Monday 02 July 2018 15:31:29

Giurisprudenza  Uso del Territorio: Urbanistica, Ambiente e Paesaggio

L'espropriazione per pubblica utilità nella giurisprudenza

Nota del dott. Massimiliano Mignanelli

L'espropriazione per pubblica utilità è un procedimento a carattere ablatorio, attraverso il quale la pubblica amministrazione acquisisce coattivamente i beni di proprietà privata, per il perseguimento di scopi pubblici e dietro la corresponsione di un indennizzo.

Essa può avere ad oggetto i diritti reali su beni immobili o sull'universalità dei beni mobili ovvero può riguardare i diritti personali relativi ai beni immobili (art. 1 t.u.), come ad es. la locazione.

L'istituto in esame costituisce la massima espressione del particolare ruolo ricoperto dalla pubblica amministrazione, di apparato servente ai fini pubblici: ci si riferisce al suo agire “funzionalizzato”, ossia al potere di sacrificare i diritti dei privati, che siano eventualmente di intralcio all'interesse collettivo.

L'art. 834 c.c. stabilisce che «nessuno può essere privato in tutto o in parte dei beni di sua proprietà, se non per causa di pubblico interesse legalmente dichiarata, e contro il pagamento di una giusta indennità».

Inoltre, l'art. 42 della Costituzione, dopo aver attribuito alla proprietà privata il carattere di diritto assoluto, prevede nel terzo comma che essa «può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale».

I principi cardine dell'istituto in esame, desumibili dalla Carta costituzionale, sono dunque la riserva di legge e l'obbligo di indennizzo.

Spetta alla legislazione ordinaria il compito di disciplinare dettagliatamente i singoli procedimenti espropriativi e i presupposti per l'esercizio del potere ablatorio.

In passato, il quadro normativo in materia di espropriazione si è sempre presentato disorganico e disomogeneo. 

In particolare, le fonti principali del procedimento espropriativo erano storicamente la l. n. 2359/1865 (poi modificata dalla l. n. 5188/1879), riguardante le espropriazioni di competenza statale o ultraregionale, la l. n. 865/1971 (poi integrata dalla l. n. 10/1977), il d.p.r. n. 8/1972 e la l. n. 1/1978, riguardanti le espropriazioni di competenza regionale o comunale.

Ed in questo quadro normativo, il legislatore è intervenuto con il d.p.r. 8 giugno 2001 n. 327, che ha introdotto un Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità, allo scopo di restituire al procedimento espropriativo trasparenza e chiarezza procedurale. 

Il Testo Unico de quo, che non si presenta come uno strumento a carattere compilativo ma innovativo, è stato poi modificato dalla l. n. 166/2002 , dal d. lgs. n. 302/2002, dal d. lgs. n. 330/2004 e dalla l. n. 244/2007.Nel nostro ordinamento giuridico l’espropriazione per pubblica utilità è lo strumento che consente di piegare le istanze personalistiche agli interessi pubblici. Non a caso è la stessa Costituzione, all’art. 42 a prevedere che «la proprietà privata può essere, nei casi previsti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale».

Ai sensi del presente articolo l’espropriazione può definirsi come quel provvedimento giuridico, emanato all’esito di un procedimento determinato, che consente alla Pubblica amministrazione che agisce di acquisire coattivamente un bene immobile di proprietà di un privato per la realizzazione di attività di interesse generale (rectius di pubblica utilità). Il procedimento espropriativo è caratterizzato da una riserva di legge, che, potendo anche essere integrata da norme di rango secondario, può definirsi relativa. Inoltre, altro aspetto che lo caratterizza è la finalità di interesse generale, che per la verità costituisce un indefettibile presupposto del potere di esproprio. Infine, ulteriore elemento che conferisce legittimità all’espropriazione è il pagamento di un indennizzo da parte della P.A. al privato espropriato, anch’esso requisito essenziale ai fini della legittimità dell’esproprio.(1)

Attualmente il procedimento espropriativo è disciplinato dagli artt. 8 e 23 del d.P.R. 327/2001, che prevede una procedura articolata in diverse fasi. 

E’ prevista in primo luogo l’apposizione da parte della P.a. di un vincolo preordinato all’esproprio, che può discendere da un piano regolatore generale da una sua variante o da un altro atto che comporti comunque una sua modifica (si pensi all’accordo di programma). 

Segue la dichiarazione di pubblica utilità che può essere anche implicita (ad esempio nell’approvazione del progetto definitivo dell’opera pubblica). Questo atto è comunque presupposto di legittimità per il proseguo della procedura, ed infatti è nell’atto che contiene la dichiarazione di pubblica utilità che è inserito il termine per l’emanazione del decreto preordinato all’esproprio (che costituisce la quarta fase del procedimento), ed in sua mancanza l’art. 13 d.P.R. 327/2001 prevede sia di cinque anni. 

Segue una determinazione in via provvisoria dell’indennità, che varia a seconda che vi sia una cessione volontaria o non volontaria da parte del privato espropriato. 

Infine la procedura, qui sommariamente esposta, si chiude con l’emanazione del decreto di esproprio (che attribuisce al privato il diritto ad esigere l’indennità da parte della P.a.). 

Ci sono però delle situazioni in cui la Pubblica amministrazione, per esigenze connesse al procedimento espropriativo o per cause di forza maggiore, occupa il bene senza però emanare il decreto di esproprio e, nel frattempo, compie un attività che comporta la trasformazione della proprietà, anche in via irreversibile. In questi casi la giurisprudenza della Corte di Cassazione, seguendo un iter di cui si dirà nel proseguo (2), ha fatto riferimento alla figura dell’occupazione appropriativa, applicando in via estensiva a queste situazioni l’istituto dell’accessione invertita, dando prevalenza alle ragioni di interesse pubblico perseguite dalla P.a. Pur configurando questo comportamento secondo la giurisprudenza, un illecito che deve essere risarcito, si verifica, in questi casi, l’acquisizione del bene, stabile e definitiva, in capo alla P.a. 

