Sunday 09 February 2014 09:26:02

Giurisprudenza  Uso del Territorio: Urbanistica, Ambiente e Paesaggio

Certificato di destinazione urbanistica: la domanda di risarcimento del danno derivante dal rilascio di un certificato urbanistico errato non rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

Il Consiglio di Stato richiama nella sentenza in esame quanto di recente osservato dal T.A.R. Lazio Latina Sez. I, 22-05-2013, n. 482 secondo cui ”il certificato di destinazione urbanistica redatto dal pubblico ufficiale è atto meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti giuridici che da esso risultano: effetti che discendono, invece, da precedenti provvedimenti, i quali hanno determinato la situazione giuridica acclarata con il certificato . Se ne desume che tale atto non ha natura provvedimentale ed è sprovvisto di concreta lesività e, dunque, non è suscettibile di impugnazione. Pertanto, la domanda di risarcimento del danno derivante dal rilascio di un certificato urbanistico errato non rientra nella giurisdizione del G.A.”. Ove in tal senso dovesse essere intesa la domanda dell’appellante (ma non ritiene il Collegio vi siano indici univoci per ciò ritenere) questo Collegio dovrebbe declinare in parte qua la giurisdizione: pur tenendo conto del disposto di cui all’art. 9 del cpa, pienamente applicabile alla fattispecie per cui è causa, va rilevato che nel presente procedimento il Tar ha respinto la domanda, non ritenendo la giurisdizione neppure in modo implicito quanto a tale prospettazione del petitum risarcitorio, e non prendendola neppure in esame, ritenendola all’evidenza legata alla procedura localizzativa (così si esprime il Tar, in proposito: “la parziale improcedibilità e comunque la non fondatezza delle censure dedotte da parte ricorrente determinano, a propria volta, la reiezione dell’ulteriore domanda di risarcimento del danno, in mancanza di un’attività amministrativa illegittima cui ricondurre la genesi di un danno ingiusto ed in presenza di una specifica procedura prevista dalla legge per il ristoro economico del danno derivante dall’esproprio della porzione di area in esame”). Questo Giudice d’appello sarebbe quindi facultizzato (così qualificata la domanda, rilevato il –comunque non dedotto da parte appellante- vizio ex art. 112 cpc, e decidendola nel merito) a rilevare ex officio e per la prima volta la carenza di giurisdizione, non essendovi accertamento né esplicito né implicito sul punto (arg: Cons. Giust. Amm. Sic., 04-06-2013, n. 548 il”G.A. può rilevare in ufficio per la prima volta in appello il difetto di giurisdizione ogni qualvolta in primo grado le questioni controverse estranee all'ambito della cognizione amministrativa non siano state esaminate, nemmeno implicitamente, dal Tar”). Per proseguire nella lettura della sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

 

Testo del Provvedimento (Apri il link)

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

 

sul ricorso numero di registro generale *** del 2013, proposto da:

Francesco Testa, rappresentato e difeso dagli avv. Luciano De Luca, Gianfranco Passalacqua, Thomas Layne, con domicilio eletto presso Gianfranco Passalacqua in Roma, via Giovanni Vitelleschi, 26;

 

contro

Comune di Cantalupo in Sabina, in persona del legale rappresentante in carica rappresentato e difeso dall'avv. Roberto Venettoni, con domicilio eletto presso Roberto Venettoni in Roma, via Cesare Fracassini 18; 

per la riforma

della sentenza del T.A.R. del LAZIO – Sede di ROMA - SEZIONE II BIS n. 03410/2013, resa tra le parti, concernente procedura espropriativa per realizzazione impianto di fitodepurazione - approvazione progetto e variante al prg - ris. danni

 

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Cantalupo in Sabina;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 gennaio 2014 il Consigliere Fabio Taormina e uditi per le parti gli Avvocati Di Cunzolo, per delega dell'Avv. Passalacqua, e Venettoni;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

 

FATTO

Con la sentenza in epigrafe appellata, resa alla camera di consiglio fissata per la delibazione della domanda cautelare il Tribunale amministrativo regionale del Lazio– sede di Roma - ha respinto il ricorso di primo grado integrato da motivi aggiunti proposto dalla odierna parte appellante, Testa Francesco volto ad ottenere l’annullamento degli atti con i quali era stata disposta l’espropriazione di terreni di propria pertinenza.

