Friday 05 December 2014 17:39:51

Giurisprudenza  Uso del Territorio: Urbanistica, Ambiente e Paesaggio

Vincoli: le valutazioni sull'esistenza di un interesse sia archeologico sia storico-artistico, tali da giustificare l'imposizione dei relativi vincoli, sono espressione di un potere nel quale sono presenti sia momenti di discrezionalità tecnica sia momenti propri di discrezionalità amministrativa

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 27.11.2014

Come più volte rilevato dalla Sezione (v. , “ex multis”, Cons. St., sez. VI, 24 maggio 2013, n. 2851 e 6 marzo 2009, n. 1332), “le valutazioni in ordine all'esistenza di un interesse sia archeologico sia storico -artistico, tali da giustificare l'imposizione dei relativi vincoli, sono espressione di un potere nel quale sono presenti sia momenti di discrezionalità tecnica sia momenti propri di discrezionalità amministrativa; tale valutazione è prerogativa esclusiva dell'Amministrazione e può essere sindacata in sede giurisdizionale solo in presenza di profili di incongruità ed illogicità di evidenza tale da far emergere l'inattendibilità della valutazione tecnico -discrezionale compiuta”....Inoltre, il carattere recessivo dell’interesse privato rispetto all’interesse pubblico alla conservazione di significative testimonianze archeologiche era tale da non rendere necessaria una puntuale e specifica comparazione tra il prioritario interesse pubblico e l’interesse del privato, neppure allo scopo di dimostrare che il sacrificio imposto con il vincolo era stato contenuto entro il minimo possibile (sull’oggettiva prevalenza qualitativa dell’esercizio del potere pubblico di tutela di un interesse storico –artistico –archeologico sull’interesse del privato v., “ex plurimis”, Cons. St. , sez. VI, n. 5278 del 2004).Per scaricare la sentenza cliccare su "Accedi al provvedimento".

 

Testo del Provvedimento (Apri il link)

 

 

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

 

sul ricorso numero di registro generale 4989 del 2007, proposto da:

Faba srl, in persona del legale rappresentante “pro tempore”, rappresentata e difesa dagli avvocati Stefano Dall'Argine, Cesare Trebeschi e Ilaria Romagnoli, con domicilio eletto presso quest’ultima in Roma, via Livio Andronico, 24;

 

contro

Ministero per i beni e le attivita' culturali (in seguito anche MIBAC), in persona del Ministro “pro tempore”, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata “ex lege” in Roma, via dei Portoghesi, 12; 

per la riforma

della sentenza del T.A.R. EMILIA -ROMAGNA -SEZIONE STACCATA DI PARMA, n. 427/2006, resa tra le parti, concernente dichiarazione di interesse particolarmente importante di immobili;

 

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del 21 ottobre 2014 il cons. Marco Buricelli e uditi per le parti gli avvocati Romagnoli e Garofoli;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

 

FATTO e DIRITTO

1. Con la sentenza in epigrafe il Tar di Parma ha respinto i ricorsi, riuniti, n. 51 del 1998 e n. 372 del 1999, proposti dalla s.r.l. Faba avverso e per l’annullamento:

-quanto al ricorso n. 51/98, del decreto in data 31 ottobre 1997 con il quale il Ministero dei beni culturali, in base alla proposta in data 5 agosto 1997 del Soprintendente per i beni archeologici di Bologna, aveva dichiarato di interesse (archeologico) particolarmente importante gli immobili di proprietà della società siti in Piacenza, Via Gregorio X, e

-quanto al ricorso n. 372 del 1999, del decreto in data 22 aprile 1999 con il quale il Ministero aveva dichiarato di interesse (archeologico) particolarmente importante un altro immobile, sempre di proprietà della società ricorrente, adiacente ai primi e sito in Piacenza, Via Genocchi, angolo Via Gregorio X.

Il Tar ha rigettato le numerose censure mosse con i ricorsi rilevando, in sintesi, quanto segue.