Solo nel 2001 il legislatore, con il testo unico sulle espropriazioni, provvede a regolare la materia, mediante l’introduzione dell’art. 43, poi dichiarato incostituzionale e sostituito dall’art. 42-bis, i quali hanno previsto la c.d. acquisizione sanante, ovvero il potere in capo alla P.A. di acquisire in sanatoria, con un atto formale, la proprietà delle aree occupate in carenza di titolo, previa valutazione degli interessi in conflitto. Questo istituto non ha mancato di destare dubbi in dottrina, sia per i profili sostanziali, che per i meri e comunque rilevanti, profili processualistici. 

La sentenza del Consiglio di Stato in Adunanza Plenaria, oggetto di questo studio, tenta di risolvere questi profili di problematicità, soffermandosi, per la verità, in misura maggiore sui profili di diritto processuale ed in particolare sui rapporti tra il provvedimento in esame, il giudizio di ottemperanza e la nomina del commissario ad acta, e lo fa giungendo ad una soluzione specifica della questione, che può essere condivisibile o meno ma che è certamente frutto di una ricostruzione in chiave storica dell’istituto, nonché di un iter argomentativo che deve molto alla sentenza della Corte Costituzionale che nel 2015 ha salvato l’art. 42-bis dalla scure dell’incostituzionalità. 

E’ opportuno analizzare innanzitutto la vicenda processuale, in quanto si tratta di una vicenda complessa che non può essere eccessivamente semplificata. 

Un comune pugliese nei primi anni 2000 occupa d’urgenza il fondo di un privato e, senza emettere un formale decreto di esproprio, trasforma l’appezzamento di terreno in un giardino pubblico. 

L’istante ricorre al Tar Puglia, sezione distaccata di Lecce, ed i giudici del consesso amministrativo, con la sentenza n. 3342/2008 (3) prendono atto della irreversibile trasformazione del fondo, della mancanza del decreto di esproprio e conseguentemente condannano il comune a restituire l’area, ovvero, in via alternativa, a concludere un accordo transattivo o ancora, ad emanare un provvedimento di acquisizione ai sensi dell’allora vigente art. 43 d.P.R. 327/2001 (4).

Nel fare ciò il Tar scandisce nel dettaglio la tempistica di ciascuna fase, i relativi adempimenti e formula ogni prescrizione in ordine ai criteri di liquidazione, per equivalente monetario, del danno della perdita da proprietà e di quello conseguente al possesso sine titulo del fondo.  Il Tar stabilisce inoltre che trascorsi i termini concessi per l’adempimento (in una delle forme alternative indicate) la parte privata avrebbe potuto agire in giudizio per l’esecuzione della decisione. 

Il comune però non adempie alle prescrizioni contenute nel giudicato e la parte privata ricorre in sede di ottemperanza. 

In questa sede, in esecuzione del giudicato del 2008, viene emessa una seconda sentenza irrevocabile nella quale viene assodata la sostanziale inerzia del comune a dare esecuzione al giudicato e viene conseguentemente condannato l’ente a dare corso a tutti gli adempimenti previsti entro un breve termine di quarantacinque giorni. 

A questa seconda sentenza il Comune omette ancora una volta di provvedere, e, nelle more, la Corte Costituzionale con sentenza dell’8 ottobre 2010, n. 293, dichiara costituzionalmente illegittimo l’art. 43 d.P.R. 327/2001. Il legislatore, quindi, per colmare il vulnus legislativo creato dalla sentenza della Corte ha inserito nel “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità” l’art. 42-bis mediante la legge 15 luglio n. 111. (5)

In virtù della perdurante inadempienza, quindi, la parte privata adisce nuovamente il Tar Puglia, il quale, sempre in sede di ottemperanza, con sentenza del 24 maggio 2012, n. 928 si pronuncia in merito alla abrogazione dell’art. 43 T.u. espropriazioni, nello specifico, ritenendo applicabile al caso di specie l’art. 42 bis. Inoltre, prendendo atto della mancata volontà del comune di concludere l’accordo transattivo, formula un ulteriore termine per addivenire agli adempimenti richiesti dalla sentenza del 2008 e nomina contestualmente un commissario ad acta, con il mandato di provvedere a tutti gli adempimenti occorrenti per l’ottemperanza. 

Il commissario, vista la sostanziale inerzia del comune, adotta nel settembre 2012 un provvedimento ex art. 43 d.P.R. 327/2001 determinando il valore del bene e il risarcimento del danno (a tal fine si avvale di una stima effettuata dall’Agenzia del territorio).

La vicenda è però ben lungi dal concludersi, in quanto il provvedimento commissariale viene reclamato dalla parte privata con atto notificato il 4 dicembre 2012. Sul suddetto reclamo si esprime il Tar Puglia, con sentenza del 21 febbraio 2013, che in primo luogo riqualifica il provvedimento adottato dal commissario ad acta ai sensi dell’art. 42 bis d.P.R. 327/2001 e contestualmente esclude che il commissario avrebbe dovuto agire nel contraddittorio delle parti, acquisendo il contributo istruttorio delle medesime; considera congrua la determinazione del valore del terreno (anche in relazione alla sua inedificabilità); infine, conferma la validità della stima dell’Agenzia del territorio, posta alla base del provvedimento commissariale.

La vicenda giunge, quindi, in appello davanti al Consiglio di Stato, a seguito di impugnazione della parte privata.  

Questa si fa portatrice di due motivi di gravame: lamenta da un lato, con il primo motivo, che il commissario ad acta non era esonerato dall’obbligo di acquisire i pareri delle parti, i quali sarebbero stati, nel caso specifico, decisivi e rilevanti in punto di scelta tra la restituzione del bene o l’acquisizione coattiva (ovvero le alternative indicate nel giudicato irrevocabile).

In secondo luogo la parte privata ribadisce che il commissario ad acta per individuare il valore del bene non avrebbe dovuto basarsi sulla stima dell’Agenzia del territorio, in quanto questa doveva essere considerata come invalida alla luce della sentenza del Tar Puglia n. 2241/2009; da qui discenderebbe l’invalidità dell’intero provvedimento commissariale.