Il Tar ha in proposito rammentato che con delibera consiliare n. 18 del 23.11.2008 il Comune di Cantalupo Sabina aveva approvato il progetto per il rifacimento della rete fognante del capoluogo e la realizzazione di un impianto di fitodepurazione per un importo di € 300.000,00 finanziato dalla Regione Lazio con delibera di G.R. n. 668/2007, aveva quindi adottato la Variante urbanistica al vigente P.R.G., consistente nella trasformazione di una parte della part. 32 del foglio 12 da zona "agricola E2" ad area per "servizi pubblici - impianti tecnologici ed autorizzato l'avvio per la procedura espropriativa per l'acquisizione del terreno da occupare per la realizzazione dell' opera, dandone formale comunicazione a coloro che risultavano proprietari dell'area.

Detti atti erano stati gravati dai proprietari con ricorso al TAR n.r.g. 1804/2009, che aveva accolto l’istanza di sospensiva avanzata dai proprietari; il Comune proponeva ricorso in appello al Consiglio di Stato, che lo aveva accolto con ordinanza n. 3075/09, avendo nelle more "il Comune dimostrato di aver ottemperato agli adempimenti di comunicazione ai soggetti interessati alla procedura in contestazione".

Il procedimento di acquisizione del terreno era proseguito, ed era stata adottata la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera con delibera di G.C. n. 74 del 3.7.2010, impugnata dal Sig. Testa, che lamentava anche l’irregolarità nella comunicazione degli atti, visto che reale proprietario del terreno era ISMEA, che a propria volta aveva ceduto la proprietà al Testa con patto di riservato dominio.

Il TAR del Lazio, con ordinanza n. 5422/2010, aveva sospeso nuovamente la procedura "nelle more del riesame, in contraddittorio, delle diverse possibili collocazioni dell' opera.

Si erano quindi svolte dunque varie riunioni in contraddittorio delle parti e rispettivi tecnici per la verifica di possibili situazioni alternative, senza esito, poiché il terreno indicato da parte ricorrente era stato giudicato non idoneo dai tecnici del Comune;

Il Comune aveva pertanto confermato la localizzazione dell'impianto, con nuova delibera impugnata con ricorso per motivi aggiunti, la cui domanda incidentale di sospensiva veniva rigettata dal TAR del Lazio con ordinanza n. 354/2012.

L'Amministrazione pertanto aveva dato seguito alla procedura di esproprio, adottando gli, impugnati con nuovi motivi aggiunti: a) ordinanza n. 11 del 6.3.2012 di comunicazione avvenuto deposito delle indennità di esproprio; b) delibera n. 14 del 18.2.2012; c) decreto di esproprio n. 1 del 16.5.2012; d) decreto di costituzione di servitù fognaria n. 2 del 16.5.2012; e) atto di avviso di esecuzione dei provvedimenti di esproprio, emesso in pari data.

La domanda cautelare all’uopo proposta era stata poi rigettata nella camera di consiglio del 21.6.2012 con ordinanza n. 2198/2012, confermata dal Consiglio di Stato con ordinanza n. 3344/2012.

Ciò premesso in punto di fatto, il Tar ha raggruppato in due macroversanti le numerose censure proposte da parte appellante nell’ambito del ricorso n. 2233/2009 sfociato nella sentenza oggetto della odierna impugnazione.

Nell’ambito di detto procedimento erano stati infatti impugnati gli atti che avevano via via disciplinato la realizzazione e localizzazione dell’impianto di fitodepurazione e la conseguente procedura espropriativa, deducendosi la loro radicale illegittimità per violazione di legge, eccesso di potere sotto plurimi profili sintomatici e, quanto agli atti successivi, illegittimità derivata.

Da un canto, si evidenziava la incongruità, irragionevolezza e manifesta ingiustizia della localizzazione dell’impianto; sotto altro profilo, la violazione delle regole di informazione e partecipazione procedimentale che avrebbero dovuto tutelare i proprietari incisi dalla realizzazione dell’impianto, avuto anche riguardo all’intervenuto rilascio di un certificato urbanistico tendenzialmente fuorviante.

