus di studi e di formazione il cui contenuto minimo essenziale comprende studi (anche) di carattere storico e artistico quali quelli richiesti in via necessaria per operare con adeguata cognizione di causa nel settore dei beni storici e di interesse culturale.
Non a caso, lo stesso articolo 3 della direttiva richiama in modo espresso, fra i requisiti minimi necessari del percorso formativo che legittima un professionista ad invocare il regìme di mutuo riconoscimento nell’esercizio delle attività tipiche dell’architetto, “una adeguata conoscenza della storia e delle teorie dell’architettura nonché delle arti, tecnologie e scienze umane ad essa attinenti”, nonché “una conoscenza delle belle arti in quanto fattori che possono influire sulla qualità della concezione architettonica”.
Si tratta, come è evidente (e riguardando la questione secondo l’approccio sostanzialistico proprio dell’ordinamento comunitario, al di là delle distinzioni puramente nominalistiche) di un orientamento normativo in tutto coincidente con quello fatto proprio dalla giurisprudenza di questo Consiglio appena richiamato.
6.2. Concludendo sul punto:
- non è esatto affermare che l’ordinamento comunitario riconosca a tutti gli ingegneri di Paesi UE diversi dall’Italia (con esclusione dei soli ingegneri italiani) l’indiscriminato esercizio delle attività tipiche della professione di architetto (fra cui – ai fini che qui rilevano – le attività afferenti le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico, ovvero relative ad immobili di interesse storico e artistico);
- al contrario, in base alla pertinente normativa UE, l’esercizio di tali attività – in regìme di mutuo riconoscimento - sarà consentito ai soli professionisti i quali (al di là del nomen iuris del titolo professionale posseduto) possano vantare un percorso formativo adeguatamente finalizzato all’esercizio delle attività tipiche della professione di architetto. Come si è visto, l’articolo 3 della direttiva 85/384/CEE include in modo espresso gli studi della storia e delle teorie dell’architettura, nonché delle belle arti e delle scienze umane fra quelli che integrano il bagaglio culturale minimo e necessario perché un professionista possa svolgere in regìme di mutuo riconoscimento le richiamate attività (anche) in relazione ai beni di interesse storico e culturale;
- quindi, anche ad ammettere che un professionista non italiano con il titolo professionale di ingegnere sia legittimato sulla base della normativa del Paese di origine o di provenienza a svolgere attività rientranti fra quelle esercitate abitualmente col titolo professionale di architetto, ciò non è sufficiente a determinare ex seuna discriminazione ‘alla rovescia’ in danno dell’ingegnere civile italiano. Ed infatti, sulla base della direttiva 85/384/CEE, l’esercizio di tali attività sarà possibile (non sulla base del mero possesso del titolo di ingegnere nel Paese di origine o di provenienza, bensì) in quanto tale professionista non italiano avrà seguito un percorso formativo adeguato ai fini dell’esercizio delle attività abitualmente esercitate con il titolo professionale di architetto;
- allo stesso modo, la sussistenza dei richiamati profili di ‘discriminazione alla rovescia’ è da escludere alla luce dell’articolo 11, lettera g) della direttiva 85/384/CEE, cit. Ed infatti, in base a tale disposizione, i soggetti che abbiano conseguito in Italia il diploma di laurea in ingegneria nel settore della costruzione civile rilasciati da Università o da istituti politecnici possono nondimeno esercitare le attività tipiche degli architetti (ivi comprese quelle di cui al più volte richiamato articolo 52) a condizione che abbiano altresì conseguito il diploma di abilitazione all'esercizio indipendente di una professione nel settore dell'architettura, rilasciato dal ministro della Pubblica Istruzione a seguito del superamento dell'esame di Stato che lo abilita all'esercizio indipendente della professione (in tal modo conseguendo il titolo di ‘dott. Ing. architetto’ o di ‘dott. Ing. in ingegneria civile’);
- conclusivamente, non è possibile affermare che il sistema normativo nazionale di parziale riserva in favore degli architetti delle attività previste dall’articolo 52 del R.D. 2537 del 1925 sia idoneo a sortire in danno degli ingegneri italiani l’effetto di ‘discriminazione alla rovescia’ richiamato dalla sentenza del T.A.R. del Veneto n. 3630/2007 e la cui sussistenza in concreto la stessa Corte di giustizia ha demandato alla verifica in sede giudiziale da parte di questo Giudice del rinvio, trattandosi pur sempre – secondo quanto statuito dalla medesima Corte – di controversia nell’ambito della quale vengono pacificamente in rilievo ‘situazioni puramente interne’ (in tal senso: CGCE, sentenza in causa C-111/12, cit. punto 34).