Il Consiglio di Stato, avvedendosi del contrasto giurisprudenziale in materia di acquisizione coattiva sanante, rimette la questione con ordinanza (6) all’Adunanza Plenaria, sottoponendo la seguente questione di diritto: “Se l’ottemperanza – con giurisdizione estesa al merito – ad una sentenza avente ad oggetto una domanda demolitoria di atti concernenti una procedura espropriativa, rientri o meno tra i poteri sostitutivi del giudice, e per esso, del commissario ad acta, l’adozione della procedura semplificata di cui all’art. 42 bis t.u. espr.”

Il giudizio però rimane sospeso in via pregiudiziale fino all’emanazione della sentenza n. 71 del 30 marzo 2015 della Corte Costituzionale, la quale rigetta il ricorso di legittimità costituzionale sollevato dalla Corte di Cassazione in merito all’art. 42-bis, d.P.R. 327/2001. 

Dopo un iter durato circa 8 anni il Consiglio di Stato si pronuncia sulla vicenda, con la sentenza in commento. 

La sentenza, come già detto nell’introduzione allo studio, si inserisce nel filone della giurisprudenza in materia di occupazione appropriativa e occupazione usurpativa. Questi sono istituti di origine giurisprudenziale, che sono stati elaborati nelle «situazioni di fatto in cui un bene immobile è stato oggetto di una procedura ablatoria illegittima e in costanza della stessa è stato trasformato o sottratto a seguito dell’attività materiale di occupazione e trasformazione posta in essere dal soggetto pubblico» (7). 

L’istituto in esame è stato teorizzato con la storica sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 1464/1983 (8) attraverso la quale la Suprema Corte era giunta a riconoscere che l’irreversibile destinazione del fondo al fine di costituire l’opera pubblica: 

«Comporta l’estinzione in quel momento del diritto di proprietà del privato e la contestuale acquisizione a titolo originario della proprietà in capo all’ente costruttore ed inoltre costituisce un illecito (istantaneo sia pure con effetti permanenti) che abilita il privato a chiedere, nel termine prescrizionale di cinque anni dal momento della trasformazione del fondo, la condanna dell’ente medesimo a risarcire il danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà» (9). 

Alla luce di tale orientamento, dunque, la proprietà veniva ad estinguersi per la sola trasformazione del terreno a scopi di pubblica utilità mediante la sua irreversibile trasformazione, con l’effetto ulteriore dell’acquisto a titolo originario del bene in capo alla pubblica amministrazione. 

All’interno della categoria elaborata dalla giurisprudenza rientravano i casi di occupazione del terreno avvenuti a seguito dell’emanazione di una valida dichiarazione di pubblica utilità (ma non del decreto di esproprio) e seguiti dalla realizzazione dell’opera, qualificabile come pubblica, con il conseguente assoggettamento della nuova entità materiale al regime dei beni demaniali o patrimoniali indisponibili, in virtù di un applicazione estensiva del principio dell’accessione invertita, ex art. 938 c.c. (10). Questi requisiti vennero rimarcati nel 1988 dalla Cassazione (11) e tale orientamento venne poi confermato anche dalla Corte Costituzionale nel 1991 (12).

 

E’ evidente che questo istituto creava una situazione di forte disequilibrio nei confronti del privato, che era giustificata dal fatto che nella contrapposizione dell’interesse privato con l’interesse pubblico doveva ritenersi prevalente quest’ultimo: da ciò discendeva l’asserita compatibilità dell’istituto con l’art. 42 della Costituzione. 

Alle medesime considerazioni, però, non è giunta la Corte Europea dei Diritti dell’uomo, che ha ritenuto non coerente con il Protocollo n.1 della CEDU l’istituto sotto due aspetti. Da un latto ha affermato che ogni ingerenza nel diritto di proprietà deve essere conforme al principio di legalità, integrato da «norme di diritto interno sufficientemente accessibili, precise e prevedibili» (13). Inoltre i giudici di Strasburgo hanno affermato che l’irreversibilità della trasformazione del terreno e la conseguente sua incedibilità al privato (anche laddove vi fosse stato un annullamento in sede giurisdizionale) comportava una ulteriore violazione della Convenzione, consentendo all’amministrazione di acquisire la proprietà in virtù di modalità non previste dal diritto interno consentendogli di «trarre benefici da una situazione illegittima» (14).

L’effetto della sentenza in esame fu quello di determinare il venire meno dell’istituto dell’occupazione appropriativa con la conseguenza che le occupazioni perpetrate in violazione di legge o sulla base di un titolo invalido o nelle ipotesi in cui il procedimento non si fosse concluso con un valido e formale provvedimento di acquisto del bene da parte della pubblica amministrazione, comportavano, d’ora in avanti un illecito permanente, che impediva la decorrenza dei termini prescrizionali (15).

La presa di posizione della Cedu, però, non pose fine alla diatriba che si era creata, in quanto nel 2001 venne emanato il D.P.R. n. 327 attraverso il quale il legislatore assegnò un fondamento legale all’occupazione appropriativa costituita dall’art. 43 del Testo unico espropriazioni.  Questo, infatti, disponeva che l’autorità che utilizzava un bene immobile per scopi di interesse pubblico e lo modificava, pur in assenza di un valido ed efficace provvedimento di espropriazione, o della dichiarazione di pubblica utilità, poteva disporre che esso venisse acquisito al proprio patrimonio indisponibile, con contestuale risarcimento dei danni al proprietario espropriato.

L’asse portante della norma andava, quindi, individuato nel provvedimento dell’amministrazione con il quale questa acquisiva il bene del privato, già utilizzato per scopi di pubblica utilità, con efficacia sanante del precedente comportamento illecito (16).  La stessa norma prevedeva inoltre che in caso di acquisizione del provvedimento sanante il risarcimento dei danni andasse commisurato all’effettivo valore del bene (17). 

La norma venne accolta in maniera contrastante, mentre il Consiglio di Stato ne sosteneva la conformità ai parametri CEDU ed ai principi costituzionali, parte della dottrina la criticò sostenendo che si era introdotto uno «strumento ordinario volto a legalizzare l'illegale» (18). 