Il primo giudice ha fatto risaltare, quanto al primo profilo, la decisiva circostanza che con la delibera consiliare n. 18 del 23.11.2008 il Comune aveva adottato anche la variante urbanistica che aveva destinato il terreno in questione, di circa mq. 2.000 e prima destinato a zona agricola, a "servizi pubblici - impianti tecnologici" (variante infine approvata con la delibera di G.R.L. n. 45 del 29.9.2010).

Detta variante non era stata mai impugnata e quindi era divenuta definitiva a tutti gli effetti: ne conseguiva la improcedibilità dei motivi di ricorso fondati sull’asserita irragionevolezza dell’individuazione dell’area da destinare all’impianto di fitodepurazione.

In ogni caso, tutte le dette doglianze erano da dichiararsi infondate,considerato che la scelta della specifica area di sedime dell’impianto era stata adeguatamente motivata dall’Amministrazione in base ai caratteri geomorfologici ed idrogeologici del territorio interessato, e che, in esecuzione alla ordinanza del TAR del Lazio del 17.12.2010 la predetta localizzazione era stata oggetto di una serie di incontri per la verifica in contraddittorio di possibili soluzioni alternative: in tale occasione l’originaria parte ricorrente aveva proposto un solo diverso lotto di terreno (foglio n. l0 partt. 87 – 120), ma esso era stato ragionevolmente ritenuto non idoneo dai tecnici dell’Amministrazione, in quanto interessato da fenomeni a rischio idrogeologico e posto a monte della falda acquifera superficiale con il conseguente pericolo di creare danni gravi alle falde acquifere a valle.

Quanto alle critiche all’azione amministrativa in punto di partecipazione procedimentale,esse non avevano pregio in quanto l’originario ricorrente era divenuto titolare dell'intero appezzamento di terreno di quasi 200.000 mq in data 26 novembre 2009, per acquisto con patto di riservato dominio dalla ISMEA, la quale lo stesso giorno ne aveva fatto acquisto dagli originari proprietari.

Il Comune aveva quindi correttamente informato circa l’avvio della procedura, interessante una frazione della predetta area pari a circa 2.000 mq, essendosi conformato al precetto di cui all’art. 3 del T.U. n. 327/2001.

Tutti gli atti della procedura espropriativa, ivi incluse le comunicazioni ed il decreto di esproprio, dovevano disporsi nei confronti del soggetto che risulti proprietario secondo i registri catastali, “salvo che l'autorità espropriante non abbia tempestiva notizia dell'eventuale diverso proprietario effettivo”. Nel caso in esame doveva, quindi, trovare applicazione il principio secondo il quale "qualora, nel corso del procedimento di espropriazione per pubblica utilità, il titolare del fondo soggetto ad ablazione trasferisca a terzi la proprietà del bene espropriando o di parte di esso, la comunicazione di avvio del procedimento medesimo effettuata nei confronti dell'originario intestatario spiega i suoi effetti anche nei confronti dell'avente causa a titolo particolare, al quale, quindi, non è necessario l'invio di una nuova analoga comunicazione" (Cass. civ., Sez. Unite, 30/03/2005, n.6643).

In ogni caso, in caso contrario il soggetto legittimato a ricevere 1'avviso di avvio del procedimento sarebbe stato l'ISMEA e non parte ricorrente;

Ad avviso del Tar, poi, non decisivo appariva, , l’avvenuto rilascio della contestata certificazione urbanistica da parte del Comune, che si era correttamente limitato a dare atto della destinazione d’uso della vasta area acquisita dal Testa ( in cui si collocava la piccola porzione solo successivamente fatta oggetto di esproprio) fermo restando l’avvenuto adeguato coinvolgimento del predetto nel corso del successivo iter della procedura amministrativa in esame.

La parziale improcedibilità e comunque la non fondatezza delle censure dedotte determinava infine la reiezione dell’ulteriore domanda di risarcimento del danno, in mancanza di un’attività amministrativa illegittima causatrice di danno ingiusto ed in presenza di una specifica procedura prevista dalla legge per il ristoro economico del danno derivante dall’esproprio della porzione di area in esame.