6.3. E il richiamato (e meramente paventato) effetto di ‘reverse discrimination’ quale effetto della previsione di cui all’articolo 52, cit. deve essere escluso sia per quanto riguarda il particolare sistema transitorio e derogatorio di cui agli articoli 10 e 11 della direttiva 85/384/CEE, sia per quanto riguarda il sistema ‘a regime’ di cui all’articolo 7 della medesima direttiva.
6.3.1. Per quanto concerne, infatti, il particolare sistema (transitorio e derogatorio) di cui agli articoli 10 e 11 della direttiva 85/384/CEE, è noto che il primo di tali articoli ha previsto la possibilità per ciascuno degli Stati membri di individuare taluni diplomi, certificati e altri titoli del settore dell’architettura da ammettere sin da subito al regìme di mutuo riconoscimento, anche a prescindere dalla piena rispondenza ai requisiti minimi di formazione di cui all’articolo 3 della medesima direttiva.
Il successivo articolo 11 ha, quindi, individuato per ciascuno degli Stati membri tali diplomi, certificati ed altri titoli da ammettere immediatamente al richiamato regìme di mutuo riconoscimento (per l’Italia, tale regìme di immediata ammissione ha riguardato: a) i diplomi di ‘laurea in architettura’ rilasciati dalle università, dagli istituti politecnici e dagli istituti superiori di architettura di Venezia e di Reggio Calabria, accompagnati dal diploma di abilitazione all'esercizio indipendente della professione di architetto, rilasciato dal ministro della Pubblica Istruzione una volta che il candidato abbia sostenuto con successo, davanti ad un'apposita Commissione, l'esame di Stato che abilita all'esercizio indipendente della professione di architetto (dott. architetto); b) i diplomi di ‘laurea in ingegneria’ nel settore della costruzione civile rilasciati dalle università e dagli istituti politecnici, accompagnati dal diploma di abilitazione all'esercizio indipendente di una professione nel settore dell'architettura, rilasciato dal ministro della Pubblica Istruzione una volta che il candidato abbia sostenuto con successo, davanti ad un'apposita Commissione, l'esame di Stato che lo abilita all'esercizio indipendente della professione (dott. ing. architetto o dott. ing. in ingegneria civile)).
Ebbene, in relazione a tale periodo transitorio, non è dato individuare i paventati profili di ‘discriminazione alla rovescia’ in danno degli ingegneri civili italiani, laddove si consideri:
- che, esaminando gli elenchi delle professioni ammesse dagli altri Stati membri al regìme di immediata applicazione al mutuo riconoscimento, non è dato rinvenire pressoché alcun caso di professioni che, anche dal punto di vista del nomen iuris, si discostino dal tipico ambito della professione di architetto, fino a coincidere con il tipico ambito della professione di ingegnere. Le uniche eccezioni a questa regola sostanzialmente generalizzata sono rappresentate: a) dal caso belga dei diplomi di ‘ingegnere civile-architetto’ e di ‘ingegnere-architetto’ rilasciati dalle facoltà di scienze applicate delle università e dal politecnico di Mons; b) dal caso portoghese del diploma di genio civile (licenciatura em engenharia civil) rilasciato dall'Istituto superiore tecnico dell'Università tecnica di Lisbona; c) dai casi greci dei diplomi di ‘ingegnere-architetto’ rilasciati da alcuni Istituti di formazione e dei diplomi di ‘ingegnere-ingegnere civile’ rilasciati dal Metsovion Polytechnion di Atene (in ambo i casi, peraltro, a condizione che il possesso dei richiamati diplomi si accompagni a un attestato rilasciato dalla Camera tecnica di Grecia e conferente il diritto di esercitare le attività nel settore dell’architettura). Si tratta, però, di eccezioni talmente puntuali e limitate da non poter essere assunte (nella richiamata ottica di carattere sostanzialistico) quali indizi dell’esistenza di un effettivo fenomeno di ‘reverse discrimination’ in danno degli ingegneri civili italiani e in favore di una platea indiscriminata o quanto meno significativa di ingegneri di altri Paesi dell’Unione europea;
- che, paradossalmente, esaminando gli elenchi nazionali di cui al richiamato articolo 11, è proprio il caso italiano dei professionisti in possesso del diploma di ‘laurea in ingegneria’ nel settore della costruzione civile (e nondimeno abilitati per il diritto italiano al’esercizio di una professione indipendente di una professione nel settore dell’architettura) a presentare (al pari dei richiamati casi belgi, portoghesi e greci) possibili profili di vantaggio in favore dei professionisti nazionali, con potenziali effetti distorsivi in danno degli ingegneri di altri Paesi dell’UE la cui normativa nazionale di riferimento non consenta agli ingegneri di conseguire una analoga abilitazione;
