Monday 13 April 2015 23:02:32

Giurisprudenza  Procedimento Amministrativo e Riforme Istituzionali

Il giudice amministrativo, non può ex officio limitarsi a condannare l’amministrazione al risarcimento dei danni conseguenti agli atti risultati illegittimi senza procedere al richiesto annullamento, anche se è trascorso un lungo tempo dalla loro adozione

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato del 13.4.2015

La questione sottoposta alla Adunanza Plenaria riguarda la possibilità o meno per il giudice amministrativo – in base ai principi fondanti la giustizia amministrativa ovvero in applicazione dell’art. 34, comma 3, c.p.a. – di non disporre l’annullamento della graduatoria di un concorso, risultata illegittima per un vizio non imputabile ad alcun candidato, e disporre che al ricorrente spetti un risarcimento del danno (malgrado questi abbia chiesto soltanto l’annullamento degli atti risultati illegittimi), quando la pronuncia giurisdizionale – in materia di concorsi per la instaurazione di rapporti di lavoro dipendente – sopraggiunga a distanza di moltissimi anni dalla approvazione della graduatoria e dalla nomina dei vincitori (circa quindici anni sono trascorsi dalla assunzione in servizio dei vincitori incolpevoli e la rilevazione dei vizi, con la pronuncia di remissione), e cioè quando questi abbiano consolidato le scelte di vita e l’annullamento comporti un impatto devastante sulla vita loro e delle loro famiglie. In particolare, l’ordinanza di remissione ritiene che, pur avendo la parte formalmente impugnato gli atti della procedura concorsuale chiedendone l’annullamento, l’adito giudice amministrativo potrebbe, basandosi su una valutazione di tutte le circostanze, mutando d’ufficio la domanda, disporre unicamente il risarcimento del danno, senza il previo annullamento degli atti illegittimi; in tal senso varrebbero i principi di giustizia richiamati dalla sentenza del Consiglio di Stato sezione sesta n. 2755 del 2011 che, pure in controversia in materia ambientale e in applicazione di principi del diritto europeo, ha statuito il potere del giudice amministrativo di non disporre l’annullamento dell’atto illegittimo, quando nessun vantaggio arrechi al ricorrente né ne derivi alcun beneficio agli interessi pubblici; in tale senso varrebbero anche i principi di proporzionalità, equità e giustizia, che debbono permeare anche la giustizia amministrativa, oltre che l’attività della pubblica amministrazione. L’ordinanza di rimessione aggiunge che, se l’appellante avesse formulato espressa domanda di risarcimento derivante dalla illegittimità della procedura concorsuale conclusasi nell’anno 1999, il giudizio avrebbe potuto concludersi con l’accoglimento della domanda risarcitoria, senza necessità di provvedere all’annullamento degli atti impugnati, potendo il giudice “modulare” la tutela, in considerazione del danno sociale che deriverebbe da un eventuale annullamento. E’ vero, osserva l’ordinanza di rimessione, che il lungo tempo trascorso non costituisce in sé una giusta ragione per non disporre l’annullamento; tuttavia, ciò sarebbe possibile su questioni che riguardano le persone fisiche e le loro attività lavorative (si direbbe l’esistenza libera e dignitosa di cui all’art. 36 Cost.), valutando che l’annullamento, mentre sottrarrebbe un bene della vita essenziale ad uno o più controinteressati incolpevoli, neppure attribuirebbe al ricorrente se non una chance o una mera possibilità di rinnovazione procedimentale. A tal fine menziona giurisprudenza che legge il comma 3 dell’art. 34 del cod. proc. amm. – che prevede che “quando nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse a fini risarcitori” – nel senso che non debba esservi una espressa richiesta dell’interessato (così Cons. Stato, V, 12 maggio 2011, n.2817) perché vi è sempre un quid di accertamento, perché il più comprende il meno, perché la norma utilizza una espressione vincolante e quindi la sussistenza dell’interesse può essere compiuta d’ufficio anche in assenza di domanda, a fronte di contrari precedenti (così Cons. Stato, V, 14 dicembre 2011, n.6539 e 6 dicembre 2010, n.8550) secondo i quali incombe sempre sulla parte istante l’onere di allegare i presupposti per la successiva azione risarcitoria (così, Cons. Stato, V, 28 dicembre 2012, n.6703) e quindi di proporre espressamente, se pure non formalisticamente ma in sostanza, la domanda di accertamento dell’illegittimità o di manifestare un interesse al solo accertamento, a successivi fini risarcitori. L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza del 13.4.2015 ha evidenziato quanto segue: "L’Adunanza plenaria ritiene che la tesi contenuta nell’ordinanza di rimessione non può essere condivisa e ciò: a) sulla base del principio della domanda, che regola anche il processo amministrativo; b) sulla base della natura della giustizia amministrativa quale giurisdizione soggettiva, pur con talune peculiarità - di stretta interpretazione - di tipo oggettivo; c) per la non mutabilità ex officio del giudizio di annullamento una volta azionato; d) per la non pertinenza degli argomenti e dei precedenti richiamati. 3.Con riguardo agli argomenti testuali, vale quanto previsto dal codice del processo amministrativo e, in virtù del rinvio esterno ai sensi dell’art. 39 cod. proc. amm., anche quanto prevede il codice di procedura civile. L’articolo 29 c.p.a., proseguendo nella tradizione delle precedenti leggi processuali (T.U. Consiglio di Stato e legge TAR), dispone che la sanzione per i vizi di violazione di legge, eccesso di potere ed incompetenza sia l’annullamento ad opera del giudice, la cui azione deve proporsi nel termine di sessanta giorni. L’illegittimità determina l’annullabilità (in potenza); l’azione di annullamento determina, su pronuncia del giudice, l’annullamento (in atto) degli atti impugnati. In caso di accoglimento del ricorso di annullamento (art. 34, comma 1, c.p.a. lettera a) il giudice quindi annulla (necessariamente) in tutto o in parte il provvedimento impugnato. A sua volta l’art. 34 esprime il principio dispositivo del processo amministrativo in relazione all’ambito della domanda di parte; si tratta, nel caso della giurisdizione amministrativa di legittimità, come noto, di una giurisdizione di tipo soggettivo, sia pure con aperture parziali alla giurisdizione di tipo oggettivo (ma che si manifestano in precisi, limitati ambiti come, per esempio, nella estensione della legittimazione ovvero nella valutazione sostitutiva dell’interesse pubblico in sede di giudizio di ottemperanza o in sede cautelare, ovvero ancora nella esistenza di regole speciali, quali quelle contenute negli artt. 121 e 122 c.p.a., che, riguardo alle controversie in materia di contratti pubblici, consentono al giudice di modulare gli effetti della inefficacia del contratto). Del resto la regola secondo la quale nel processo amministrativo debba darsi al ricorrente vittorioso tutto quello e soltanto quello che abbia chiesto ed a cui abbia titolo, è stata ribadita dalle pronunce di questa stessa Adunanza plenaria n. 4 del 7 aprile 2011 e n. 30 del 26 luglio 2012. 