La odierna parte appellante, già ricorrente rimasto soccombente nel giudizio di prime cure ha proposto una articolata critica alla sentenza in epigrafe chiedendo la riforma dell’appellata decisione.

Ha ripercorso il prolungato contenzioso intercorso con il comune appellato ed ha sostenuto che la decisione gravata era errata, contraddittoria rispetto a precedenti pronunce cautelari del Tar medesimo e viziata da omessa petizione.

Il vizio ex art. 112 cpc discendeva dalla circostanza che essa non si era pronunciata sul vizio di incompetenza che era stato dedotto con i motivi aggiunti in relazione alla deliberazione n. 97 dell’8.10.2011: quest’ultima era stata espressamente definita “conferma”; essa era stata adottata dalla Giunta municipale del Comune di Cantalupo in Sabina, mentre il provvedimento “confermato” (delibera n. 18 del 22.11.2008) era stato adottato dal Consiglio Comunale.

La sussistenza del vizio era palmare.

La sentenza era errata poi, nella impostazione complessiva perché, in controtendenza rispetto a ben due ordinanze cautelari che avevano ritenuto fondate le censure proposte da parte appellante (Ord. N. 1837/2009, ed Ord. 5422/2010) aveva respinto il gravame.

Peraltro la erroneità della stessa si riverberava in modo eclatante allorchè, aveva dato rilievo alla circostanza che non era stata impugnata la delibera di Giunta Regionale n. 45 del 29.9.2010, non avvedendosi che la delibera consiliare n. 18 del 23/1172008 non rispettava le prescrizioni della detta delibera di giunta regionale.

Il Tar aveva deciso la causa non avvedendosi della circostanza che la proprietaria dell’area (la Ismea, che aveva ceduto la titolarità all’appellante, con patto di riservato dominio) non era stata coinvolta nella procedura espropriativa.

Infine, non era stata disposta consulenza tecnica in ordine alla possibilità di allocare altrove l’impianto di fitodepurazione, aderendo acriticamente alle deduzioni dell’amministrazione.

In ultimo, sebbene fosse provato per tabulas che la certificazione urbanistica fornita a parte appellante nel 2008 fosse errata ed incompleta in quanto non era stata ivi fatta menzione che sin dal 2007 era stato avviato un procedimento per la localizzazione nell’area che l’appellante si apprestava ad acquistare dell’impianto di fitodepurazione per cui è causa, (e sebbene tale circostanza fosse stata stigmatizzata dal Tar) aveva negato il riconoscimento (quantomeno) del risarcimento dei danni.

Questo era certamente dovuto: la localizzazione dell’impiento ricadeva proprio al centro dell’area acquistata dall’appellante; era prevista un’amplissima zona di rispetto; ciò avrebbe pregiudicato l’attività che questi era intenzionato ad avviare (riconversione in agricoltura biologica).

Ha prodotto in proposito relazione tecnica, nell’ ambito della quale il danno patrimoniale arrecato era stato stimato in € 204.373,49.

L’amministrazione appellata ha depositato un’articolata memoria chiedendo la reiezione del gravame perché infondato: essa aveva dato contezza della procedura espropriativa ai proprietari risultanti dai registri catastali; a tutto concedere, l’avviso sarebbe spettato ad Ismea (che mai aveva avanzato alcuna doglianza, comunque) e non certo all’appellante, che, infatti, non aveva legittimazione a sollevare detta censura.

La variante localizzativa dell’opera non era stata mai impugnata e, quindi, bene il Tar aveva dichiarato la improcedibilità del primo gruppo di censure prospettate e, in ultimo, il risarcimento richiesto era abnorme, stante la modestissima consistenza spaziale dell’area.

Alla camera di consiglio del 27.8.2013, la domanda cautelare di sospensione della esecutività della gravata decisione proposta dall’appellante è stata respinta dalla Sezione con ordinanza n. 03279/2013, sulla scorta della considerazione per cui “impregiudicata la valutazione del fumus dell’appello cautelare (che dovrà essere vagliato compiutamente in sede di merito) sotto il profilo delle esigenze di cautela nel bilanciamento degli interessi appare senz’altro prevalente l’esigenza dell’amministrazione appellata”.