1.1. Quanto al ricorso n. 51/98, anzitutto, il decreto di vincolo del 1997 non è viziato da motivazione insufficiente e da istruttoria carente, dato che la relazione tecnico -scientifica del 14 luglio 1997 allegata al decreto e che ne costituisce parte integrante evidenzia l’importanza dell’area proprio sulla base dell’importanza e della vastità dei reperti venuti alla luce in occasione di scavi effettuati dalla società ricorrente. Il decreto impugnato risulta adottato in base a concreti ritrovamenti di reperti archeologici e non, come sostiene la società ricorrente, in via astratta sulla base di un’unica fonte bibliografica e senza alcuna verifica “in loco”. A conferma dell’entità e della vastità dei reperti venuti alla luce nell’area depongono anche i fatti che hanno avuto il loro epilogo in sede penale con la condanna del rappresentante legale della società in quanto riconosciuto colpevole del reato di danneggiamento di materiale archeologico per avere, il medesimo e le sue maestranze, continuato le operazioni di scavo nonostante l’emersione di numerosi reperti archeologici e nonostante i ripetuti inviti di un’ispettrice della Soprintendenza presente sul posto a far cessare l’attività delle ruspe. Inoltre il fatto – accertato in sede penale – che numerosi reperti di rilevanti dimensioni quali strutture murarie e pavimentazioni siano andati distrutti o trasportati in discarica assieme al terreno rimosso a causa dell’illecita prosecuzione di detti lavori non può costituire valida argomentazione a supporto della tesi con cui la difesa della ricorrente, nel rilevare l’esiguità e la trascurabile importanza dei reperti non distrutti dalle ruspe, in concreto contesta la stessa sussistenza dell’oggetto del vincolo archeologico.

Il Tar ha proseguito osservando che l’entità e la tipologia dei reperti andati distrutti dimostrano, “a contrario”, che effettivamente l’area riveste la particolare importanza, sotto il profilo archeologico, che l’Amministrazione ha attribuito alla stessa con il decreto impugnato e ciò soprattutto in funzione della concreta possibilità di ulteriori ritrovamenti. La documentata rilevanza dei ritrovamenti giustifica pienamente sia l’individuazione dell’area, che non può essere posta sullo stesso piano di aree viciniori nelle quali però non risultano essere stati rinvenuti reperti archeologici, sia il sacrificio imposto alla proprietà mediante l’adozione del vincolo, con l’interesse del privato correttamente valutato dall’ Amministrazione procedente come recessivo rispetto all’interesse pubblico alla tutela e alla salvaguardia di beni archeologici di particolare importanza.

1.2.Per quanto riguarda il ricorso n. 372/99, proposto contro il secondo decreto, adottato nel 1999, gravante su un’area della ricorrente contigua a quella già soggetta a tutela archeologica, il Tar ha in primo luogo respinto la censura di violazione dell’art. 7 della l. n. 241/90, in relazione alla affermata omessa comunicazione dell’avvio del procedimento alla proprietaria dell’area, rilevando che dagli atti risulta che il legale rappresentante della ricorrente era pienamente a conoscenza del ritrovamento di reperti archeologici nella sua area, dato che l’attività di scavo è stata svolta dalla stessa società previo accordo con la Soprintendenza e con la vigilanza sul posto di personale dell’Amministrazione, il che ben consentiva alla proprietaria dell’area di partecipare alla successiva attività procedimentale dell’amministrazione, con conseguente inutilità dell’invio dell’avviso ex art. 7 cit. . Anche le rimanenti censure, riproposte sulla falsariga dei motivi dedotti contro il precedente decreto, e incentrate in sostanza sui vizi di difetto di motivazione, insufficiente istruttoria, falsa descrizione dei fatti, illogicità manifesta e irragionevolezza, sono state respinte per le ragioni su esposte al p. 1.1. , specificandosi in sentenza che, come si ricava dalla relazione tecnica 6 dicembre 1998 allegata al secondo decreto, la motivazione della decisione dell’Amministrazione s’incentra essenzialmente sulla quantità e sull’importanza dei reperti portati alla luce dagli scavi “sorvegliati” e non su quanto riportato nelle fonti bibliografiche consultate dall’Amministrazione. Di qui la reiezione dei ricorsi riuniti e la condanna della ricorrente alla rifusione delle spese e degli onorari di lite in favore del MIBAC.

