Monday 29 May 2017 10:38:32

Giurisprudenza  Uso del Territorio: Urbanistica, Ambiente e Paesaggio

Titoli edilizi: il termine per impugnare

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV del 25.5.2017

"Come insegna consolidata giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 29 luglio 2011, n. 15), il termine per l’impugnazione di un titolo edilizio emesso a favore di terzi comincia a decorrere solo dall’ultimazione dei lavori o, quanto meno, dal momento in cui il relativo avanzamento disvela univocamente le specifiche caratteristiche strutturali e dimensionali dell’erigendo manufatto (Cons. Stato, Sez. V, 27 giugno 2012, n. 3777; Sez. VI, 28 aprile 2010, n. 2439). Oltretutto, grava su chi assume la tardività del ricorso l’onere di provare con idonei argomenti che, anche prima del completamento dei lavori, fosse con chiarezza evincibile la prospettica lesione dell’interesse del ricorrente. Del resto, la lesione della proprietà per l’altrui violazione delle distanze determina ex se un danno-conseguenza, sub specie di diminuzione del godimento e delle utilità ritraibili dal bene (da ultimo Cass., Sez. 2, 27 marzo 2013, n. 7752; 7 maggio 2010, n. 11196)." Per saperne di piu vai alla sentenza.

 

Testo del Provvedimento (Apri il link)


Pubblicato il 25/05/2017

N. 02453/2017REG.PROV.COLL.

N. 02279/2014 REG.RIC.

N. 03068/2014 REG.RIC.

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2279 del 2014, proposto da Antonio Ottaviani e Giovanna Voltattorni, rappresentati e difesi dagli avvocati Maria Giovanna Pallottini Grano ed Andrea Galvani, con domicilio eletto presso lo studio Andrea Galvani in Roma, via Salaria, n. 95; 

contro

Stella Merlini, Filomena (Delfina) Angelici e Paolo Petrocchi, rappresentati e difesi dagli avvocati Francesco Vagnucci ed Arturo Cancrini, con domicilio eletto presso lo studio Arturo Cancrini in Roma, piazza San Bernardo, n. 101; 

nei confronti di

Comune di Grottammare, non costituito in giudizio; 



sul ricorso numero di registro generale 3068 del 2014, proposto da Comune di Grottammare, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati Massimo Spinozzi ed Alessandro Travaglini, con domicilio eletto presso lo studio Alessandro Travaglini in Roma, via Eleonora Duse, n. 53; 

contro

Stella Merlini, Filomena (Delfina) Angelici e Paolo Petrocchi, rappresentati e difesi dagli avvocati Francesco Vagnucci ed Arturo Cancrini, con domicilio eletto presso lo studio Arturo Cancrini in Roma, piazza San Bernardo, n. 101; 
Antonio Ottaviani e Giovanna Voltattorni, non costituiti in giudizio; 

per la riforma

della sentenza del T.a.r. Marche n. 570 del 25 luglio 2013, resa tra le parti, concernente concessione edilizia;

 

 

Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Stella Merlini, Filomena (Delfina) Angelici e Paolo Petrocchi;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 6 aprile 2017 il Cons. Luca Lamberti e uditi per le parti gli avvocati A. Galvani, F. Vannucci A. Vinente su delega di A. Travaglini, F. Vagnucci;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

 

FATTO e DIRITTO

I signori Angelici Filomena, Merlini Stella, Petrocchi Paolo e Spano Antonio hanno impugnato innanzi al T.a.r. Marche dapprima, con ricorso allibrato al n.r.g. 740/1991 poi seguito da motivi aggiunti, la concessione edilizia n. 91 del 23 agosto 1990 (nonché, “per quanto occorrer possa”, l’antecedente concessione in sanatoria n. 1558 del 18 novembre 1989), quindi, con ricorso allibrato al n.r.g. 1314/1992, la successiva concessione in variante n. 338 del 9 gennaio 1992 (nonché, “per quanto occorrer possa”, l’antecedente concessione n. 8199 del 26 luglio 1991), rilasciate dal Comune di Grottammare a favore dei signori Ottaviani Antonio e Voltattorni Giovanna per la ristrutturazione di un fabbricato di loro proprietà sito in Comune di Grottammare, via Petrarca, n. 11.