Alla luce di ciò vennero sollevate diverse eccezioni di legittimità e la Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 293 dell’8 ottobre 2010 dichiarò incostituzionale l’art. 43, anche se non per motivi sostanziali, per come prospettato dal giudice a quo, ma in ragione dell’eccesso di delega (e quindi per violazione dell’art. 77 Cost.) in quanto andava oltre il «coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti» (disposizione contenuta nella legge delega n. 50/1998). 

Nonostante ciò la sentenza non mancò di rimarcare alcuni profili di illegittimità sostanziale, ed in particolare nel fatto che fosse ravvisabile un contrasto tra il testo dell’articolo e la giurisprudenza della Cedu in quanto: 

«L’espropriazione indiretta si pone in violazione del principio di legalità in quanto non è in grado di assicurare un sufficiente grado di certezza e permette all’amministrazione di utilizzare a proprio vantaggio una situazione di fatto derivante da “azioni illegali” in quanto tale forma di espropriazione non può comunque costituire una alternativa ad una espropriazione adottata secondo “buona e debita forma” […]. Pertanto non è affatto sicuro che la mera trasposizione in legge di un istituto in astratto suscettibile di perpetuare le stesse negative conseguenze dell’espropriazione indiretta sia sufficiente di per sé a risolvere il grave vulnus al principio di legalità» (19). 

Alla predetta dichiarazione di incostituzionalità però supplisce il legislatore, mediante l’introduzione nel T.u. sulle espropriazioni dell’art. 42-bis che recepisce sostanzialmente i connotati del previgente art. 43. Quest’ultimo ripropone lo schema previsto dall’art. 43, consentendo all’amministrazione, previa valutazione discrezionale, di adottare il provvedimento di acquisizione dell’immobile, che sana (stavolta in maniera irretroattiva) la precedente occupazione illegittima. Il neo-introdotto articolo in particolare dispone che:

«1. Valutati gli interessi in conflitto, l’autorità che utilizza un bene immobile in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest’ultimo forfettariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene

[…]

3.Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti l’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al comma 1 è determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l’occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell’art. 37, commi 3, 4,5,6 e 7. Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l’interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma» (20). 

Il presente articolo reintroduce la possibilità per l’Amministrazione che utilizza sulla base di un titolo invalido o assente un bene privato per ragioni di interesse pubblico, di non procedere alla restituzione al proprietario, creando, quindi, una procedura espropriativa alternativa a quella ordinaria. 

Per tale motivo anche questo ultimo articolo era stato oggetto di sospetta illegittimità costituzionale (21) ma la Corte Costituzionale ha questa volta ritenuto legittimo l’istituto dell’acquisizione sanante per come configurato dall’art. 42 bis, pronunciandosi nel 2015 sulla questione di legittimità (22). La Corte ha in particolare valorizzato l’aspetto del risarcimento del danno nella disciplina introdotta con il nuovo istituto, e in particolare ha sostenuto che si tratta di «una tutela  parzialmente ‘conformata’, in modo da garantire comunque un serio ristoro economico, prevedendosi l’esclusione delle sole azioni restitutorie» (23). 

Alla luce di questa sentenza parte della dottrina ha sostenuto che la Consulta abbia qualificato, in discontinuità con il passato, il nuovo istituto come una sorta di procedimento espropriativo semplificato, che assorbe in un unico momento sia la dichiarazione di pubblica utilità che il decreto di esproprio e sintetizza in un unico atto lo svolgimento dell’intera procedura espropriativa (24).  

Alla luce di questo excursus si può affermare che solo il formale atto di acquisizione da parte dell’amministrazione, ai sensi dell’art. 42 bis d.P.R. 327/2001 consente di produrre l’effettivo trasferimento della proprietà del bene, costituendo altrimenti l’occupazione illegittima un mero fatto, inidoneo a creare l’effetto acquisitivo (25). In assenza del provvedimento in esame l’amministrazione dovrebbe, quindi, restituire il bene, previa riduzione in pristino dei luoghi, a colui che ne è stato ingiustamente privato.

Il provvedimento di acquisizione coattiva è stato tra l’altro oggetto anche di vivaci dibattiti in merito ai rapporti che lo legano al giudizio di ottemperanza, rapporti che la Sentenza del Consiglio di Stato in esame pare aver definitivamente chiarito, e di cui si dirà nelle prossime righe. 

Il rimedio dell’ottemperanza è quel procedimento giudiziario che consente al privato di ottenere una piena tutela giurisdizionale, permettendogli di godere di quel particolare bene della vita che la sentenza passata in giudicato mirava a tutelare. Ci sono delle situazioni infatti in cui il privato non è sufficientemente soddisfatto per il solo tramite della sentenza e dai suoi connessi effetti demolitori. 

In particolare nelle ipotesi in cui vengono in rilievo interessi legittimi pretensivi (nei quali il privato mira ad ottenere un comportamento della P.a.) è necessaria l’emanazione di un provvedimento positivo da parte della stessa Pubblica amministrazione. 

Per tale motivo il giudizio di ottemperanza si rivela fondamentale, in quanto tende all’emanazione degli atti e dei provvedimenti che si rivelano necessari per soddisfare il privato e per dare effettiva compiutezza alla sentenza passata in giudicato, che dell’ottemperanza costituisce presupposto e principale presidio di legittimità. 

Tale giudizio può certamente essere definito come la più importante giurisdizione estesa al merito, in quanto al giudice dell’ottemperanza sono attribuiti i più ampi poteri al fine di sindacare l’opportunità delle scelte della P.a. od anche sostituirsi ad essa nel caso di persistenze inadempienza al giudicato. Tali poteri si estendono sino alla possibilità di nominare un commissario ad acta, ovvero un ausiliario del giudice che ha il compito di adottare il provvedimento richiesto alla P.A. entro i limiti prefissati dalla sentenza che lo nomina e gli attribuisce poteri e facoltà (26). 

Proprio il giudizio di ottemperanza e i poteri del commissario ad acta nominato in quella sede dal giudice sono al centro e costituiscono il fulcro principale della sentenza in commento. 