3. Con ricorso in appello tempestivamente notificato e depositato la s.r.l. Faba ha contestato statuizioni e argomentazioni del Tar, premettendo che, a differenza di quanto affermato dal Tar in sentenza, il legale rappresentante della società appellante non è stato condannato in sede penale ma risulta invece assolto ex art. 530, comma 2, c.p.p., poiché il fatto non costituisce reato, dalle imputazioni ex articoli 48 e 59 della l. n. 1089/1939 di omessa denuncia del rinvenimento di materiale d’interesse archeologico e di prosecuzione dei lavori mentre, per il reato di danneggiamento, ex art. 635 c. p. , l’A. G. ha dichiarato di non doversi procedere, sicché l’epilogo penale sarebbe opposto a quello su cui il Tar ha fondato la sua decisione. L’appellante ha quindi formulato nove motivi d’appello, sintetizzabili come segue: I) illogicità e contraddittorietà manifesta –falso presupposto di fatto: ciò in quanto il Tar, come si è appena detto, avrebbe fondato la sua decisione su fatti travisati, dato che l’epilogo penale della vicenda è dato dalla sentenza della Corte suprema di Cassazione n. 30052 del 22 maggio 2003 di assoluzione del legale rappresentante della società; II) violazione degli articoli 3 e 7 della l. n. 241/90. Nel contestare il passaggio motivazionale della sentenza con cui si ritiene che la “conoscenza avvenuta sul campo” ben consentisse alla proprietaria dell’area di partecipare alla successiva attività procedimentale della P. A. , l’appellante rimarca che lo scavo era stato sospeso in via autonoma, che la Soprintendenza ne aveva consentito la ripresa e che quindi il privato non aveva consapevolezza di partecipare a un procedimento di imposizione di un vincolo, né aveva il minimo sentore dell’intenzione della P. A. di apporre un secondo vincolo, tra l’altro emesso e notificato a notevole distanza di tempo dal primo e dai fatti. Il secondo vincolo non poteva certo dirsi preannunciato dal vincolo apposto in precedenza; III) difetto dei presupposti, di istruttoria e di motivazione; travisamento dei fatti, illogicità, perplessità e e ingiustizia manifesta. L’appellante lamenta l’assenza di una motivazione specifica dell’atto lesivo, diretta a evitare l’imposizione di un vincolo sproporzionato al pubblico interesse; IV) violazione dell’art. 1 della l. n. 1089/1939 ed eccesso di potere per illogicità manifesta. Si sostiene che un elementare senso critico esigeva una verifica in ordine all’interesse storico –archeologico dell’immobile basata su una fonte diversa dalla bibliografia della stessa Soprintendente autrice dell’atto. Sotto una diversa angolazione, proprio nell’àmbito dello studio effettuato, la stessa Soprintendente aveva ritenuto lo specifico immobile non meritevole di vincolo; V) violazione della l. n. 1089/1939 ed eccesso di potere per contraddittorietà manifesta e falsa descrizione dei fatti. L’appellante ritiene arbitrario parlare nella specie di “interesse particolarmente importante”. In disparte il fatto che un’analisi seria dei resti potrebbe dimostrare trattarsi non di frammenti romani ma, quantomeno in parte, di residui, ottocenteschi o settecenteschi, di demolizioni oggetto di sanatoria, una cosa è un valore “culturale” come il centro storico di Piacenza considerato nel suo insieme, e tutt’altro è far assumere un rilievo “particolarmente importante” a un elemento singolo e secondario che, prima di questa vicenda, non era stato considerato, pur essendo ben conosciuto dalla Soprintendente che, per la “Storia di Piacenza”, aveva schedato l’intera zona; VI) eccesso di potere per difetto di motivazione, irragionevolezza e sproporzione: ciò in quanto il potere di vincolo è stato esercitato senza contemperare il sacrificio imposto al privato con l’interesse pubblico perseguito; VII) eccesso di potere per sviamento e disparità di trattamento. Non si comprende l’imposizione di un vincolo su un bene che in nulla differisce da numerosi altri beni analoghi schedati dalla Soprintendente M. Marini Calvani ma non assoggettati a vincolo. L’appellante chiede in via istruttoria di accertare a quante delle 180 schede topografiche della Soprintendente abbiano fatto seguito decreti di vincolo. Nella specie verrebbe in rilievo una distribuzione arbitraria di vincoli tra beni di identica natura; VIII) eccesso di potere per contraddittorietà manifesta e falsa descrizione dei fatti –sviamento: ciò in quanto, con riferimento al secondo vincolo, non risulta comprovata l’affermata presenza di “pavimentazione in cocciopesto nel quale erano ancora inserite delle tesserine di mosaico”; si tratta comunque di scelta dettata dalla occasionalità di singoli, fortuiti ritrovamenti, non coordinati nel loro insieme; IX) eccesso di potere per difetto di motivazione e irragionevolezza. Premesso che l’imposizione del vincolo presuppone la dimostrata, effettiva esistenza delle cose da tutelare, nella specie non risultano comprovati i ritrovamenti indicati. Risulta invece agli atti la prova contraria della inesistenza dei beni da tutelare. Il giudice penale aveva ritenuto insufficiente la prova della colpevolezza dell’imputato in relazione al reato di omessa denuncia di beni di interesse archeologico, e ciò sul rilievo della presenza di reperti di dimensioni limitate, non interi e misti a terra e che a un occhio non esperto e non attento potevano essere scambiati per normali laterizi. Soprintendenza e Tar non hanno preso in considerazione la relazione tecnica Signorini e il parere “pro veritate” Di Vita.