4. Ora, proprio in virtù di detto principio della domanda. non può ammettersi che in presenza di un atto illegittimo (causa petendi) per il quale sia stata proposta una domanda demolitoria (petitum), potrebbe non conseguirne l’effetto distruttivo dell’atto per valutazione o iniziativa ex officio del giudice. L’azione di annullamento si distingue, infatti, dalla domanda di risarcimento per gli elementi della domanda, in quanto nella prima la causa petendi è l’illegittimità, mentre nella seconda è l’illiceità del fatto; il petitum nella prima azione è l’annullamento degli atti o provvedimenti impugnati, mentre nella seconda è la condanna al risarcimento in forma generica o specifica. Inoltre il risarcimento è disposto su “ordine” del giudice ed è diretto a restaurare la legalità violata dell’ordinamento, costituendo una situazione quanto più possibile pari o equivalente (monetariamente) o il più possibile identica a quella che ci sarebbe stata in assenza del fatto illecito; l’annullamento invece è una restaurazione dell’ordine violato “ad opera” del giudice. Al massimo, il giudice può non già “modulare” la forma di tutela sostituendola a quella richiesta, ma determinare, in relazione ai motivi sollevati e riscontrati e all’interesse del ricorrente, la portata dell’annullamento, con formule ben note alla prassi giurisprudenziale, come l’annullamento parziale, <> o <>, oppure <> e così via. Se poi la domanda di annullamento, con il suo effetto tipico di eliminazione dell’atto impugnato dal mondo giuridico non dovesse soddisfare l’interesse del ricorrente e anzi dovesse lederlo (in realtà l’ordinanza di rimessione riconosce che non si verte in tale ipotesi), la pronuncia del giudice non potrebbe che essere di accertamento, ma nell’altro senso, cioè della sopravvenuta carenza di interesse del ricorrente che aveva proposto domanda di annullamento. Cosa diversa dall’accertamento del sopravvenuto difetto di interesse è, come proporrebbe invece l’ordinanza di rimessione, che sia il giudice ex officio a preferire la forma di tutela, facendo recedere l’interesse, a suo dire, indebolito del ricorrente, sulla base di altre valutazioni di interessi (gli interessi dei controinteressati, l’interesse pubblico, il tempo, l’opportunità e così via). E’ vero che la pronuncia di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse è basata sull’accertamento della esistenza delle condizioni per l’adozione della decisione giurisdizionale domandata dal ricorrente a tutela di una concreta situazione giuridica di vantaggio, accertamento che deve essere compiuto dal giudice, anche di ufficio, in ogni stato e grado del giudizio (tra varie, Cons. Stato, IV, 22 marzo 2007, n.1407). Non è però consentito al giudice, in presenza della acclarata, obiettiva esistenza dell’interesse all’annullamento richiesto, derogare, sulla base di invocate ragioni di opportunità, giustizia, equità, proporzionalità, al principio della domanda (si tratterebbe di una omessa pronuncia, di una violazione della domanda previsto dall’art. 99 c.p.c. e del principio della corrispondenza previsto dall’art. 112 c.p.c. tra chiesto e pronunciato secondo cui “il giudice deve pronunciare su tutta ladomanda e non oltre i limiti di essa”, applicabili ai sensi del rinvio esterno di cui all’art. 39 cod. proc. amm. anche al processo amministrativo) e trasformarne il petitum o la causa petendi, incorrendo altrimenti nel vizio di extrapetizione. Non può neppure valere il richiamo, contenuto nell’ordinanza di rimessione, al c.d. principio di continenza, in quanto, se è vero che l’accertamento è compreso nell’annullamento (il più comprende il meno), l’accertamento a fini risarcitori è qualcosa di più o comunque di diverso dalla domanda di annullamento. 5. Nella specie ad opinione del Collegio deve ritenersi persistente tale interesse all’annullamento, nella forma di interesse strumentale (su tale nozione Ad. Pl. n. 11 del 10 novembre 2008) ad ottenere la rinnovazione della procedura concorsuale, sia perché tale persistenza è stata manifestamente ribadita nella memoria del gennaio 2014 dell’appellante e in sede di discussione orale, sia perché, in esito del motivo di appello ritenuto fondato e per incidenza degli effetti del suo accoglimento sull’intero procedimento, per la ritenuta esigenza di predeterminazione dei criteri di valutazione degli esami, non può non procedersi alla rinnovazione dell’attività viziata (contemperando con il principio dell’utile per inutile non vitiatur). Non rileva, a tal fine, il tempo trascorso. Infatti la durata occorrente per il giudizio, a maggior ragione quando essa sia prolungata e inaccettabile nelle sue dimensioni, non può andare a danno del ricorrente che ha ragione e pregiudicargli la sua pretesa, se non a costo di infliggergli un doppio danno (sul principio del diritto al giusto processo in tempi ragionevoli, si veda l’art. 6 CEDU e, in campo nazionale, la legge c.d. Pinto n. 89 del 24 marzo 2001, sulla durata ragionevole dei giudizi). Non rileva, d’altro canto, neppure l’utilità più o meno ampia, che l’appellante possa ricevere da un eventuale annullamento, né possono avere rilievo le ragioni di inopportunità, in tale sede e fase, per i disagi causati ai controinteressati incolpevoli o la valutazione preminente dell’interesse pubblico, il quale coincide, in tale momento, con l’annullamento degli atti illegittimi impugnati. 6. In sede di giurisdizione generale di legittimità e in caso di azione di annullamento, non appare utile il richiamo operato dall’ordinanza di rimessione ai poteri di cui all’art. 21 nonies L.241 del 1990, attenendo essi specificamente (ed esclusivamente, stante la loro natura eccezionale) all’attività amministrativa propriamente detta; così come non appare utile il richiamo alle disposizioni in materia di appalti (artt. 121 e 122 c.p.a.), in cui viene riconosciuta la possibilità al giudice di disporre un rimedio piuttosto che un altro, sulla base della inefficacia, con un potere valutativo che tenga conto del tempo trascorso, della effettiva possibilità di subentrare, delle situazioni contrapposte, dei vizi riscontrati, dello stato di esecuzione del contratto e così via: trattasi, infatti, di fattispecie esclusive la cui disciplina non è estensibile in via analogica né tanto meno può essere assunta come espressiva di principi generali. 