I ricorrenti, proprietari di immobili adiacenti, assumevano che l’intervento de quo, determinando in tesi l’elevazione dell’edificio e l’aumento della volumetria, non sarebbe stato conforme alla disciplina urbanistica vigente.

Costituitisi il Comune ed i contro-interessati, il T.a.r. provvedeva, con ordinanza n. 74 del 15 giugno 2010, a riunire i ricorsi ed a disporre verificazione, tesa ad acclarare l’effettiva conformità dell’intervento de quoalla normativa urbanistica ed edilizia dell’epoca.

Depositata la relazione di verificazione, i ricorsi riuniti venivano dichiarati perenti: con successivo decreto, tuttavia, la perenzione veniva revocata, ai sensi dell’art. 1, comma 2, dell’Allegato 3 del c.p.a., nei confronti dei soli ricorrenti Merlini, Angelici e Petrocchi.

Infine, la causa veniva trattenuta in decisione alla pubblica udienza del 23 maggio 2013.

Con la sentenza indicata in epigrafe il T.a.r. respingeva le eccezioni di rito svolte dal Comune e dai contro-interessati (nominatim, irricevibilità ed improcedibilità dei ricorsi) ed accoglieva il ricorso a spese compensate.

Il T.a.r., in particolare, riteneva che “è innegabile la qualificazione dell'intervento in questione quale nuova costruzione e non quale ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione, essendo incontestato il mutamento della sagoma del fabbricato mediante sopraelevazione per quanto riguarda il permesso di costruire 90/91 e l’aumento della volumetria con la concessione in variante 331/92, nonché il mancato rispetto delle distanze di cui al DM 1444/68”.

I contro-interessati ed il Comune hanno interposto distinti appelli, riproponendo criticamente, sotto forma di censure, le difese di rito e di merito già svolte in prime cure.

Costituitisi gli appellati, i due ricorsi sono stati discussi alla pubblica udienza del 6 aprile 2017, in vista della quale le parti hanno versato in atti memorie scritte.

I due ricorsi, che debbono essere riuniti a tenore dell’articolo 96, comma 1, c.p.a., non meritano accoglimento.

In ambedue i ricorsi si censura, anzitutto, l’assunta irricevibilità dei motivi aggiunti notificati, nell’ambito del ricorso allibrato al n.r.g. 740/1991, in data 31 gennaio 1992 e recanti ulteriori censure nei confronti degli atti ivi impugnati, poiché i ricorrenti tutti, in esito all’accoglimento da parte del Comune dell’istanza di accesso svolta in data 17 aprile 1991 dalla sola sig.ra Angelici, avrebbero avuto sin dal 18 aprile 1991 “copia non solo della concessione edilizia n. 90/1991, ma anche di tutta la pratica edilizia e, quindi, delle relazioni allegate e delle relative planimetrie e degli elaborati grafici”.

La censura non è fondata.

Anzitutto, non vi è prova liquida del fatto che la signora Angelici abbia, in esito alla propria istanza di accesso, ricevuto copia non solo della concessione edilizia n. 90/1991, ma anche di tutta la relativa pratica; anzi, la formulazione, nel corpo del ricorso, di una specifica istanza istruttoria tesa ad ottenere jussu judicis l’ostensione della pratica de qua lascia propendere per la risposta negativa.

In secondo luogo, non vi sono comunque concreti e specifici elementi per assumere che di tale eventuale (e non dimostrata) conoscenza si siano giovati pure gli altri ricorrenti, a quanto consta non legati alla sig.ra Angelici neppure dal vincolo di contitolarità del medesimo bene, giacché essi sono proprietari di altri e diversi edifici, pur sempre attigui a quello oggetto di causa.