L’appellante ha concluso chiedendo a questo Consiglio di voler, in riforma della sentenza impugnata, accogliere i ricorsi riuniti e annullare i decreti di vincolo suindicati, con la rifusione delle spese dei due gradi per ambedue i ricorsi.

L’Amministrazione ha svolto una difesa di mera forma.

L’appellante ha depositato memorie insistendo in particolare sul fatto che la sentenza impugnata ha in modo erroneo considerato la sentenza penale di “condanna” quale presupposto di legittimità dei provvedimenti impugnati e per la conseguente infondatezza dei ricorsi, e ribadendo la fondatezza della censura di violazione dell’art. 7 della l. n. 241/1990 e dei restanti motivi d’appello.

All’udienza del 21 ottobre 2014 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

4. L’appello è infondato e va respinto. La sentenza del Tar merita conferma.

Quanto al motivo d’appello sub I) va anzitutto rilevato che, diversamente da ciò che sostiene l’appellante, ossia che la sentenza si fonderebbe sull’ “epilogo in sede penale costituito dalla condanna del rappresentante legale della società” FABA per i reati allo stesso contestati, in realtà la motivazione della decisione impugnata, nella parte in cui vengono respinte le censure di difetto di motivazione e di carenza d’istruttoria mosse dalla ricorrente, s’incentra -in modo condivisibile- in primo luogo, e in maniera preponderante, sulle risultanze dell’istruttoria eseguita dai competenti organi dell’Amministrazione, con particolare riguardo alla relazione tecnico –scientifica del 14 luglio 1997, che forma parte integrante del primo decreto impugnato dinanzi al Tar (ma si vedano anche le relazioni, in atti, dell’arch. C. Cornelio Cassai e della dr. ssa Stevani sui sopralluoghi effettuati il 13.6.1997 e sul rinvenimento di frammenti di età romana e di porzioni di anfore e sugli “sconvolgimenti” provocati dagli scavi) e sui ritrovamenti –a seguito di verifiche “in loco” fatte, appunto, in modo specifico, concreto e circostanziato, e non sulla base di ricognizioni astratte e generali- di pavimentazioni in cocciopesto, anfore, resti di fornace, frammenti di vasellame e altri materiali di età romana, reperti peraltro in gran parte andati dispersi, come si accenna anche in sentenza (v. pag. 9) a causa degli imponenti sbancamenti di terreno effettuati con mezzi meccanici dalla ditta che, all’epoca, stava eseguendo lavori diretti a realizzare autorimesse interrate (v. , “amplius”, fasc. Avv. St. avanti al Tar, con riferimento anche alle segnalazioni Sopr. Marini Calvani 12.8.1997 e 20.10.1997, alla segnalazione dr. ssa C. Mezzadri 28.10.1997 e alla relazione della stessa C. Mezzadri 28.11.1997, in atti; si veda anche la nota Cornelio Cassai 24.12.1997 e la relazione di chiarimenti –riassuntiva- Sopr. Beni Archeologici Emilia –Romagna 30.4.2006, e relativi allegati, depositati in giudizio).