7. Non sono d’altra parte di ausilio alla soluzione prospettata dall’ordinanza di rimessione i precedenti giurisprudenziali da essa menzionati. Quanto alla sentenza della VI Sezione n. 2755 del 2011, essa ha riconosciuto la potestà del giudice amministrativo, in presenza di determinati presupposti attinenti all’interesse del ricorrente, di fissare una determinata posteriore decorrenza degli effetti della pronuncia di annullamento. Si tratta, dunque, di una questione ben diversa da quella posta nella presente fattispecie, nella quale, come si è più volte rimarcato, si controverte sulla possibilità per il giudice di sostituire integralmente ex officio la domanda proposta in giudizio. Ugualmente non convincente è il richiamo alle sentenze che fanno riferimento alla possibilità che il giudice, di ufficio, ritenga che sussista un interesse al mero accertamento. Al di là della considerazione che tale potere di ufficio di accertare l’illegittimità a soli fini risarcitori non è del tutto pacifico (l’ordinanza di rimessione cita anche giurisprudenza più rigorosa sul punto), esso va necessariamente coniugato, se viene spiegata azione risarcitoria in quella sede (anche se in vero, essa potrebbe solo essere annunciata e proposta in sede successiva), con il principio dispositivo in ordine alla proposizione della domanda di risarcimento, sicchè la parte attrice deve sempre provarne gli elementi costitutivi (artt. 2043 e 2697 cod civ.). Soprattutto, le pronunce richiamate riguardano una fattispecie ben diversa dalla invocata possibilità del giudice di modificare la domanda. Esse ritengono che ope iudicis si possa accertare l’illegittimità di un atto impugnato anche quando la parte, che non ha più interesse all’annullamento, non lo chieda espressamente. Tali pronunce si riferiscono alla situazione in cui, accertata in modo incontestabile, per mutamenti di fatto o di diritto la sopravvenuta carenza di interesse, si debba decidere se, per la pronuncia di mero accertamento, sia necessaria oppure no una apposita istanza della parte. Tali pronunce, come visto, tuttavia non incidono né sulla esigenza di previamente accertare se tale interesse a ricorrere o bisogno di tutela giurisdizionale (Rechtsschutzbedürfnis) continui a persistere anche dopo molto tempo, né sul potere, tipico del processo dispositivo, della parte di decidere, essa soltanto, e non il giudice di ufficio, se proseguire nella richiesta di annullamento di atti illegittimi sia pure a distanza di tempo, vantando ancora un meritevole bene della vita. 8. La modificazione degli effetti della domanda di annullamento non può essere neanche giustificata con il richiamo alla disciplina del processo dinanzi alla Corte di Giustizia (l’art. 264 del Trattato). L’art. 1 del c.p.a. afferma che la “giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della costituzione e del diritto europeo”, ma ciò avviene sulla base della specifica disciplina del processo amministrativo, non necessariamente dandosi applicazione alle regole processuali comunitarie. Non si tratterebbe qui di recepire principi del diritto comunitario sostanziale o processuale (la proporzionalità, l’affidamento, il mutuo riconoscimento, il giusto processo, il contraddittorio etc.), ma di applicare una disposizione dettata per il giudizio europeo al giudizio (di tutt’altra natura) nazionale. La problematica della limitazione degli effetti dell’annullamento, sorta e applicata in via eccezionale in quella sede soprattutto per i regolamenti, non è sufficiente a portare ad un parallelo con la giustizia amministrativa italiana, trattandosi di modelli giurisdizionali del tutto differenti (basti pensare alla serie di atti scrutinati dalla Corte di Giustizia, che possono essere atti del Parlamento piuttosto che della Commissione europea, della BCE, del Consiglio). Per completezza, si osserva che tale problematica, a prescindere dalle regole codicistiche, è stata affrontata in quel sistema dal Conseil d’Etat francese (Conseil d’Etat, 11 maggio 2004, Association AC), che ha fatto riferimento alle conseguenze manifestamente eccessive, ma limitando il potere officioso del giudice in casi del tutto eccezionali “à titre exceptionnel” e solo nei casi di atti di tale importanza da mettere in crisi il sistema di un settore dell’ordinamento, quindi tenendo conto degli effetti della “securité juridique”. 9. Ai sensi dell’art. 99, comma 4 c.p.a., l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, investita della questione sopra esposta, in omaggio al principio di economia processuale e per esigenze di celerità, di regola decide la controversia anche nel merito, salva la presenza di ulteriori esigenze istruttorie, nel caso di specie insussistenti (così Consiglio di Stato, ad. Plen. 13 giugno 2012, n.22). D’altra parte, la questione sollevata dalla Sezione remittente di eventualmente non annullare per le ragioni sopra esposte, pur non rappresentata alla udienza precedente alle parti ai sensi dell’art. 73 comma 3, ove ritenuta questione “rilevata d’ufficio” perché riguardante gli eventuali poteri officiosi del giudice, è stata compiutamente rappresentata con la ordinanza di deferimento e quindi adeguatamente trattata dalle varie parti in sede di discussione dinanzi a questa Adunanza Plenaria. Avendo la Sezione rimettente già accertato l’illegittimità degli atti impugnati pronunciandosi con sentenza parziale ai sensi dell’art. 36 secondo comma cod. proc. amm., sia respingendo il primo motivo sia esprimendosi anche sulla seconda “questione” (il motivo della violazione della regola della previa determinazione dei criteri delle prove), non può che concludersi nel senso dell’accoglimento dell’appello e, in conseguenza, in riforma dell’appellata sentenza, per l’accoglimento del ricorso originario e l’annullamento degli atti impugnati ai sensi e nei limiti di cui in motivazione. Ritenendo pertanto di decidere nel merito la controversia sottoposta all’esame, sulla base delle sopra esposte considerazioni, va accolto l’appello proposto dall’appellante e, in riforma della sentenza appellata, va accolto il ricorso originario, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, con la enunciazione del seguente principio di diritto: “Sulla base del principio della domanda che regola il processo amministrativo, il giudice amministrativo, ritenuta la fondatezza del ricorso, non può ex officio limitarsi a condannare l’amministrazione al risarcimento dei danni conseguenti agli atti illegittimi impugnati anziché procedere al loro annullamento, che abbia formato oggetto della domanda dell’istante ed in ordine al quale persista il suo interesse, ancorché la pronuncia possa recare gravi pregiudizi ai controinteressati, anche per il lungo tempo trascorso dall’adozione degli atti, e ad essa debba seguire il mero rinnovo, in tutto o in parte, della procedura esperita”.