Alla odierna pubblica udienza del 9 gennaio 2013 la causa è stata posta in decisione dal Collegio

DIRITTO

1.L’appello è infondato e va disatteso nei termini di cui alla motivazione che segue, mentre va preliminarmente dato atto che l’istanza di rinvio della trattazione della causa proposta dall’appellante è stata successivamente rinunciata nel corso della udienza pubblica.

2. Al fine di sgombrare immediatamente il campo da doglianze manifestamente infondate evidenzia il Collegio che non può essere in alcun modo accoglibile, né formulato in forma di motivo autonomo (quale è in realtà) ma neppure quale indizio posto a sostegno di una più generale asserita illogicità della gravata sentenza, l’argomento difensivo incentrato sulla supposta contrarietà di quest’ultima con le statuizioni in precedenza rese dal Tar medesimo in sede cautelare.

Costituisce jus receptum infatti, in dottrina ed anche in giurisprudenza (ed è inoltre principio generale trasversale ad altri rami dell’ordinamento) quello per cui la differenza del materiale cognitivo tra le due fasi processuali, e la ontologica sommarietà della cognitio in fase cautelare non autorizzano a trarre alcun argomento di critica all’eventuale diverso approdo cui sia giunto il giudicante in sede di esame del merito della causa.

Tale principio, a più riprese affermato in via generale dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (ex aliis: Consiglio di Stato sez. V 20 giugno 2011 n. 3670 “Nel processo amministrativo le eventuali divergenti pronunce della fase cautelare non inficiano la legittimità di una sentenza che le abbia disattese in quanto di contrario avviso, specie se la pronuncia cautelare ha omesso ogni considerazione sul fumus.” si rivela vieppiù appropriato al caso di specie.

Invero il lungo contenzioso intercorso, si è strutturato nella pluralità di iniziative dell’Amministrazione –spontanee, ma anche “provocate” dalle pronunce cautelari del Tar- volte ad evitare il protrarsi della situazione di contrasto cercando di elidere la materia del contendere (non altro senso può attribuirsi ai negoziati volti ad individuare un eventuale sito alternativo ove allocare l’impianto di fitodepurazione).

Il Collegio non ritiene sia neppure necessario un partito esame delle statuizioni cautelari rese dal Tar: è sufficiente in proposito anche una sommaria lettura delle stesse per dimostrare che la più parte delle decisioni interinali è stata adottata in chiave propulsiva per facilitare il raggiungimento di una eventuale soluzione concordata, anche mercè parziale rinnovo di un segmento istruttorio.

Le critiche dell’appellante a tale lodevole modus procedendi appaiono quindi non accoglibili, se non anche ingenerose e vanno decisamente disattese.

2.1. Ulteriore segmento critico che deve essere integralmente disatteso riposa nell’asserito vizio infraprocedimentale discendente dall’omesso avviso dell’avvio del procedimento localizzativo ed espropriativo al titolare dell’opera.

Come esattamente colto dal Tar, infatti, la censura è infondata, anzitutto, in punto di fatto.

Occorre innanzi tutto ricordare che l'art. 3 DPR n. 327/2001, prevede, per quel che interessa nella presente sede:(comma 2) "Tutti gli atti della procedura espropriativa, ivi incluse le comunicazioni ed il decreto di esproprio, sono disposti nei confronti del soggetto che risulti proprietario secondo i registri catastali, salvo che l'autorità espropriante non abbia tempestiva notizia dell'eventuale diverso proprietario effettivo. Nel caso in cui abbia avuto notizia della pendenza della procedura espropriativa dopo la comunicazione dell'indennità provvisoria al soggetto che risulti proprietario secondo i registri catastali, il proprietario effettivo può, nei trenta giorni successivi, concordare l'indennità ai sensi dell' articolo 45, comma 2." (comma 3) "Colui che risulta proprietario secondo i registri catastali e riceva la notificazione o comunicazione di atti del procedimento espropriativo, ove non sia più proprietario è tenuto di comunicarlo all'amministrazione procedente entro trenta giorni dalla prima notificazione, indicando altresì, ove ne sia a conoscenza, il nuovo proprietario, o comunque fornendo copia degli atti in suo possesso utili a ricostruire le vicende dell'immobile.".