Quanto al richiamo, fatto in sentenza, “a conferma dell’entità e della vastità dei reperti venuti alla luce”, all’epilogo della vicenda in sede penale, per quanto qui più rileva:

-il Pretore di Piacenza, con sentenza in data 19 dicembre 1998, con riferimento alle imputazioni relative alla violazione degli articoli 48, 59 e 68 della l. n. 1089/1939, e 733 cod. pen. , con (ri)qualificazione del fatto mediante inquadramento nella fattispecie di reato di cui all’art. 635 cod. pen. , dichiarò di non doversi procedere nei confronti del geom. Arcelloni poiché l’azione penale non poteva essere iniziata per mancanza di querela;

-l’appello del P. M. venne accolto e, in parziale riforma della sentenza appellata, l’imputato fu giudicato colpevole, dalla Corte d’Appello di Bologna, con sentenza 16 ottobre 2000 -15 febbraio 2001, del reato di cui all’art. 635, comma 1, cod. pen. , e condannato alla pena della multa e al pagamento delle spese processuali, con il beneficio della non menzione, oltre alla condanna a risarcire il danno in favore della parte civile, da liquidarsi in separata sede;

-la Cassazione penale (sent. n. 30052/03) ha annullato senza rinvio la sentenza d’appello, relativamente al reato di cui all’art. 635 cod. pen. , poiché l’azione penale non poteva essere iniziata per difetto di querela.

Ora, se in effetti è vero che non vi è stato un “epilogo in sede penale con la condanna del legale rappresentante della società … per danneggiamento di materiale archeologico”, come si trova scritto in sentenza, è vero anche che, per un verso non si ricade nella fattispecie disciplinata dall’art. 654 c. p. p. e, per altro verso, il dipanarsi degli eventi, con riferimento in particolare all’esecuzione di imponenti lavori di scavo che avevano fatto emergere vaste e rilevanti testimonianze dell’antichità romana e con riguardo alle difficoltà di rinvenimento e di recupero dei reperti archeologici a causa delle resistenze incontrate e della rimozione e dispersione di pavimentazioni in cocciopesto e altri materiali, risulta descritto nella sentenza d’appello (v. da pag. 5 sent.) in termini tali da concorrere ad avvalorare i risultati dell’istruttoria posta a base del decreto impugnato (sullo svilupparsi della vicenda e, in particolare, sul fatto che solo una piccola porzione dell’area era stata risparmiata dallo sbancamento si veda, per tutte, la documentata “relazione riassuntiva” della Soprintendenza del 30 aprile 2006, in atti, avvalorata dalle relazioni di sopralluogo e dalle segnalazioni menzionate sopra, nella quale tra l’altro si parla, icasticamente, di “scavo meccanico eseguito a cucchiaio”, in modo tale da mescolare materiali superficiali con quelli situati in profondità, e viceversa).

La sentenza del Tar (v. pag. 9) ha quindi osservato in modo corretto che “il fatto –accertato in sede penale- che numerosi reperti di rilevanti dimensioni quali strutture murarie e pavimentazioni siano andati distrutti o trasportati in discarica assieme al terreno rimosso a causa della illecita prosecuzione di detti lavori non può, all’evidenza, costituire valida argomentazione a supporto della tesi…con la quale la ricorrente, nel rilevare l’esiguità e la trascurabile importanza dei reperti non distrutti dalle ruspe, in concreto contesta la stessa sussistenza dell’oggetto del vincolo archeologico”.

Né può ritenersi che lo “sconvolgimento e la distruzione di strutture antiche” possa avere attenuato l’interesse culturale: di certo, non l’ha eliminato.

I profili di censura dedotti sub I) sono dunque privi di fondamento e vanno rigettati.