 

Testo del Provvedimento (Apri il link)

 

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2 di A.P. del 2015, proposto da: 
Giammaria Lorella, rappresentata e difesa dagli avv. Vincenzo Camerini, Adriano Rossi, con domicilio eletto presso Adriano Rossi in Roma, viale delle Milizie 1; 

contro


Comune de L'Aquila, rappresentato e difeso dall'avv. Domenico De Nardis, con domicilio eletto presso Annalisa Pace in Roma, Via Tremiti 10; 

nei confronti di

Sico Elena, rappresentata e difesa dall'avv. Roberto Colagrande, con domicilio eletto presso Studio Scoca in Roma, Via Paisiello N. 55; D'Orazi Sabrina Anna; Costanzi Paolo, rappresentato e difeso dall'avv. Roberto Colagrande, con domicilio eletto presso Franco Gaetano Scoca in Roma, Via G.Paisiello, 55; 

per la riforma

della sentenza del T.A.R. ABRUZZO - L'AQUILA n. 00069/2002, resa tra le parti e concernente un concorso per titoli ed esami a tre posti di funzionario tecnico di ragioneria;

 

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune de L’Aquila e dei sigg.ri Sico Elena e Costanzi Paolo;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Vista l’ordinanza di deferimento all’Adunanza Plenaria;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 25 marzo 2015 il Cons. Sergio De Felice e uditi per le parti gli avvocati Anna Rossi per delega di Adriano Rossi, e Francesco Vetro' per delega di Roberto Colagrande;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

 

FATTO

Con ordinanza di remissione alla Adunanza Plenaria n. 284 del 2015 la Sezione remittente rappresentava quanto segue.

La dottoressa Lorella Giammaria, attuale appellante, partecipava a concorso pubblico per titoli ed esami avente ad oggetto la copertura di tre posti di funzionario tecnico di ragioneria (all’epoca VIII qualifica funzionale, ai sensi del d.P.R. 25 giugno 1983 n.347), dei quali uno riservato al personale interno, indetto dal Comune de L’Aquila, con deliberazione della Giunta Comunale n.1363 del 26 agosto 1997.

Nel bando di concorso era previsto, tra le altre cose, all’art. 6 il programma di esami, stabilendo che sarebbero state svolte due prove scritte, una in materia di legislazione amministrativa e tributaria concernente gli enti locali, e la seconda in materia di diritto amministrativo e tributario con particolare riferimento agli enti locali.

In relazione alla nomina della commissione esaminatrice, l’art. 8 del bando rinviava alla normativa vigente; l’art. 9 del bando precisava che avrebbero conseguito l’ammissione al colloquio orale i candidati che avessero riportato in ciascuna prova scritta la valutazione di almeno 7/10.

Con nota del 28 aprile 1999 del presidente della commissione esaminatrice, la signora Giammaria veniva informata di avere ottenuto il punteggio di 4/10 per il suo elaborato relativo alla prima prova scritta e di 6/10 per l’elaborato relativo alla seconda prova scritta e quindi di non essere stata ammessa a sostenere la prova orale.

L’attuale appellante riferiva di avere chiesto in data 15 maggio 1999 accesso alla documentazione amministrativa relativa al concorso e di avere constatato che la votazione insufficiente le era stata attribuita da una commissione d’esame da lei ritenuta non costituita secondo la disciplina prevista dall’art. 37 del Regolamento organico del personale del Comune e che, in violazione dell’art. 46 dello stesso regolamento, la commissione non aveva provveduto alla previa determinazione dei criteri e delle modalità di valutazione delle prove sostenute.

Proponeva quindi ricorso sub. R.G.N. 469 del 1999 innanzi al T.A.R. per l’Abruzzo, sede de L’Aquila, chiedendo l’annullamento del provvedimento recante la sua mancata ammissione alle prove orali, nonché delle deliberazioni della Giunta Comunale n.565 del 21 maggio 1998 e n. 979 del 14 luglio 1998, recanti la nomina della commissione esaminatrice, nonché degli atti della procedura concorsuale e, segnatamente, dei verbali della commissione esaminatrice n. 1 del 30 settembre 1998, n.2 del 7 ottobre 1998 e n. 8 del 28 aprile 1999.

Con il ricorso di primo grado venivano dedotte le seguenti censure: 1) violazione dell’art. 37 del Regolamento organico del Personale in vigore presso il Comune de L’Aquila, degli artt. 1 e 8 del bando, per illegittimità della composizione della commissione, in quanto il funzionario “esperto” componente della commissione, prescelto tra i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, non apparteneva, come invece prescritto, alla qualifica funzionale superiore rispetto a quella relativa al posto messo a concorso, non essendo un dirigente; 2) violazione dell’art. 46 del regolamento non avendo la commissione previamente stabilito, nella prima riunione, i criteri di valutazione delle prove scritte; 3) eccesso di potere per illogicità manifesta e contraddittorietà.

La ricorrente concludeva per l’accoglimento del ricorso, con ogni consequenziale statuizione in ordine alle spese ed onorari del giudizio; si costituivano i controinteressati Elena Sico e Paolo Costanzi, eccependo preliminarmente l’inammissibilità del ricorso e chiedendo la sua reiezione; non si costituiva il Comune.

Con la sentenza di primo grado n. 69 depositata in data 5 marzo 2002, l’adito Tribunale respingeva il ricorso, prescindendo dall’esame dell’eccezione di inammissibilità, ritenendo che: a) in ordine al primo motivo, dal certificato rilasciato dal Dirigente amministrativo del Comune di Roseto degli Abruzzi, amministrazione di appartenenza dell’esperto componente della commissione, depositato in data 3 novembre 2001, si evince che la stessa, dott. Rosaria Ciancaione, con atti sindacali in data 25 giugno 1998, 11 dicembre 1998 e 9 febbraio 1999, è stata nominata Dirigente di Ragioneria ed è tuttora (era) in servizio in qualità di dirigente Direttore di ragioneria; gli atti formali di incarico, ancorchè non costituenti formali atti di nomina, tuttavia sono idonei a supportare la qualità di “esperta” di una Commissione per l’esperienza e la capacità professionale acquisite e riconosciute, dovendosi quindi ritenere che sostanzialmente l’art. 37 esige garanzie sostanziali del soggetto alla sua idoneità a svolgere la funzione di esperto nell’ambito della commissione e quindi, avendo la nominata dott. Ciancaione effettivamente espletato funzioni dirigenziali, ella abbia l’esperienza sostanziale richiesta; b) il secondo motivo era da respingere perché ritenuto infondato, in quanto la predeterminazione dei criteri di valutazione delle prove (non dei titoli, che risultano nella fattispecie determinati nel verbale n. 1 del 30 settembre 1998) di un concorso non può considerarsi elemento imprescindibile ai fini della legittimità concorsuale, poiché trattasi di attività rimessa alla discrezionalità amministrativa, quando la valutazione avvenga mediante l’attribuzione di punteggio numerico, configurandosi questo come esternazione della valutazione tecnica compiuta dalla Commissione; in sostanza veniva ritenuto sufficiente il voto numerico; c) veniva dichiarato inammissibile il terzo motivo di ricorso, perché pretendeva una rivalutazione di merito degli elaborati, riservata alla discrezionalità tecnica della commissione e sindacabile solo in termini limitati di manifesta irrazionalità ed ingiustizia; venivano compensate le spese.