In particolare quest’ultima tenta di risolvere la questione relativa da un lato in quali ipotesi, in pendenza del giudizio di ottemperanza, l’amministrazione possa adottare o meno il provvedimento ex art. 42-bis d.P.R. 327/2001. In secondo luogo si interroga sui poteri del giudice (in sede di legittimità) di condannare direttamente l’amministrazione ad adottare il provvedimento in esame. Infine, il supremo consesso fornisce le motivazioni e la risposta alla questione di diritto prospettata dall’ordinanza di rimessione all’Adunanza plenaria, ovvero se, in sede di ottemperanza rientri nei poteri del giudice, e conseguentemente del commissario ad acta, la possibilità di adottare il provvedimento di acquisizione coattiva sanante.

Lo stesso Consiglio di Stato fornisce le proprie argomentazioni dopo aver analizzato i principi elaborati dalla Corte Costituzionale, dalla Corte di Cassazione, dal Consiglio di Stato e dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo in relazione all’istituto in esame. Sostengono infatti i giudici che, quale che sia la forma di manifestazione dell’occupazione, questa consiste in una condotta illecita dell’amministrazione, che incide sul diritto di proprietà e non può comportare l’acquisizione automatica del fondo, configurando al contrario un illecito permanente ai sensi dell’art. 2043 c.c. In linea di principio questa situazione di permanente illegittimità può venire a cessare, sostengono i giudici, solo qualora:  

Vi sia una effettiva restituzione del fondo;

Intervenga un accordo transattivo tra la P.a. e il privato;

Vi sia una rinunzia abdicativa di quest’ultimo;

Si venga a realizzare una compiuta usucapione, al ricorrere dei requisiti individuati dal codice civile e della recente sentenza del Consiglio di Stato (27).

Venga emanato un provvedimento ai sensi dell’art. 42-bis. 

I giudici provvedono, quindi, a chiarire alcuni aspetti dell’istituto previsto ai sensi dell’art. 42-bis. La Corte si pronuncia, in particolare sulla sua natura, affermando che se esso venisse definito come una mera «espropriazione in sanatoria» ci si troverebbe di fronte ad una norma che si pone in chiara contrapposizione con l’ordinamento generale, per come disegnato dalla normativa nazionale, comunitaria e della CEDU. 

Al contrario l’art. 42-bis deve essere letto come un procedimento ablatorio sui generis, che è caratterizzato da una precisa base legale che lo semplifica nella struttura e che non è diretto a sanare un precedente illecito perpetrato dall’amministrazione, quanto piuttosto quello a valutare le ragioni della precedente occupazione illegittima, e ad emettere un atto che le faccia proprie, rendendole legittime. Tale atto deve emergere, secondo i giudici di Palazzo Spada, solo a seguito di un iter motivazionale rafforzato e stringente e assistito da garanzie rigorose, che dimostri in modo chiaro che l’apprensione del bene si manifesta come l’unica alternativa per il perseguimento dell’interesse pubblico.  

A fare da contraltare a tale situazione, sostengono i giudici, ci sarebbe l’indennizzo espressamente previsto dalla norma, che è commisurato al valore del bene, oltre che una quantificazione anticipata del risarcimento del danno. I due istituti, effettivamente, offrirebbero un ristoro ben maggiore rispetto ad una espropriazione effettuata seguendo gli ordinari mezzi di espropriazione (28). 

Conclude la Corte con quella che ritiene una differenza fondamentale tra la norma contenuta nell’art. 43 e quella contenuta nel neo-introdotto art. 42-bis, essa infatti afferma che la nuova disposizione ha evitato di riprodurre il vulnus arrecato dal superato art. 43 t.u., ovvero quello di accordare alla P.a. la possibilità di acquisire il bene a propria discrezione con il solo pagamento di una somma pecuniaria, avendo infatti introdotto, a carico dell’’amministrazione procedente, una regola di second best, che impone una valutazione rafforzata e motivata delle situazioni alla base della decisione, e che evita che l’istituto in esame divenga di uso routinario. L’art. 42-bis, al contrario, diverrebbe nell’opinione della Corte, una espropriazione adottata secondo il canone della corretta, buona e debita forma, nel rispetto dei paradigmi predicati dalla sentenza della CEDU. 

Questa distinzione si inserisce, in maniera molto evidente nella scia delle argomentazioni tracciate dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 71/2015 che ha ravvisato la compatibilità dell’articolo in esame con la Costituzione. Era stata infatti la Consulta a qualificare il nuovo istituto come «una sorta di procedimento espropriativo semplificato, che assorbe in sé sia la dichiarazione di pubblica utilità, sia il decreto di esproprio, e quindi sintetizza “uno actu” lo svolgimento dell’intero procedimento, in presenza dei presupposti indicati dalla norma» (29). La Corte Costituzionale aveva inoltre sostenuto che con l’adozione dell’atto la Pubblica amministrazione «riprende a muoversi nell’alveo della legalità amministrativa, esercitando una funzione amministrativa ritenuta meritevole di tutela privilegiata, in funzione degli scopi di pubblica utilità perseguiti, sebbene emersi successivamente alla consumazione di un illecito ai danni del privato cittadino» (30).

A questo punto la Corte inizia ad affrontare quello che diverrà un passaggio chiave del percorso logico, necessario ai fini della soluzione della questione di diritto posta con l’ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria, ovvero quella inerente i rapporti tra il giudicato restitutorio e il potere di adottare il provvedimento di acquisizione coattiva. 

Verificare, infatti in quali situazioni la stessa amministrazione possa adottare il provvedimento in esame è ritenuto dal Consiglio di Stato come un accertamento preliminare ai fini di individuare gli esatti poteri dell’ausiliario del giudice in sede di ottemperanza. Secondo i giudici di Palazzo Spada, infatti possono porsi diverse ipotesi. 

Sostengono questi che, in primo luogo, possa porsi un rapporto con un giudicato restitutorio. In una ipotesi come quella siffatta oggetto del giudizio di ottemperanza sarebbe solamente la restituzione del bene, con la conseguente inibizione del potere di adottare il provvedimento di acquisizione coattiva sanante ex art. 42-bis in capo all’amministrazione. Così facendo l’Adunanza Plenaria supera quel filone giurisprudenziale che, al contrario, riteneva, nelle ipotesi siffatte, ammissibile applicare l’art. 42-bis (31).