In sensi analoghi (considerando, cioè, il proprietario risultante dai registri catastali) già disponeva anche l'art. 10 l. n. 865/1971.

Dall'art. 3 DPR n. 327/2001 cit., consegue che, in linea generale, non possono essere prospettate violazioni delle norme afferenti alla comunicazione degli atti espropriativi e, quindi, violazione del principio di partecipazione al procedimento amministrativo, una volta che l'amministrazione abbia effettivamente disposto le comunicazioni in favore dei proprietari risultanti dai registri catastali (Cons. Stato, sez. IV, 26 febbraio 2008 n. 677), salvo che l'amministrazione non abbia "notizia dell'eventuale diverso proprietario effettivo".

Quanto a tale "notizia" - che, ai sensi dell'art. 3, comma 2, DPR n. 327/2001, ove sussistente, impone all'amministrazione di procedere alla comunicazione non già al proprietario "catastale" (secondo la regola generale) ma a quello "effettivo", essendo quest'ultimo da essa conosciuto - occorre osservare che essa non può essere rappresentata, o essere comunque desunta, da un qualsivoglia atto che, in tempi ed in procedimenti diversi, sia comunque pervenuto alla pubblica amministrazione, ma deve essere correttamente intesa come una notizia recante l'emersione del "vero" proprietario, acquisita dalla pubblica amministrazione nell'ambito della medesima o in diversa procedura espropriativa, o nel corso delle attività a questa propedeutiche. Occorre, quindi, una conoscenza dell'effettivo proprietario che sia certa (incombendo l'onere della prova della conoscenza su chi eccepisce l'illegittimità delle comunicazioni effettuate al proprietario "catastale"), e non solo astrattamente desumibile dalla presenza di un qualsivoglia atto, prodotto o acquisito in tempi e procedimenti diversi da quello espropriativo, cui l'obbligo di comunicazione degli atti afferisce.

Da quanto ora esposto, consegue che – in carenza di tale prova della conoscenza del proprietario effettivo – bene l’Amministrazione ebbe a comunicare gli avvisi agli intestatari catastali (in termini, ex aliis, Consiglio di Stato sez. IV 16 settembre 2011 n. 5233).

 

 

2.2. La doglianza, però, oltre ad essere infondata in fatto, è anche perplessa nel suo ulteriore sviluppo.

Si ricorda in proposito che il compendio immobiliare in oggetto era pervenuto all’originario ricorrente per acquisto con patto di riservato dominio dalla ISMEA, la quale lo stesso giorno ne aveva fatto acquisto dagli originari proprietari.

Ai sensi di ciò che si è finora chiarito, bene l’Amministrazione aveva notificato l’avviso agli originari proprietari che tali risultavano dai registri catastali.

Come esattamente osservato dal Tar, però, a tutto concedere l’avviso sarebbe spettato ad ISMEA, e l’odierno appellante non avrebbe alcuna legittimazione a sollevare la relativa censura; per altro verso, è rimasta incontestata l’affermazione dell’Amministrazione comunale secondo cui ISMEA, pur resa edotta del contenzioso instaurato, mai aveva avanzato alcuna doglianza, ed anzi aveva sollecitato il versamento dell’indennità di esproprio.

L’acquisto infatti era avvenuto ai sensi dall’art. 1523 del codice civile (“Passaggio della proprietà e dei rischi “: “nella vendita a rate con riserva della proprietà, il compratore acquista la proprietà della cosa col pagamento dell'ultima rata di prezzo, ma assume i rischi dal momento della consegna”).

Per consolidata affermazione giurisprudenziale “con riguardo alla compravendita immobiliare con riserva della proprietà a favore del venditore sino al pagamento dell'intero prezzo, pattuito in rate da pagarsi in termine differito (cosiddetta vendita a rate), l'effetto traslativo della proprietà opera "ex nunc" con il pagamento integrale del prezzo al momento del pagamento dell'ultima rata di esso. “ (Cass. Civ. Sez. III, sent. n. 2975 del 15-04-1988, che da tale principio ha fatto conseguire, quale corollario, che “ne consegue che solo da tale momento inizia a decorrere il termine di due anni o di uno dalla data dell'acquisto per atto tra vivi dell'immobile locato, al quale l'art. 61 della legge n. 392 del 1978 subordina l'esercizio, da parte del nuovo locatore, della facoltà di recesso prevista dal precedente art. 59, n. 1.).