Con l’appello proposto r.g.n. 9166 del 2002 l’appellante chiedeva la riforma della sentenza appellata, riproponendo anche nel presente grado le prime due censure sopra descritte e riferendo le sue censure anche alle considerazioni argomentative contenute nella sentenza di rigetto.

Si sono costituiti i signori Costanzi Paolo e Sico Elena, replicando ai motivi avversari e chiedendo il rigetto dell’appello.

Con ordinanza collegiale n. 1170 del 13 marzo 2014 la Sezione rilevava che “nel primo grado di giudizio l’attuale appellante risulta aver formalmente esteso la propria impugnativa a tutti gli atti del procedimento concorsuale di cui trattasi, ivi segnatamente compresa la deliberazione di approvazione della graduatoria del concorso medesimo” e rilevato “che tale provvedimento non risulta agli atti di causa”; riteneva “la necessità di acquisirne copia mediante ordine al Sindaco de L’Aquila, il quale provvederà al riguardo entro il termine di giorni 60 (sessanta), decorrenti dalla comunicazione della presente ordinanza, ovvero dalla sua notificazione se anteriormente avvenuta, al conseguente deposito presso la Segreteria della Sezione”.

Il Comune provvedeva a tale incombente in data 23 aprile 2014 e provvedeva a costituirsi nel presente grado chiedendo il rigetto dell’appello.

Alla udienza pubblica del 9 luglio 2014 la causa veniva decisa.

La Sezione rimettente respingeva, con valenza di sentenza parziale ai sensi dell’art. 36, comma 2 cod. proc. amm., il primo motivo di appello relativo alla asserita violazione dell’art. 37 del Regolamento su citato, condividendo quanto statuito dal primo giudice in relazione alla “qualifica funzionale superiore rispetto a quella relativa messa a concorso”, che può dirsi concretata anche per coloro che non sono inquadrati in tale qualifica, ma ne svolgono interinalmente le funzioni su formale incarico, valendo l’aspetto sostanziale della esperienza maturata al fine di legittimare la nomina a componente della commissione.

In ordine al secondo motivo, la Sezione affermava che il principio della previa fissazione dei criteri di valutazione delle prove concorsuali che devono essere stabiliti dalla commissione esaminatrice, nella sua prima riunione – o tutt’al più prima della correzione delle prove scritte – deve essere inquadrato nella ottica della trasparenza dell’attività amministrativa perseguita dal legislatore, che pone l’accento sulla necessità della determinazione e della verbalizzazione dei criteri stessi in un momento nel quale non possa sorgere il sospetto che questi ultimi siano volti a favorire o sfavorire alcuni concorrenti; e tra la necessaria fissazione dei criteri anzidetti e la legittimità dell’attribuzione del voto numerico che legittimamente sintetizza la valutazione della commissione sussiste un nesso indissolubile, poiché – se mancano criteri di massima e precisi parametri di riferimento cui raccordare il punteggio assegnato – risulta illegittima la valutazione dei titoli in forma numerica.

Pertanto, differentemente dal primo giudice, la Sezione remittente riteneva che “la illegittimità degli atti risulta effettivamente sussistente, non essendo stati fissati i criteri di valutazione da parte della commissione d’esame”.

La Sezione riteneva di sottoporre alla Adunanza Plenaria la questione se il giudice amministrativo – in base ai principi fondanti la giustizia amministrativa ovvero in applicazione dell’art. 34, comma 3, c.p.a. – possa non disporre l’annullamento della graduatoria di un concorso, risultata illegittima per un vizio non imputabile ad alcun candidato, e disporre che al ricorrente spetti un risarcimento del danno (malgrado questi abbia chiesto soltanto l’annullamento degli atti risultati illegittimi), quando la pronuncia giurisdizionale – in materia di concorsi per la instaurazione di rapporti di lavoro dipendente – sopraggiunga a distanza di moltissimi anni dalla approvazione della graduatoria e dalla nomina dei vincitori (circa quindici anni sono trascorsi dalla assunzione in servizio dei vincitori incolpevoli e la rilevazione dei vizi, con la pronuncia di remissione), e cioè quando questi abbiano consolidato le scelte di vita e l’annullamento comporti un impatto devastante sulla vita loro e delle loro famiglie.

L’ordinanza di remissione ritiene che, pur avendo la parte formalmente impugnato gli atti della procedura concorsuale chiedendone l’annullamento, l’adito giudice amministrativo potrebbe, basandosi su una valutazione di tutte le circostanze, mutando d’ufficio la domanda, disporre unicamente il risarcimento del danno, senza il previo annullamento degli atti illegittimi; in tal senso varrebbero i principi di giustizia richiamati dalla sentenza del Consiglio di Stato sezione sesta n. 2755 del 2011 che, pure in controversia in materia ambientale e in applicazione di principi del diritto europeo, ha statuito il potere del giudice amministrativo di non disporre l’annullamento dell’atto illegittimo, quando nessun vantaggio arrechi al ricorrente né ne derivi alcun beneficio agli interessi pubblici; in tale senso varrebbero anche i principi di proporzionalità, equità e giustizia, che debbono permeare anche la giustizia amministrativa, oltre che l’attività della pubblica amministrazione.

L’ordinanza di rimessione aggiunge che, se l’appellante avesse formulato espressa domanda di risarcimento derivante dalla illegittimità della procedura concorsuale conclusasi nell’anno 1999, il giudizio avrebbe potuto concludersi con l’accoglimento della domanda risarcitoria, senza necessità di provvedere all’annullamento degli atti impugnati, potendo il giudice “modulare” la tutela, in considerazione del danno sociale che deriverebbe da un eventuale annullamento. 

E’ vero, osserva l’ordinanza di rimessione, che il lungo tempo trascorso non costituisce in sé una giusta ragione per non disporre l’annullamento; tuttavia, ciò sarebbe possibile su questioni che riguardano le persone fisiche e le loro attività lavorative (si direbbe l’esistenza libera e dignitosa di cui all’art. 36 Cost.), valutando che l’annullamento, mentre sottrarrebbe un bene della vita essenziale ad uno o più controinteressati incolpevoli, neppure attribuirebbe al ricorrente se non una chance o una mera possibilità di rinnovazione procedimentale.