Sul II) motivo, rivolto, come si è anticipato sopra, al p. 3. , contro il capo di sentenza che rigetta la censura imperniata sull’asserita violazione dell’art. 7 della l. n. 241/1990, dev’essere precisato in via preliminare che si tratta di doglianza che va dichiarata in parte inammissibile per violazione del divieto di “nova” in appello ex art. 104 c. p. a. , dal momento che essa riguarda ambedue i decreti impugnati in primo grado (i quali “dovevano esser preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento” –v. pag. 10 ric. app.), quando in realtà soltanto nel ricorso n. 372/1999 era stata proposta la relativa censura procedimentale, censura che non era invece contenuta nel ric. n. 51/1998.

Ciò posto il Collegio, per esigenze legate all’effettività della tutela giurisdizionale amministrativa, e tenuto conto anche della dequotazione dei vizi formali e procedimentali del procedimento amministrativo, non incidenti sul contenuto sostanziale del provvedimento finale, ritiene di prendere in esame la censura sub II), riferita alla statuizione del Tar sul secondo ricorso, “in finem”, dopo avere vagliato in via logicamente prioritaria i motivi di natura sostanziale formulati da III) a IX).

I motivi sub III) e VI) vanno accorpati ed esaminati in maniera congiunta dato che attengono a profili di censura simili tra loro attinenti, specialmente, alla rilevata sproporzione tra vincolo imposto e pubblico interesse.

Entrambi i motivi sono infondati e vanno respinti.

In via preliminare e in termini generali è utile premettere che, come più volte rilevato dalla Sezione (v. , “ex multis”, Cons. St., sez. VI, 24 maggio 2013, n. 2851 e 6 marzo 2009, n. 1332), “le valutazioni in ordine all'esistenza di un interesse sia archeologico sia storico -artistico, tali da giustificare l'imposizione dei relativi vincoli, sono espressione di un potere nel quale sono presenti sia momenti di discrezionalità tecnica sia momenti propri di discrezionalità amministrativa; tale valutazione è prerogativa esclusiva dell'Amministrazione e può essere sindacata in sede giurisdizionale solo in presenza di profili di incongruità ed illogicità di evidenza tale da far emergere l'inattendibilità della valutazione tecnico -discrezionale compiuta”.

Guardando più da vicino la fattispecie in esame, non è la collocazione dell’immobile in questione all’interno della c. d. “insula Placentiae” ad avere di per sé indotto l’Amministrazione a ricorrere a una sorta di valutazione presuntiva in ordine all’esistenza di un interesse archeologico particolarmente importante riferito all’area, precisamente delimitata, per cui è causa.

In realtà, come si è visto sopra, alla luce della documentazione prodotta, l’importanza del valore culturale dell’immobile in parola è stata apprezzata dall’Amministrazione in modo specifico, concreto e tutt’altro che inattendibile, irragionevole o arbitrario, il che vale a superare anche il V motivo, e a esimere il Collegio dal confutare le argomentazioni addotte nelle relazioni tecniche dell’appellante.

Né, inoltre, considerando, da un lato, l’ampia discrezionalità di cui dispone l’Amministrazione in materia e, dall’altro, il fatto che il rilevante interesse archeologico rende recessivo l’interesse del privato rispetto a quello pubblicistico, rivolto alla tutela di beni comunque riferibili al patrimonio della collettività, emerge alcuna violazione di criteri di proporzionalità.

Inoltre, il carattere recessivo dell’interesse privato rispetto all’interesse pubblico alla conservazione di significative testimonianze archeologiche era tale da non rendere necessaria una puntuale e specifica comparazione tra il prioritario interesse pubblico e l’interesse del privato, neppure allo scopo di dimostrare che il sacrificio imposto con il vincolo era stato contenuto entro il minimo possibile (sull’oggettiva prevalenza qualitativa dell’esercizio del potere pubblico di tutela di un interesse storico –artistico –archeologico sull’interesse del privato v., “ex plurimis”, Cons. St. , sez. VI, n. 5278 del 2004).

Appare infine opportuno soggiungere, in punto di sindacato sulla proporzionalità, che anche il dimensionamento dell’area inserita nel decreto impugnato risulta coerente con l’entità dei ritrovamenti effettuati, in relazione a quanto rimasto in seguito agli scavi eseguiti e alla terra, mista a frammenti archeologici, asportata.