I motivi aggiunti, quindi, sono, per quanto processualmente accertabile, tempestivi, valendo come dies a quo del termine di impugnazione la data del deposito agli atti del giudizio della documentazione completa della pratica edilizia de qua da parte del Comune (3 dicembre 1991).

In entrambi i ricorsi viene sollevata pure la questione dell’assunta irricevibilità del ricorso n.r.g. 740/1991, notificato in data 8 giugno 1991 benché i lavori fossero iniziati sin dal 18 marzo 1991.

La censura è infondata, giacché, come insegna consolidata giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 29 luglio 2011, n. 15), il termine per l’impugnazione di un titolo edilizio emesso a favore di terzi comincia a decorrere solo dall’ultimazione dei lavori o, quanto meno, dal momento in cui il relativo avanzamento disvela univocamente le specifiche caratteristiche strutturali e dimensionali dell’erigendo manufatto (Cons. Stato, Sez. V, 27 giugno 2012, n. 3777; Sez. VI, 28 aprile 2010, n. 2439). 

Oltretutto, grava su chi assume la tardività del ricorso l’onere di provare con idonei argomenti che, anche prima del completamento dei lavori, fosse con chiarezza evincibile la prospettica lesione dell’interesse del ricorrente.

Ancora, ambedue i ricorsi stigmatizzano l’asserita improcedibilità dei ricorsi di prime cure, “dato che i ricorrenti Merlini Stella e Petrocchi Paolo non risiedono più in zona, avendo ceduto ogni loro proprietà in via Petrarca tra il 1997 e il 2004”.

Pure questa censura non merita accoglimento.

In disparte il fatto che la lamentata causa di improcedibilità attiene a due soltanto dei ricorrenti, residua comunque in capo a loro un prospettico interesse risarcitorio che non consente di predicare la sopravvenuta carenza di interesse, istituto processuale richiamabile solo allorché consti l’integrale, certa, definitiva ed oggettiva evaporazione di ogni interesse alla decisione del ricorso.

Del resto, la lesione della proprietà per l’altrui violazione delle distanze determina ex se un danno-conseguenza, sub specie di diminuzione del godimento e delle utilità ritraibili dal bene (da ultimo Cass., Sez. 2, 27 marzo 2013, n. 7752; 7 maggio 2010, n. 11196).

Quanto al merito, dalla verificazione disposta in prime cure è emerso che gli interventi de quibus hanno determinato la sopraelevazione del fabbricato e l’aumento della relativa volumetria.

In particolare, il verificatore ha acclarato:

- che “gli interventi eseguiti hanno comportato la realizzazione – in luogo di un fabbricato preesistente costituito da un piano terra e un piano sottotetto con altezza alla gronda pari a mt. 5,70 – di un fabbricato costituito da piano terra-portico, primo piano, secondo piano e piano sottotetto praticabile, con altezza alla gronda pari a mt. 9,40”; 

- che “l’intervento assentito con concessione n. 91/1990 ha comportato aumenti volumetrici rispetto al preesistente fabbricato”; 

- che “con l’intervento autorizzato con la concessione in sanatoria n. 338/1992 sono stati ricavati due uffici per complessivi mc 90.09 utilizzando parte del portico a piano terra: per compensare tale incremento volumetrico è stato escluso dal computo delle volumetrie – erroneamente, in quanto in contrasto con gli art. 26 del R.E.C. e 40 delle N.T.A. del P.R.G. – l’esistente vano scala, pur essendo lo stesso completamente chiuso su tre lati, per un volume peraltro pari a mc 72.55 che, comunque, risulta minore di quello aggiunto”;

- che “nella concessione in sanatoria n. 338/1992 non è stato computato il piano sottotetto – peraltro ulteriormente ampliato in termini di superficie utilizzabile con gli interventi in variante oggetto della concessione – sempre, dunque, in contrasto con gli art. 26 del R.E.C. e 40 delle N.T.A. del P.R.G.”.