A tal fine menziona giurisprudenza che legge il comma 3 dell’art. 34 del cod. proc. amm. – che prevede che “quando nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse a fini risarcitori” – nel senso che non debba esservi una espressa richiesta dell’interessato (così Cons. Stato, V, 12 maggio 2011, n.2817) perché vi è sempre un quid di accertamento, perché il più comprende il meno, perché la norma utilizza una espressione vincolante e quindi la sussistenza dell’interesse può essere compiuta d’ufficio anche in assenza di domanda, a fronte di contrari precedenti (così Cons. Stato, V, 14 dicembre 2011, n.6539 e 6 dicembre 2010, n.8550) secondo i quali incombe sempre sulla parte istante l’onere di allegare i presupposti per la successiva azione risarcitoria (così, Cons. Stato, V, 28 dicembre 2012, n.6703) e quindi di proporre espressamente, se pure non formalisticamente ma in sostanza, la domanda di accertamento dell’illegittimità o di manifestare un interesse al solo accertamento, a successivi fini risarcitori.

Alla udienza di discussione del 25 marzo 2015 la causa, previa discussione, è stata trattenuta in decisione.

In sede di discussione l’avvocato di parte appellante ha ribadito le sue conclusioni e l’interesse della parte assistita all’annullamento degli atti impugnati; la difesa dei controinteressati ha concluso nel senso che siano condivise le conclusioni proposte dalla ordinanza di rimessione.

 

 

DIRITTO

1. La parte ha chiesto e continuato a chiedere l’annullamento degli atti della procedura concorsuale, comprensivi del giudizio negativo nei suoi confronti e della graduatoria pubblicata; nelle conclusioni dell’appello ha espresso tale richiesta di annullamento (“che la sentenza appellata venga annullata o quantomeno riformata, disponendosi in accoglimento del ricorso al Tar la rinnovazione degli atti della procedura concorsuale con ogni consequenziale statuizione anche in ordine al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio”), chiedendo, come visto, anche, nel petitum, la “rinnovazione” della procedura concorsuale; nella memoria depositata in data 8 gennaio 2014, la parte appellante afferma che il lungo tempo trascorso dalla proposizione dell’appello non ha inciso negativamente sulla posizione, sussistendo ancora interesse alla decisione di merito e all’annullamento dei provvedimenti impugnati.

Tale posizione è stata ribadita in sede di udienza di discussione.

A fronte di detta domanda, l’ordinanza di rimessione pone la questione se, ritenuta la fondatezza del gravame, sia dato al giudice amministrativo emettere ex officio una pronuncia di risarcimento del danno anziché di annullamento, tenuto conto degli effetti particolarmente pregiudizievoli di quest’ultimo nei confronti delle altre parti interessate, anche in relazione al tempo trascorso dalla emanazione degli atti impugnati.

2. L’Adunanza plenaria ritiene che la tesi contenuta nell’ordinanza di rimessione non può essere condivisa e ciò: a) sulla base del principio della domanda, che regola anche il processo amministrativo; b) sulla base della natura della giustizia amministrativa quale giurisdizione soggettiva, pur con talune peculiarità - di stretta interpretazione - di tipo oggettivo; c) per la non mutabilità ex officio del giudizio di annullamento una volta azionato; d) per la non pertinenza degli argomenti e dei precedenti richiamati.

3.Con riguardo agli argomenti testuali, vale quanto previsto dal codice del processo amministrativo e, in virtù del rinvio esterno ai sensi dell’art. 39 cod. proc. amm., anche quanto prevede il codice di procedura civile.

L’articolo 29 c.p.a., proseguendo nella tradizione delle precedenti leggi processuali (T.U. Consiglio di Stato e legge TAR), dispone che la sanzione per i vizi di violazione di legge, eccesso di potere ed incompetenza sia l’annullamento ad opera del giudice, la cui azione deve proporsi nel termine di sessanta giorni. 

L’illegittimità determina l’annullabilità (in potenza); l’azione di annullamento determina, su pronuncia del giudice, l’annullamento (in atto) degli atti impugnati.

In caso di accoglimento del ricorso di annullamento (art. 34, comma 1, c.p.a. lettera a) il giudice quindi annulla (necessariamente) in tutto o in parte il provvedimento impugnato.

A sua volta l’art. 34 esprime il principio dispositivo del processo amministrativo in relazione all’ambito della domanda di parte; si tratta, nel caso della giurisdizione amministrativa di legittimità, come noto, di una giurisdizione di tipo soggettivo, sia pure con aperture parziali alla giurisdizione di tipo oggettivo (ma che si manifestano in precisi, limitati ambiti come, per esempio, nella estensione della legittimazione ovvero nella valutazione sostitutiva dell’interesse pubblico in sede di giudizio di ottemperanza o in sede cautelare, ovvero ancora nella esistenza di regole speciali, quali quelle contenute negli artt. 121 e 122 c.p.a., che, riguardo alle controversie in materia di contratti pubblici, consentono al giudice di modulare gli effetti della inefficacia del contratto).

Del resto la regola secondo la quale nel processo amministrativo debba darsi al ricorrente vittorioso tutto quello e soltanto quello che abbia chiesto ed a cui abbia titolo, è stata ribadita dalle pronunce di questa stessa Adunanza plenaria n. 4 del 7 aprile 2011 e n. 30 del 26 luglio 2012.

4. Ora, proprio in virtù di detto principio della domanda. non può ammettersi che in presenza di un atto illegittimo (causa petendi) per il quale sia stata proposta una domanda demolitoria (petitum), potrebbe non conseguirne l’effetto distruttivo dell’atto per valutazione o iniziativa ex officio del giudice.

L’azione di annullamento si distingue, infatti, dalla domanda di risarcimento per gli elementi della domanda, in quanto nella prima la causa petendi è l’illegittimità, mentre nella seconda è l’illiceità del fatto; il petitum nella prima azione è l’annullamento degli atti o provvedimenti impugnati, mentre nella seconda è la condanna al risarcimento in forma generica o specifica.

Inoltre il risarcimento è disposto su “ordine” del giudice ed è diretto a restaurare la legalità violata dell’ordinamento, costituendo una situazione quanto più possibile pari o equivalente (monetariamente) o il più possibile identica a quella che ci sarebbe stata in assenza del fatto illecito; l’annullamento invece è una restaurazione dell’ordine violato “ad opera” del giudice. 