Diversamente potrebbe capitare però, che, pur in presenza di un giudicato restitutorio, nelle more dell’ottemperanza il fondo subisca alterazioni tali da rendere necessario, ai fini della sua restituzione, il compimento di rilevanti attività giuridiche e materiali, che potrebbero condurre a conseguenze diverse da quelle su prospettate.  Sostiene infatti il Consiglio di Stato che in virtù di tali modificazioni il proprietario dell’immobile potrebbe perdere il suo interesse reale ed attuale alla restituzione del bene; in tali casi costui ben potrebbe non presentare una domanda di restituzione del bene ex art. 30, c.1 e 34, c.1, lett. c) ed e) c.p.a. «Da ciò conseguirebbe una decisione puramente cassatoria, con la conseguenza che residuerebbe in capo all’amministrazione il potere di adottare il provvedimento di acquisizione coattiva sanante ex art. 42-bis d.P.R. 327/2001»(32). 

In un’altra e diversa situazione, invece, nonostante le modifiche subite dal fondo, il proprietario potrebbe ancora conservare l’interesse alla restituzione, agendo, in tal caso, in rivendica. Questa domanda, però potrebbe non essere accolta, o esserlo solamente, in modo parziale e insoddisfacente per il ricorrente. In tali casi qualora all’esito, o in mancanza, degli ordinari rimedi processuali, il giudicato continua a non recare la statuizione restitutoria, l’amministrazione potrà comunque emanare il provvedimento ex art. 42-bis.

Il Consiglio di Stato, quindi, con molta precisione e dovizia di particolari, tiene a precisare quando, nelle more dell’ottemperanza, la Pubblica amministrazione possa acquisire il bene ex art. 42-bis, operando, in sostanza, una valutazione e un bilanciamento degli interessi, che consente di stabilire la legittimità del suo comportamento.  

Ma a questo punto sorge una ovvia e spontanea domanda: il giudice, in sede di impugnazione, ha il potere di emanare una sentenza con la quale condanni l’amministrazione ad emanare di punto in bianco il provvedimento in questione?

In merito a questo profilo era già emerso un contrasto in seno alle sezioni del Consiglio di Stato. 

Infatti una parte della giurisprudenza sosteneva che il giudice, in sede di ottemperanza, trattandosi di giudizio esteso al merito, poteva ordinare alla P.A. l’adozione del provvedimento acquisitivo, nonché di nominare il commissario ad acta per provvedere nelle ipotesi di sua inadempienza. Un tale orientamento si basava, in maniera evidente, sui poteri tipici del giudice in sede di giudizio esteso al merito, al quale è concesso di valutare l’interesse pubblico sotteso alla vicenda e di compiere, quindi, egli stesso la valutazione, in linea di principio spettante all’amministrazione (33). 

D’altro canto un diverso orientamento era di contrario avviso, e sosteneva l’impossibilità per il giudice di imporre l’acquisizione del bene oggetto di appropriazione. Ha sostenuto infatti il Consiglio di Stato in una sentenza contrastante con quella citata che: 

«L’amministrazione può legittimamente apprendere il bene facendo uso unicamente di due strumenti tipici, ossia il contratto, tramite l’acquisizione del consenso della controparte, o il provvedimento, e quindi, anche in assenza del consenso ma tramite la riedizione del procedimento espropriativo con le sue garanzie. […] A questi due strumenti va altresì aggiunto il possibile ricorso al procedimento espropriativo semplificato nuovamente regolamentato dall’art. 42-bis » (34). 

Questo orientamento si pone a garanzia del principio di separazione dei poteri, in quanto mantiene ferma la discrezionalità dell’amministrazione di emanare il provvedimento di acquisizione coattiva ex art. 42-bis d.P.R. 327/2001. Nonostante tutto, anche alla luce di questo orientamento, dovrebbe ritenersi prospettabile in capo al privato la possibilità di agire in sede di ottemperanza per chiedere l’applicazione dell’art. 42-bis, il quale, prevedendo una quantificazione del risarcimento del danno e di un indennizzo correlato al valore del bene, potrebbe essere per quest’ultimo più vantaggioso della restituzione del bene. 

La sentenza in commento da atto di questo contrasto giurisprudenziale e prende posizione, concordando con questo secondo orientamento e sostenendo che:  «non esiste la possibilità, tranne nel caso in cui si versi in una situazione processuale patologica, che il giudice condanni direttamente in sede di cognizione l’Amministrazione a emanare tout court il provvedimento in questione, [in quanto, ndr.] vi si oppongono da un lato il principio fondamentale di separazione dei poteri (e della riserva di amministrazione) su cui è costruito il sistema costituzionale della giustizia amministrativa, dall’altro, uno dei più importanti corollari processuali consistente nella tassatività ed eccezionalità dei casi di giurisdizione di merito sanciti dall’art. 134 c.p.a» (35)

L’Adunanza Plenaria, quindi, facendo leva sul principio di separazione dei poteri e su quello di riserva di amministrazione giunge ad affermare che il giudice non può condannare direttamente l’amministrazione ad emanare il provvedimento di acquisizione coattiva sanante.  

Questo orientamento è certamente più in linea con i principi espressi dalla CEDU ed è stato rilevato che «lascia quantomeno “astrattamente” aperta la porta alla possibilità di restituzione, e al contempo mantiene integra la discrezionalità dell’amministrazione nella scelta tra acquisizione e restituzione del bene» (36).

In realtà questa non è una affermazione così dirompente se si va poi ad analizzare il proseguo della sentenza, che nei fatti, giunge a stemperarla, ed apre alla possibilità per il giudice, seppur non in via diretta di condannare l’amministrazione all’adozione del provvedimento in questione. 

Prosegue infatti il Consiglio di Stato sostenendo che nulla vieta al giudice, adito in sede di cognizione o nell’ambito del rito sul silenzio, di imporre all’amministrazione di «decidere, ad esito libero, nel rispetto di tutte le garanzie sostanziali e procedurali, se intraprendere il procedimento per acquisire il bene ex art. 42-bis o adottare una diversa soluzione» (37) (restituire il bene o contrattare con il privato una accordo di natura transattiva). 