L’illogicità e la contraddittorietà rilevate con il IV motivo non sussistono poiché, al di là degli studi eseguiti dalla Soprintendente sulla zona nel suo insieme, le aree in questione non risultano avere formato oggetto, in precedenza, di richieste formali di adozione di provvedimento di vincolo, o comunque di una motivata valutazione, da parte dell’Amministrazione, nel senso della sussistenza, o dell’insussistenza, di un interesse archeologico, o storico, particolarmente importante.

Detto altrimenti, indipendentemente dalla schedatura topografica di numerosi immobili nella zona, predisposta dalla Soprintendente Marini Calvani a mero scopo di ricognizione, non risultano emanati atti che abbiano in modo esplicito e formale escluso –o ritenuto sussistente- il particolare valore archeologico delle aree in esame, e il silenzio serbato dall’Amministrazione in passato sul bene non può essere qualificato come un implicito apprezzamento sfavorevole circa l’esistenza di un interesse particolarmente importante riferito al bene stesso sotto l’aspetto archeologico.

In ogni caso, diversamente da quanto sostiene l’appellante nell’ultima parte del IV motivo, l’eventuale ritardo con cui l’Amministrazione prende coscienza della particolare importanza culturale di un bene non ne rende per ciò solo illogica la corrispondente dichiarazione che, pure, sarebbe potuta intervenire prima.

La disparità di trattamento denunciata col VII motivo non può avere ingresso.

In disparte infatti i rilievi per cui a) il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento può essere apprezzato in modo favorevole solo nel caso di situazioni di fatto identiche quando, invece, l’attività della Soprintendenza in materia è caratterizzata da ampia discrezionalità e da un elevato grado di opinabilità, e b) appare quindi assai problematico fondare disparità di trattamento su situazioni in cui ciascuna area ha, verosimilmente, caratteristiche sue proprie; a parte ciò, risulta comunque non appropriato individuare, quale parametro di comparazione, una schedatura topografica che altro non è se non una mera attività di ricognizione fotografica dello stato dei luoghi e di acquisizione in via preliminare di dati informativi e documentali essenzialmente a scopo di analisi e studio, da impiegare, ove del caso, nel corso di un procedimento di dichiarazione di interesse particolarmente importante.

Va soggiunto che, in ogni caso, un eventuale riconoscimento di priorità cronologica alla “posizione” dell’area di proprietà FABA, in quanto collegata agli “avvenimenti” del giugno 1997, che hanno evidenziato l’urgenza di un intervento pubblico a fronte del mutamento dello stato dei luoghi operato dalla ricorrente mediante considerevoli sbancamenti, non avrebbe potuto ritenersi di per sé discriminatorio o comunque illegittimo.

Per le ragioni su esposto si ritiene di non poter accogliere l’istanza istruttoria (ri)proposta dall’appellante.

Per confutare l’VIII motivo, riferito, a quanto consta, al secondo decreto di vincolo, appare sufficiente osservare che anche un semplice insieme di frammenti può costituire una significativa testimonianza archeologica, qualora da essi possano trarsi informazioni utili per la ricostruzione di insediamenti di epoca antica.

Per respingere il IX motivo basta richiamare, sintetizzandole, le considerazioni esposte sopra: alla stregua dell’ampia discrezionalità tecnico –valutativa attribuita in materia all’Amministrazione, la quale implica un apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità salvo che gli atti della P. A. siano inficiati da profili di eccesso di potere per palese travisamento dei fatti, abnorme illogicità o manifesta irrazionalità, nella specie insussistenti, si deve ritenere che i decreti impugnati siano stati adottati sulla base di un’istruttoria congrua –oltre che incentrata su fatti non travisati- e fondata su una corretta ricognizione della situazione. La motivazione che sostiene i decreti dà conto in maniera adeguata delle ragioni in base alle quali l'Amministrazione ha qualificato gli immobili “de quibus” come di interesse particolarmente importante.