Al massimo, il giudice può non già “modulare” la forma di tutela sostituendola a quella richiesta, ma determinare, in relazione ai motivi sollevati e riscontrati e all’interesse del ricorrente, la portata dell’annullamento, con formule ben note alla prassi giurisprudenziale, come l’annullamento parziale, <<nella parte in cui prevede>> o <<non prevede>>, oppure <<nei limiti di interesse delricorrente>> e così via.

Se poi la domanda di annullamento, con il suo effetto tipico di eliminazione dell’atto impugnato dal mondo giuridico non dovesse soddisfare l’interesse del ricorrente e anzi dovesse lederlo (in realtà l’ordinanza di rimessione riconosce che non si verte in tale ipotesi), la pronuncia del giudice non potrebbe che essere di accertamento, ma nell’altro senso, cioè della sopravvenuta carenza di interesse del ricorrente che aveva proposto domanda di annullamento.

Cosa diversa dall’accertamento del sopravvenuto difetto di interesse è, come proporrebbe invece l’ordinanza di rimessione, che sia il giudice ex officio a preferire la forma di tutela, facendo recedere l’interesse, a suo dire, indebolito del ricorrente, sulla base di altre valutazioni di interessi (gli interessi dei controinteressati, l’interesse pubblico, il tempo, l’opportunità e così via).

E’ vero che la pronuncia di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse è basata sull’accertamento della esistenza delle condizioni per l’adozione della decisione giurisdizionale domandata dal ricorrente a tutela di una concreta situazione giuridica di vantaggio, accertamento che deve essere compiuto dal giudice, anche di ufficio, in ogni stato e grado del giudizio (tra varie, Cons. Stato, IV, 22 marzo 2007, n.1407).

Non è però consentito al giudice, in presenza della acclarata, obiettiva esistenza dell’interesse all’annullamento richiesto, derogare, sulla base di invocate ragioni di opportunità, giustizia, equità, proporzionalità, al principio della domanda (si tratterebbe di una omessa pronuncia, di una violazione della domanda previsto dall’art. 99 c.p.c. e del principio della corrispondenza previsto dall’art. 112 c.p.c. tra chiesto e pronunciato secondo cui “il giudice deve pronunciare su tutta ladomanda e non oltre i limiti di essa”, applicabili ai sensi del rinvio esterno di cui all’art. 39 cod. proc. amm. anche al processo amministrativo) e trasformarne il petitum o la causa petendi, incorrendo altrimenti nel vizio di extrapetizione.

Non può neppure valere il richiamo, contenuto nell’ordinanza di rimessione, al c.d. principio di continenza, in quanto, se è vero che l’accertamento è compreso nell’annullamento (il più comprende il meno), l’accertamento a fini risarcitori è qualcosa di più o comunque di diverso dalla domanda di annullamento.

5. Nella specie ad opinione del Collegio deve ritenersi persistente tale interesse all’annullamento, nella forma di interesse strumentale (su tale nozione Ad. Pl. n. 11 del 10 novembre 2008) ad ottenere la rinnovazione della procedura concorsuale, sia perché tale persistenza è stata manifestamente ribadita nella memoria del gennaio 2014 dell’appellante e in sede di discussione orale, sia perché, in esito del motivo di appello ritenuto fondato e per incidenza degli effetti del suo accoglimento sull’intero procedimento, per la ritenuta esigenza di predeterminazione dei criteri di valutazione degli esami, non può non procedersi alla rinnovazione dell’attività viziata (contemperando con il principio dell’utile per inutile non vitiatur).

Non rileva, a tal fine, il tempo trascorso. Infatti la durata occorrente per il giudizio, a maggior ragione quando essa sia prolungata e inaccettabile nelle sue dimensioni, non può andare a danno del ricorrente che ha ragione e pregiudicargli la sua pretesa, se non a costo di infliggergli un doppio danno (sul principio del diritto al giusto processo in tempi ragionevoli, si veda l’art. 6 CEDU e, in campo nazionale, la legge c.d. Pinto n. 89 del 24 marzo 2001, sulla durata ragionevole dei giudizi).

Non rileva, d’altro canto, neppure l’utilità più o meno ampia, che l’appellante possa ricevere da un eventuale annullamento, né possono avere rilievo le ragioni di inopportunità, in tale sede e fase, per i disagi causati ai controinteressati incolpevoli o la valutazione preminente dell’interesse pubblico, il quale coincide, in tale momento, con l’annullamento degli atti illegittimi impugnati.

6. In sede di giurisdizione generale di legittimità e in caso di azione di annullamento, non appare utile il richiamo operato dall’ordinanza di rimessione ai poteri di cui all’art. 21 nonies L.241 del 1990, attenendo essi specificamente (ed esclusivamente, stante la loro natura eccezionale) all’attività amministrativa propriamente detta; così come non appare utile il richiamo alle disposizioni in materia di appalti (artt. 121 e 122 c.p.a.), in cui viene riconosciuta la possibilità al giudice di disporre un rimedio piuttosto che un altro, sulla base della inefficacia, con un potere valutativo che tenga conto del tempo trascorso, della effettiva possibilità di subentrare, delle situazioni contrapposte, dei vizi riscontrati, dello stato di esecuzione del contratto e così via: trattasi, infatti, di fattispecie esclusive la cui disciplina non è estensibile in via analogica né tanto meno può essere assunta come espressiva di principi generali.

7. Non sono d’altra parte di ausilio alla soluzione prospettata dall’ordinanza di rimessione i precedenti giurisprudenziali da essa menzionati.

Quanto alla sentenza della VI Sezione n. 2755 del 2011, essa ha riconosciuto la potestà del giudice amministrativo, in presenza di determinati presupposti attinenti all’interesse del ricorrente, di fissare una determinata posteriore decorrenza degli effetti della pronuncia di annullamento. Si tratta, dunque, di una questione ben diversa da quella posta nella presente fattispecie, nella quale, come si è più volte rimarcato, si controverte sulla possibilità per il giudice di sostituire integralmente ex officio la domanda proposta in giudizio. 

Ugualmente non convincente è il richiamo alle sentenze che fanno riferimento alla possibilità che il giudice, di ufficio, ritenga che sussista un interesse al mero accertamento.

Al di là della considerazione che tale potere di ufficio di accertare l’illegittimità a soli fini risarcitori non è del tutto pacifico (l’ordinanza di rimessione cita anche giurisprudenza più rigorosa sul punto), esso va necessariamente coniugato, se viene spiegata azione risarcitoria in quella sede (anche se in vero, essa potrebbe solo essere annunciata e proposta in sede successiva), con il principio dispositivo in ordine alla proposizione della domanda di risarcimento, sicchè la parte attrice deve sempre provarne gli elementi costitutivi (artt. 2043 e 2697 cod civ.).

Soprattutto, le pronunce richiamate riguardano una fattispecie ben diversa dalla invocata possibilità del giudice di modificare la domanda. 