Il notevole incremento dimensionale dell’edificio esclude prima facie che si verta in ambito di ristrutturazione edilizia: si è, invece, al cospetto di un’attività di nuova costruzione, giacché l’organismo edilizio risultante dai lavori ha sagoma, altezza, volumetria e superficie diversi e superiori rispetto al precedente (cfr., in tema di distinzione fra mera ristrutturazione e ricostruzione, da un lato, e nuova costruzione, dall’altro, da ultimo Cass., Sez. Unite, ord. 19 ottobre 2011, n. 21578; v. anche Cass. Sez. 2, 20 agosto 2015, n. 17043; 3 marzo 2008, n. 5741).

Emerge, inoltre, la violazione della normativa in punto di distanze legali rispetto ai vicini fabbricati, a quanto consta (cfr., ancora, la relazione di verificazione) non rispettata.

Gli appellanti Ottaviani e Voltattorni, in proposito, eccepiscono: che “l’altezza dell’edificio, anche a seguito dell’intervento contestato, è pari a mt. 9,40 rispetto a mt. 11 consentiti dal P.R.G.”; che non si verifica alcun aumento della volumetria, sia perché “la trasformazione del piano terra, adibito a civile abitazione, a portico” consente un “recupero del volume, da sfruttare per la realizzazione del piano secondo”, sia perché il sottotetto “ottenuto con la ristrutturazione risulta escluso sia dal calcolo della volumetria globale sia da quella dell’altezza massima, non presentando le caratteristiche di abitabilità” e, quindi, non potendo essere computato nemmeno quale locale adibito a “servizi comuni”; che “i due uffici per complessivi mc 90,09 ed il vano scala sono stati oggetto di specifiche concessioni in sanatoria” rilasciate nel 1999 e non impugnate ex adverso; che non vi sarebbe, comunque, violazione in punto di distanze, giacché l’art. 18 delle N.T.A. del P.R.G. “non prevedeva, per le zone B/1, l’indice Di (distanze interne o dai confini) né quello Df (distanze tra fabbricati)”.

Il Comune, dal canto suo, premesso che “la struttura originaria, costituita da un piano terra e da un piano sottotetto abitabile”, è stata trasformata “in un edificio costituito da un piano terra aperto su tre lati (adibito a porticato), un piano primo, un piano secondo oltre ad un sottotetto non abitabile”, sostiene che l’intervento sia rispettoso della disciplina urbanistica ed edilizia, in quanto “ha mantenuto intatto il perimetro di base ed ha conservato i volumi esistenti”. 

Inoltre, prosegue il Comune, nella specie sarebbe applicabile il disposto dell’art. 18 delle N.T.A. del P.R.G. all’epoca vigente, “norma che non prevedeva il rispetto di alcuna distanza tra i confini (anche in ragione del fatto che l’edificio è inserito in un quartiere caratterizzato da distacchi minimi fra i fabbricati), mentre consentiva la possibilità di allineamento agli edifici esistenti per quanto attiene il rispetto dei distacchi dalle strade”.

Le eccezioni non colgono nel segno.