- che, in ogni caso, anche a voler ammettere (il che – per le ragioni appena esaminate – non è) che la disciplina transitoria e derogatoria di cui ai richiamati articoli 10 e 11 consenta in talune ipotesi a un limitato numero di ingegneri di alcuni Paesi dell’UE di svolgere in regìme di mutuo riconoscimento (e quindi anche in Italia) talune attività nel settore dell’architettura sui beni di interesse storico e culturale (attività tipicamente sottratte agli ingegneri italiani); ebbene, anche in questo caso, non si individuerebbero ragioni sufficienti per ritenere la sussistenza di un’ipotesi di ‘reverse discrimination’ in danno degli ingegneri italiani, sì da indurre alla generalizzata disapplicazione della previsione di cui all’articolo 52 del R.D. 2537 del 1925. Al riguardo si osserva che non appare metodologicamente corretto assumere quale parametro stabile di valutazione, nell’ambito di un giudizio volto a stabilire se una discriminazione vi sia oppure no, talune situazioni per definizione transitorie ed eccezionali (quali quelle contemplate dagli articoli 10 e 11 della più volte richiamata direttiva del 1985).
E’ evidente al riguardo che, laddove si accedesse alla soluzione qui non condivisa, si perverrebbe alla inammissibile conseguenza per cui le situazioni e i dettami propri di una fase transitoria (assunti quali impropri parametri stabili di comparazione) costituirebbero essi stessi un ostacolo definitivo e insormontabile per la piena entrata a regìme di un sistema di mutuo riconoscimento basato, invece, sull’oggettiva valutazione di un determinato livello quali-quantitativo di formazione propedeutica all’esercizio della professione di architetto.
6.3.2. Per quanto concerne, poi, il sistema – per così dire – ‘a regìme’ delineato dall’articolo 7 della direttiva 85/384/CEE, l’assenza dei richiamati profili di ‘discriminazione alla rovescia’ emerge con tanto maggiore evidenza laddove si consideri:
- che l’iscrizione di una categoria di professionisti nell’ambito degli elenchi nazionali ‘a regime’ di cui all’articolo 7 della direttiva presuppone che il rilascio dei relativi diplomi, certificati o titoli faccia seguito a percorsi formativi i cui contenuti minimi e necessari siano conformi alle previsioni di cui all’articolo 3 della direttiva (e si è detto in precedenza che tali percorsi formativi devono comprendere in via necessaria un’adeguata conoscenza della storia e delle tecniche dell’architettura, nonché delle belle arti e delle scienze umane – ossia, di quel complesso di discipline umanistiche che caratterizzano il bagaglio culturale tipico dell’architetto e il cui possesso giustifica la parziale riserva professionale di cui al più volte richiamato articolo 52 -);
- che, anche ad ammettere che un professionista di Paese dell’UE in possesso del titolo di ingegnere possa essere incluso negli elenchi di cui all’articolo 7, cit. (e sia, quindi, ammesso ad esercitare in Italia le attività tipiche dell’architetto anche in relazione ai beni di interesse storico ed artistico), ciò non costituirà di per sé una discriminazione in danno dell’ingegnere italiano (nei cui confronti l’esercizio di quelle stesse attività resta tipicamente escluso). E infatti, l’inclusione di quella particolare tipologia di ingegnere UE nell’ambito degli elenchi di cui all’articolo 7, cit. dimostrerà ex se che quel professionista ha seguito un percorso formativo idoneo (anche nei campi della storia e delle tecniche dell’architettura, nonché delle belle arti e delle scienze umane) tale da giustificare in modo pieno l’esercizio da parte di quel professionista ingegnere (e al di là delle limitazioni recate dal nomen iuris della qualifica professionale posseduta) delle attività abitualmente esercitate con il titolo professionale di architetto (ivi comprese quindi, ai fini che qui rilevano, le opere di edilizia che presentano rilevante carattere artistico e il ripristino degli edifici di cui alla legge 20 giugno 1909, n, 364).
Anche sotto tale aspetto, quindi, deve essere esclusa la sussistenza della paventata ipotesi di ‘discriminazione alla rovescia’ in danno degli ingegneri civili italiani.
7. Per le ragioni sin qui esposte il ricorso in appello n.
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