Esse ritengono che ope iudicis si possa accertare l’illegittimità di un atto impugnato anche quando la parte, che non ha più interesse all’annullamento, non lo chieda espressamente.

Tali pronunce si riferiscono alla situazione in cui, accertata in modo incontestabile, per mutamenti di fatto o di diritto la sopravvenuta carenza di interesse, si debba decidere se, per la pronuncia di mero accertamento, sia necessaria oppure no una apposita istanza della parte. 

Tali pronunce, come visto, tuttavia non incidono né sulla esigenza di previamente accertare se tale interesse a ricorrere o bisogno di tutela giurisdizionale (Rechtsschutzbedürfnis) continui a persistere anche dopo molto tempo, né sul potere, tipico del processo dispositivo, della parte di decidere, essa soltanto, e non il giudice di ufficio, se proseguire nella richiesta di annullamento di atti illegittimi sia pure a distanza di tempo, vantando ancora un meritevole bene della vita.

8. La modificazione degli effetti della domanda di annullamento non può essere neanche giustificata con il richiamo alla disciplina del processo dinanzi alla Corte di Giustizia (l’art. 264 del Trattato). 

L’art. 1 del c.p.a. afferma che la “giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della costituzione e del diritto europeo”, ma ciò avviene sulla base della specifica disciplina del processo amministrativo, non necessariamente dandosi applicazione alle regole processuali comunitarie.

Non si tratterebbe qui di recepire principi del diritto comunitario sostanziale o processuale (la proporzionalità, l’affidamento, il mutuo riconoscimento, il giusto processo, il contraddittorio etc.), ma di applicare una disposizione dettata per il giudizio europeo al giudizio (di tutt’altra natura) nazionale. 

La problematica della limitazione degli effetti dell’annullamento, sorta e applicata in via eccezionale in quella sede soprattutto per i regolamenti, non è sufficiente a portare ad un parallelo con la giustizia amministrativa italiana, trattandosi di modelli giurisdizionali del tutto differenti (basti pensare alla serie di atti scrutinati dalla Corte di Giustizia, che possono essere atti del Parlamento piuttosto che della Commissione europea, della BCE, del Consiglio). 

Per completezza, si osserva che tale problematica, a prescindere dalle regole codicistiche, è stata affrontata in quel sistema dal Conseil d’Etat francese (Conseil d’Etat, 11 maggio 2004, Association AC), che ha fatto riferimento alle conseguenze manifestamente eccessive, ma limitando il potere officioso del giudice in casi del tutto eccezionali “à titre exceptionnel” e solo nei casi di atti di tale importanza da mettere in crisi il sistema di un settore dell’ordinamento, quindi tenendo conto degli effetti della “securité juridique”.

9. Ai sensi dell’art. 99, comma 4 c.p.a., l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, investita della questione sopra esposta, in omaggio al principio di economia processuale e per esigenze di celerità, di regola decide la controversia anche nel merito, salva la presenza di ulteriori esigenze istruttorie, nel caso di specie insussistenti (così Consiglio di Stato, ad. Plen. 13 giugno 2012, n.22).

D’altra parte, la questione sollevata dalla Sezione remittente di eventualmente non annullare per le ragioni sopra esposte, pur non rappresentata alla udienza precedente alle parti ai sensi dell’art. 73 comma 3, ove ritenuta questione “rilevata d’ufficio” perché riguardante gli eventuali poteri officiosi del giudice, è stata compiutamente rappresentata con la ordinanza di deferimento e quindi adeguatamente trattata dalle varie parti in sede di discussione dinanzi a questa Adunanza Plenaria.

Avendo la Sezione rimettente già accertato l’illegittimità degli atti impugnati pronunciandosi con sentenza parziale ai sensi dell’art. 36 secondo comma cod. proc. amm., sia respingendo il primo motivo sia esprimendosi anche sulla seconda “questione” (il motivo della violazione della regola della previa determinazione dei criteri delle prove), non può che concludersi nel senso dell’accoglimento dell’appello e, in conseguenza, in riforma dell’appellata sentenza, per l’accoglimento del ricorso originario e l’annullamento degli atti impugnati ai sensi e nei limiti di cui in motivazione.

Ritenendo pertanto di decidere nel merito la controversia sottoposta all’esame, sulla base delle sopra esposte considerazioni, va accolto l’appello proposto dall’appellante e, in riforma della sentenza appellata, va accolto il ricorso originario, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, con la enunciazione del seguente principio di diritto: “Sulla base del principio della domanda che regola il processo amministrativo, il giudice amministrativo, ritenuta la fondatezza del ricorso, non può ex officio limitarsi a condannare l’amministrazione al risarcimento dei danni conseguenti agli atti illegittimi impugnati anziché procedere al loro annullamento, che abbia formato oggetto della domanda dell’istante ed in ordine al quale persista il suo interesse, ancorché la pronuncia possa recare gravi pregiudizi ai controinteressati, anche per il lungo tempo trascorso dall’adozione degli atti, e ad essa debba seguire il mero rinnovo, in tutto o in parte, della procedura esperita”.

La particolare complessità della vicenda, la sua risalenza nel tempo rispetto all’affermazione giurisprudenziale in modo chiaro della regola dell’esigenza della predeterminazione dei criteri delle prove rispetto alla amministrazione comunale e la mancanza di qualsivoglia imputabilità di comportamento in capo ai controinteressati (seppure essi fossero, naturalmente, a conoscenza della impugnativa del concorso già dalla proposizione avvenuta nel corso dell’anno 1999), giustificano la compensazione totale delle spese del doppio grado di giudizio.

 

 

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria) definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie ai sensi di cui in motivazione e, in conseguenza, in riforma dell’appellata sentenza, accoglie il ricorso originario ai sensi e nei limiti di cui in motivazione, annullando gli atti impugnati.

Spese del doppio grado compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 marzo 2015 con l'intervento dei magistrati:

 

 

Giorgio Giovannini, Presidente

Riccardo Virgilio, Presidente

Pier Giorgio Lignani, Presidente

Stefano Baccarini, Presidente

Alessandro Pajno, Presidente

Vito Poli, Consigliere

Francesco Caringella, Consigliere

Maurizio Meschino, Consigliere

Carlo Deodato, Consigliere

Nicola Russo, Consigliere

Sergio De Felice, Consigliere, Estensore

Bruno Rosario Polito, Consigliere

Raffaele Greco, Consigliere

 

 

 

 

     
     
IL PRESIDENTE
     
     
     
L'ESTENSORE   IL SEGRETARIO
     
     
     
     
     

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 13/04/2015

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

Il Dirigente della Sezione

 

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