L’altezza massima prevista dal P.R.G. costituisce un vincolo generale che conforma la successiva attività amministrativa di rilascio dei singoli provvedimenti abilitativi, non una generica licenza ai privati di costruire liberamente sino all’altezza di mt. 11; in disparte, poi, ogni questione in punto di volumetria, la sopraelevazione del preesistente fabbricato (dato oggettivo ed incontestato) determina una significativa estensione spaziale, in particolare altimetrica, della relativa sagoma e, pertanto, impone eo ipsol’ascrizione dell’intervento autorizzato con la concessione edilizia n. 91 del 23 agosto 1990 nella categoria giuridica della nuova costruzione, con conseguente violazione della disciplina urbanistica e delle distanze legali; la realizzazione di due uffici al piano terra mediante parziale chiusura del portico, autorizzata con la concessione in variante n. 338 del 9 gennaio 1992, determina, come insegna consolidata giurisprudenza (da ultimo Cons. Stato, Sez. V, 5 maggio 2016, n. 1822; Sez. IV, 19 gennaio 2016, n. 161; 30 settembre 2013, n. 4851), la creazione di nuova volumetria (pari a mc 90,09), comunque superiore rispetto a quella per così dire “recuperata” mediante l’esclusione (di cui è, quindi, superfluo scrutinare la correttezza) dal computo volumetrico del vano scale (pari a mc 72,55): dunque, configura anch’essa, pure in virtù del conseguente mutamento della sagoma del fabbricato, nuova costruzione, che risulta in violazione della disciplina urbanistica e delle distanze legali; non hanno, in proposito, rilievo i successivi condoni edilizi rilasciati ex lege 23 dicembre 1994, n. 724 in data 29 ottobre 1999, sia perché presupponenti ex lege proprio un incremento abusivo della volumetria del fabbricato, sia, comunque, perché riferiti singulatim a specifici interventi costruttivi in sé e per sé considerati e non all’unitario edificio nel suo insieme (del resto, la stessa relazione del Comune – Area Assetto Territorio del 2 maggio 2011, depositata nel giudizio di primo grado in data 10 maggio 2011, precisa che “tali pratiche di condono” non hanno previsto la sanatoria dell’intero edificio), sia, infine, perché strutturalmente non idonei a sanare il profilo della violazione delle distanze; le norme del N.T.A. del P.R.G. non possono derogare alle distanze legali stabilite imperativamente dall’art. 9 del decreto interministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 (emanato in esecuzione dell’art. 41-quinquies della l. 17 agosto 1942, n. 1150, a sua volta introdotto dall’art. 17 della l. 6 agosto 1967, n. 765) per i casi di nuova costruzione in zone “B” di completamento.

Né vale a conferire spessore alle prospettazioni degli appellanti il disposto dell’art. 1 della l.r. Marche 4 settembre 1979, n. 31.

Questa disposizione consente, al primo comma, l’ampliamento degli edifici “aventi impianto edilizio preesistente compresi nelle zone di completamento con destinazione residenziale” e, al secondo comma, precisa che tali ampliamenti possono farsi “anche in deroga alle distanze e/o al volume stabiliti per le suddette zone territoriali omogenee dal D.M. 2 aprile 1968, n. 1444”.

L’attuazione di tale previsione è affidata ai Comuni, tenuti, in base ad uno specifico procedimento delineato al successivo comma 2, a “distinguere gli edifici aventi bisogno di deroga dai distacchi, quelli aventi bisogno di completamento volumetrico, quelli aventi bisogno sia di completamento volumetrico sia di deroga dai distacchi”: a tale procedimento è attribuita dalla stessa legge, al successivo art. 2, l’efficacia di piano particolareggiato.

La Corte Costituzionale, con sentenza 23 gennaio 2013, n. 6, ha dichiarato incostituzionale il secondo comma del citato art. 1.

La Corte, premesso che “in linea di principio la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale”, ha aggiunto che “alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio”.

Pertanto, ha proseguito, “la legislazione regionale che interviene in tale ambito è legittima solo in quanto persegue chiaramente finalità di carattere urbanistico, rimettendo l’operatività dei suoi precetti a «strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 232 del 2005).

Nella specie, tuttavia, “la norma regionale censurata infrange i principi sopra ricordati, in quanto consente espressamente ai Comuni di derogare alle distanze minime fissate nel d.m. n. 1444 del 1968, senza rispettare le condizioni stabilite dall’art. 9, ultimo comma, del medesimo decreto ministeriale, che, come si è detto, esige che le deroghe siano inserite in appositi strumenti urbanistici, a garanzia dell’interesse pubblico relativo al governo del territorio. La disposizione regionale impugnata, al contrario, autorizza i Comuni ad «individuare gli edifici» dispensati dal rispetto delle distanze minime. La deroga non risulta, dunque, ancorata all’esigenza di realizzare la conformazione omogenea dell’assetto urbanistico di una determinata zona, ma può riguardare singole costruzioni, anche individualmente considerate”.