Dunque, mentre una condanna diretta, secondo l’Adunanza plenaria, violerebbe il principio di separazione dei poteri, una prospettazione indiretta di provvedere sarebbe legittima e rispettosa dei principi costituzionali. 

In tali casi, e anche in quello in cui il Consiglio di Stato era chiamato a giudicare, quindi, pur lasciando una libertà di scelta all’amministrazione, in merito alla restituzione del bene, alla stipula di un accordo o all’adozione del provvedimento ex art. 42-bis, ci si chiede se sia possibile, per l’ipotesi della persistente inerzia dell’amministrazione, nominare un commissario ad acta e quali siano i suoi poteri; in particolare se ad esso è concesso di adottare l’atto di acquisizione coattiva sanante (38). 

La risposta del Consiglio di Stato è affermativa, e prevede che al ricorrere dei presupposti sopra indicati il giudice adito in sede di ottemperanza potrà intervenire secondo lo schema previsto dall’art. 112 c.p.a., in via diretta, o nominando un commissario ad acta che procederà a valutare se esistono le eccezionali condizioni legittimanti l’acquisizione coattiva del bene ex art. 42 bis.

In particolare l’Adunanza plenaria formula il seguente principio di diritto: 

«Il commissario ad acta può emanare il provvedimento di acquisizione coattiva previsto dall’art. 42-bis d.P.R. 8 giugno 2011, n. 327 – Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità. :

  1. Se nominato dal giudice amministrativo a mente degli artt. 34, comma 1, lett. e), e 114, comma 4, lett. d), c.p.a., qualora tale adempimento sia stato previsto dal giudicato quo agitur;
  2. Se nominato dal giudice amministrativo a mente dell’art. 117 c. 3, c.p.a., qualora l’amministrazione non abbia provveduto sull’istanza dell’interessato che abbia sollecitato l’esercizio del potere di cui al summenzionato art. 42-bis.  

Volendo sintetizzare il complesso ragionamento seguito dal Consiglio di Stato:

  • Il giudice deve valutare se sussiste una occupazione illegittima del bene immobile privato da parte della Pubblica amministrazione.
  • Deve essere operata una valutazione circa le modalità del suo superamento, la possibilità di emanare il provvedimento ex art. 42 bis, di restituire il bene o di giungere ad un accordo con il privato. 
  • Il giudice può condannare l’amministrazione in via alternativa ad adottare uno dei sopra prospettati comportamenti, ma non potrà, in via esclusiva, condannare l’amministrazione ad adottare il provvedimento di acquisizione coattiva sanante ex art. 42 bis.
  • In caso di inadempimento dell’amministrazione il privato potrà agire in sede di ottemperanza, potendo anche chiedere (ove lo ritenga conveniente) che l’amministrazione adotti il provvedimento ai sensi dell’art. 42-bis.
  • In sede di ottemperanza il giudice può valutare direttamente la sussistenza dei presupposti per l’emanazione del provvedimento ai sensi dell’art. 112 c.p.a. o nominare un commissario ad acta.
  • Il commissario nominato avrà gli stessi poteri dell’amministrazione di emanare il provvedimento valutando la sussistenza dei presupposti di legge, attenendosi inoltre alle statuizioni contenute nella sentenza che lo nomina.
  • Il commissario ad acta potrà però adottare il provvedimento ex art. 42-bis solo se non si è in presenza di un giudicato restitutorio, ovvero in tutte quelle ipotesi in cui il giudice abbia condannato l’amministrazione, ad esito libero a pronunciarsi definitivamente sulla vicenda. 

 

NOTE

 (1) In merito alla natura e all’ammontare dell’indennità di espropriazione è sorta una lunga e articolata vicenda. L’originario criterio (risalente alla l. 2359/1865), commisurava l’indennità di esproprio al valore venale del bene, ed era riferito al prezzo che il bene avrebbe avuto in una libera contrattazione di compravendita. Tuttavia, pur nel vigore della norma, tale determinazione nella quasi totalità delle ipotesi finiva per essere astratta e approssimativa, tanto che in materia è intervenuta la Corte Costituzionale con ripetute sentenze (Corte Costituzionale n. 61, 13 maggio 1957; Corte Costituzionale n. 67, 29 dicembre 1959), la quale ha stabilito che l’indennizzo, pur non dovendo corrispondere all’integrale valore del bene, non deve essere neanche di natura meramente simbolica. Sono seguite, poi negli anni diverse modifiche all’assetto legislativo, nonché si è pronunciata in materia anche la CEDU («l’indennizzo non è legittimo se non consiste in una somma che si ponga in rapporto ragionevole con il valore del bene»; Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 30 maggio 2000, ricorso n. 3152/96). Cfr. L. Tarantino, La disciplina dell’indennità d’esproprio tra diritto nazionale e diritto europeo, Nota a Cass. sez. I civ. 25 novembre 2010, n. 23965, Urbanistica e appalti, 3 (2011), pp. 303-311; G. Fraccastoro, L’indennità di espropriazione per P.U. commisurata al pieno valore di mercato, in Il corriere di Merito, 2 (2008), pp. 221-225. Alla luce della sentenza su citata la Corte Costituzionale ha dichiarato nel 2007 (Corte Costituzionale, 24 ottobre 2007, n. 348) l’illegittimità dell’art. 37 d.P.R. n. 327/2001, nella parte in cui prevede un criterio di calcolo fondato sulla media tra il valore venale del bene e il reddito dominicale. Secondo la Consulta l’indennità deve consistere in un serio ristoro. Da ultimo il legislatore ha modificato i commi oggetto di dichiarazione di incostituzionalità (l. 24 dicembre 2007, n. 244) prevedendo un’indennità commisurata al valore venale del bene (ridotta del 25% in caso di interventi di riforma economico-sociale). 

(2) Si veda il secondo paragrafo di questo studio. 

(3)  Tar Puglia, Sezione I, 19 novembre 2008, n. 3342

(4)  Per una digressione sull’evoluzione dell’istituto si veda il secondo paragrafo del presente studio. 

(5)  Si veda il secondo paragrafo del presente capitolo. 

(6)  Consiglio di Stato, Sezione IV, 3 luglio 2014, ordinanza n. 3347.