Per quanto attiene infine alla violazione dell’art. 7 della l. n. 241/1990, dedotta sub II) in ordine all’asserita genericità e comunque insufficienza della “conoscenza avvenuta sul campo” dell’attività della Soprintendenza al fine di poter considerare osservata la regola dell’obbligo di preventivo avviso di avvio del procedimento (esclusivamente con riferimento al secondo decreto, quello del 1999), è vero che, in termini generali, l'obbligo di comunicare l'avvio del procedimento, imposto all'amministrazione dall'art. 7 della l. n. 241 del 1990, sussiste anche con riguardo ai procedimenti finalizzati all'imposizione di vincoli storico –artistici (e archeologici) ai sensi della l. n. 1089 del 1939 (v. adesso il d. lgs. n. 42/2004) e, quindi, anche per la dichiarazione di particolare importanza, pena l'illegittimità della stessa in mancanza dell’avviso suddetto (v. , di recente, CGA Reg. Sic. n. 613/2012).

Va tuttavia rammentato che, per giurisprudenza pacifica, la regola di cui all’art. 7 della l. n. 241/1990 non va applicata meccanicamente e formalisticamente, ma secondo criteri “sostanzialistici”.

In questa prospettiva, dalla documentazione in atti si ricava che dopo i fatti del giugno 1997 il legale rappresentante della FABA, dovendo eseguire scavi in un’area, contigua, sita in Via Genocchi –angolo Via Gregorio X, chiese e ottenne l’autorizzazione a poter realizzare i lavori in modo “sorvegliato”, vale a dire assoggettandosi alla vigilanza dell’Amministrazione preposta alla tutela archeologica dell’area, con la conseguente possibilità di interloquire con la stessa P. A. .

Poiché risulta che la Soprintendenza si è attivata con la proprietà per coinvolgerla nel procedimento, il motivo potrebbe essere per ciò solo respinto.

In ogni caso, indipendentemente da ogni altra considerazione trova applicazione l’art. 21 octies, comma 2, seconda parte, della l. n. 241/1990.

Dall’analisi del decreto impugnato nel 1999 e della documentazione prodotta in giudizio, e dalle considerazioni su esposte relativamente ai motivi d’appello “di carattere sostanziale” addotti e respinti dal collegio emerge infatti che, anche in presenza di una comunicazione formale di avvio del procedimento conclusosi con il decreto contestato avanti al Tar nel 1999, l’iniziativa della Soprintendenza, diretta alla dichiarazione d’interesse particolarmente importante dell’immobile di Via Genocchi –angolo Via Gregorio X non sarebbe pervenuta a un esito diverso da quello negativo per il privato.

Ciò posto, e tenuto conto, come si è detto sopra, del principio della “dequotazione” dei vizi formali del procedimento non incidenti sul contenuto sostanziale del provvedimento finale, principio recepito dall’art. 21 octies, comma 2, della l. n. 241/1990, inserito dall’art. 14, comma 1, della l. n. 15/2005 -norma di carattere processuale immediatamente applicabile, non solo in relazione ai provvedimenti amministrativi emessi dopo l’8 marzo 2005, data di entrata in vigore della l. n. 15/2005, ma anche in relazione ai provvedimenti adottati prima di tale data, per i quali già pendeva, al momento della entrata in vigore della legge, il giudizio d’impugnazione-, va escluso che la violazione della regola procedimentale suindicata possa assurgere a vizio idoneo ad annullare il decreto impugnato.

In conclusione, l’appello dev’essere respinto e, per l’effetto, la sentenza impugnata va confermata.

Nelle sopra evidenziate peculiarità, specie in fatto, della controversia, e nella difesa di mera forma svolta dall’Avvocatura generale dello Stato, il collegio ravvisa, in base al combinato disposto di cui agli articoli 26, comma 1, c. p. a. e 92, comma 2, c. p. c. , eccezionali ragioni per l’integrale compensazione delle spese del grado di giudizio tra le parti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge confermando, per l'effetto, la sentenza impugnata.

Spese del grado di giudizio compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 21 ottobre 2014 con l'intervento dei magistrati:

 

 

Filippo Patroni Griffi, Presidente

Maurizio Meschino, Consigliere

Carlo Mosca, Consigliere

Vincenzo Lopilato, Consigliere

Marco Buricelli, Consigliere, Estensore

 

 

 

 

     
     
L'ESTENSORE   IL PRESIDENTE
     
     
     
     
     

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 27/11/2014

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)



 

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