In particolare, “la procedura delineata dal legislatore regionale non è dunque conforme ai principi sopra enunciati”, giacché “il legislatore regionale pretende di attribuire gli effetti tipici degli strumenti urbanistici a un procedimento che non ne rispecchia la sostanza e le finalità. L’attribuzione, per via legislativa, della qualifica formale di piano particolareggiato ad una procedura che del piano urbanistico non ha le caratteristiche, perché permette di derogare caso per caso alle regole sulle distanze tra edifici, non offre alcuna garanzia che la legge regionale persegua quelle finalità pubbliche di governo del territorio che, sole, possono giustificare l’esercizio di una competenza legislativa regionale in un ambito strettamente connesso alla competenza statale in materia di «ordinamento civile»”.

La dichiarazione di incostituzionalità, dunque, travolge tutta la procedura de qua, giudicata dalla Corte contrastante con il riparto delle competenze legislative fissato dalla Costituzione.

Nessun rilievo, pertanto, può rivestire nella specie l’intervenuta emanazione nel 1981, da parte del Comune, del piano particolareggiato (recte del provvedimento comunale legislativamente equiparato, quanto all’efficacia, ad un piano particolareggiato), che, secondo gli appellanti, avrebbe reso legittimo l’intervento de quo.

L’incostituzionalità dell’intera procedura divisata dalla disposizione legislativa regionale, infatti, determina inevitabilmente, “a valle”, la caducazione automatica di tale “piano” - quale provvedimento amministrativo non (più) sorretto da una valida base legale, espunta ex tunced erga omnes dall’ordinamento dalla pronuncia della Corte – e, in particolare, l’eliminazione dei relativi effetti lato sensu abilitativi ed ampliativi per il privato e, specularmente, rende irrilevante la mancata impugnazione del medesimo da parte degli odierni appellati.

Di converso, la pendenza di un procedimento giurisdizionale al momento della sentenza della Corte osta in radice alla possibilità di ravvisare nella specie un “rapporto esaurito”.

Le esposte argomentazioni rendono superfluo scrutinare l’ulteriore difesa svolta dagli appellati ed incentrata sul fatto (peraltro ammesso ex adverso – cfr. pag. 19 del ricorso allibrato al n.r.g. 2279/2014) che né le istanze dei signori Ottaviani-Voltattorni, né i conseguenti titoli edilizi rilasciati dal Comune facevano riferimento alla cennata l.r. 4 settembre 1979, n. 31 o, comunque, ne seguivano le coordinate procedimentali.

Il regolamento delle spese di lite, liquidate come in dispositivo, segue la soccombenza.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sugli appelli riuniti, come in epigrafe proposti, li rigetta.

Condanna Antonio Ottaviani e Giovanna Voltattorni, in ragione di metà, ed il Comune di Grottammare, in ragione dell’altra metà, a rifondere ai signori Stella Merlini, Filomena (Delfina) Angelici e Paolo Petrocchi le spese di lite, liquidate in complessivi € 6.000,00 (euro seimila/00), oltre accessori come per legge, con il vincolo della solidarietà.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 6 aprile 2017 con l'intervento dei magistrati:

 

 

Antonino Anastasi, Presidente

Fabio Taormina, Consigliere

Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere

Giuseppe Castiglia, Consigliere

Luca Lamberti, Consigliere, Estensore

 

 

 

 

     
     
L'ESTENSORE   IL PRESIDENTE
Luca Lamberti   Antonino Anastasi
     
     
     
     
     

IL SEGRETARIO

 

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