(7)  G.Mari, Occupazioni sine titulo, espropriazione indiretta, acquisizione sanante e obblighi restitutori: gli orientamenti della giurisprudenza (ordinaria e amministrativa) a confronto, in Rivista giuridica dell’edilizia, 1-2 (2016), pp. 69-120.

(8)  Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 10 giugno 1983, n. 1464.

(9)  Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 10 giugno 1983, n. 1464.

(10)  G. Morbidelli, L’acquisizione sanante tra consulta, Strasburgo, Palazzo Spada, Palazzaccio: fine (o quasi) degli incidenti di percorso?, in Giurisprudenza costituzionale, 6 (2015), pp. 2319- 2342. 

(11)  Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 10 giugno 1988, n. 3490.

(12)  Corte Costituzionale, 27 dicembre 1991, n. 486. 

(13)  Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 30 maggio 2000, ricorso n. 3152/96.

(14)  Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 30 maggio 2000, ricorso n. 3152/96.

(15)  G. Morbidelli, L’acquisizione sanante tra consulta, Strasburgo, Palazzo Spada, Palazzaccio: fine (o quasi) degli incidenti di percorso?, in Giurisprudenza costituzionale, 6 (2015), pp. 2319- 2342

(16)  R. Galli, Corso di diritto amministrativo, Padova, CEDAM, 2011, vol. 2, p. 1071. 

(17)  Art. 43 D.P.R. 327/2001 “Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, nei casi previsti nei precedenti commi il risarcimento del danno è determinato: 

a) nella misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e se l’occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell’art. 37, commi 3,4,5,6 e 7;

b) col computo degli interessi moratori a decorrere dal giorno in cui il terreno sia stato occupato senza titolo. 

(18) G. Morbidelli, L’acquisizione sanante tra consulta, Strasburgo, Palazzo Spada, Palazzaccio: fine (o quasi) degli incidenti di percorso?, in Giurisprudenza costituzionale, 6 (2015), pp. 2319- 2342.

(19)  Corte Costituzionale, 8 ottobre 2010, n. 293; cfr. E. Furno, La Corte Costituzionale elimina l’acquisizione coattiva sanante nella storia infinita degli espropri extra ordinem, nota a C. Cost. 8 ottobre 2010, n. 293, in Giurisprudenza costituzionale, 5 (2010), pp. 3816-3828.

(20)  Articolo 42-bis D.P.R. 327/2001. 

(21)  Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 13 gennaio 2014, ordinanza n. 441.

(22)  Corte Costituzionale, 30 aprile 2015, n. 71.

(23)  G.Grisi, L’acquisizione sanante supera il vaglio di costituzionalità, nota a C. Cost. 30 aprile 2015, n. 71, in Europa e diritto privato, 2 (2015), pp. 968-976.

(24)  G.Mari, Occupazioni sine titulo, espropriazione indiretta, acquisizione sanante e obblighi restitutori: gli orientamenti della giurisprudenza (ordinaria e amministrativa) a confronto, in Rivista giuridica dell’edilizia, 1-2 (2016), p. 118.

(25)  Consiglio di Stato, Sezione IV, 3 luglio 2014, ordinanza n.3347

(26)  R. Galli, Novità normative e giurisprudenziali di diritto civile, diritto penale e diritto amministrativo, volume II, 2012-2015, Padova, CEDAM, 2015.

(27)  La questione dell’usucapibilità, in realtà non è stata esente da critiche in dottrina; Cfr.  G. Mari, Occupazioni sine titulo, espropriazione indiretta, acquisizione sanante e obblighi restitutori: gli orientamenti della giurisprudenza (ordinaria e amministrativa) a confronto, in Rivista giuridica dell’edilizia, 1-2 (2016), p.113.

(28)  Ed in effetti in dottrina, facendo leva sul testo della norma, che prevede l’intervento obbligatorio della Corte dei Conti, è stata prospettata la possibilità di configurare una responsabilità contabile del funzionario pubblico nelle ipotesi in esame; in merito va detto che la Corte dei Conti è restia ad adottare tale soluzione in quanto ritiene che il provvedimento ex art. 42-bis non costituisca un illecito, poiché espressamente regolato da una norma di legge. Cfr. P.Patrito, Brevi considerazioni sull’applicazione dell’art. 42-bis, d.P.R. n. 327/2001, nel giudizio contabile, Nota a C. Conti CL sez. giur. 20 aprile 2015, n.73, in Responsabilità civile e previdenza, 2 (2016), pp. 611-620.

(29)  Corte Costituzionale, 30 aprile 2015, n. 71.

(30)  Sent. Cit.; Cfr. R. Ghisondi, Acquisizione sanante – condanna alla restituzione dell’area illegittimamente occupata ed acquisizione sanante: un problema ancora aperto, nota a Consiglio di Stato, Sezione IV, 21 settembre 2015, n. 4404, in Giurisprudenza Italiana, 2(2016), p. 243.

(31)  Cfr. Consiglio di Stato, Sezione IV, 16 maggio 2013, n. 2679; Tar Molise, Campobasso, 6 maggio 2014, n. 293: “diversamente argomentando, ritenendo cioè che il giudicato di restituzione valga ad inibire all’Amministrazione anche l’esercizio ex novo dei suoi poteri ablatori, significherebbe conferire al bene una sorta di immunità dal potere amministrativo che non può essere riconosciuta”. 

(32)  Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 9 febbraio 2016, n. 2.

(33)  Consiglio di Stato, Sezione VI, 1 dicembre 2011, n. 6351; Consiglio di Stato, Sezione VI, 16 marzo 2012, n. 1514.

(34)  Consiglio di Stato, Sezione IV, 2 settembre 2011, n. 4969.

(35)  Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 9 febbraio 2016, n. 2.

(36)  G. Tropea, Le persistenti “valvole di sicurezza nel sistema”: l’acquisizione sanante come questione di stretto diritto processuale?, in Il diritto processuale amministrativo, 2 (2016), p 623.

(37)  Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 9 febbraio 2016, n.2

(38)  Come già fatto da alcuni tribunali amministrativi regionali; Tal Calabria, Reggio Calabria, 26 marzo 2015 n.307. 

 

 

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