La doglianza quindi, infondata in fatto in quanto l’appellante non era “proprietario” al momento della notifica, sarebbe anche inammissibile in quanto prospettata da soggetto non legittimato (di una simile supposta violazione l’unico legittimato a dolersi, all’evidenza, sarebbe il proprietario effettivo alla data di notificadell’avviso): essa va certamente disattesa.

2.3. Del tutto infondate, parimenti, appaiono le critiche alla statuizione di improcedibilità resa dal Tar nella (incontestata in punto di fatto) considerazione che non era stata gravata la delibera regionale di approvazione della variante urbanistica che aveva destinato il terreno in questione, di circa mq. 2.000 e prima destinato a zona agricola, a "servizi pubblici - impianti tecnologici" (delibera di G.R.L. n. 45 del 29.9.2010).

Non è dato comprendere, a fronte della omessa impugnazione di quest’ultima, il rilievo secondo il quale la delibera di adozione (delibera consiliare n. 18 del 23.11.2008 resa dal Comune) si sarebbe “discostata” dal contenuto dell’atto…successivo di approvazione regionale (vedasi così testualmente pag. 8 dell’appello).

Ciò premesso, e considerato che non è contestato che la delibera regionale sia stata regolarmente pubblicata, che essa non necessitava di notifica individuale, e che la medesima non è stata impugnata, è evidente la improcedibilità del primo gruppo di censure avanzate con il mezzo di primo grado.

Ed è evidente anche che non v’è alcuna omessa pronuncia del Tar in relazione al motivo avversante la delibera n. 97 dell’8.10.2011: immodificabile ormai la localizzazione a cagione della omessa impugnazione della variante, non rileva il veicolo sostanziale che detta localizzazione ebbe a ribadire.

Di tale atto “confermatorio” giuntale non v’era né ragione né esigenza, a fronte della circostanza che l’atto “confermato” (delibera di CC n. 18 del 23.11.2008 ) era stato approvato dalla regione ed avverso detta ultima delibera non era stata proposta impugnazione: la doglianza è inammissibile per carenza di interesse, e comunque infondata laddove dalla stessa si volesse far discendere la illegittimità degli atti precedenti ormai divenuti inoppugnabili.

2.4. Non improcedibili invece sarebbero state le proposte censure –di natura sostanziale- avverso il segmento procedimentale che ha portato l’Amministrazione ad interrogarsi sulla possibilità di allocare aliunde l’impianto.

Ciò in quanto la eventuale illogicità/irragionevolezza del diniego di modifica avrebbe potuto viziare la scelta originaria approvata, lo si ripete, dalla regione, con atto in impugnato.

Senonchè, a ragione, nel ristretto limite del sindacato giudiziale che esclude la praticabilità di una verifica di ragioni di merito ed opportunità, ben a ragione sul punto si è riscontrato che la molteplicità di riunioni tenutesi – queste, senz’altro in pieno contraddittorio con l’appellante- avevano indotto l’Amministrazione non irragionevolmente od illogicamente a disattendere motivatamente le indicazioni da quest’ultimo fornite.

2.4.1. L’appellante si spinge sul punto a sostenere (giovandosi di un inciso reso in un provvedimento cautelare) la assoluta doverosità di disporre Ctu sul punto.

Il Collegio non concorda con tale tesi.

2.4.2. L’evoluzione giurisprudenziale in punto si assoggettabilità a scrutinio delle manifestazioni provvedimentali riconducibili alla nozione di discrezionalità tecnica è ben nota.

E’ ormai certamente tramontata l'equazione discrezionalità tecnica - merito insindacabile che sottraeva le manifestazioni di discrezionalità tecnica al sindacato giurisdizionale.

A partire dalla sentenza n. 601/99 della IV Sezione del Consiglio di Stato, il sindacato giurisdizionale sugli apprezzamenti tecnici della p.a. può oggi svolgersi in base non al mero controllo formale ed estrinseco dell'iter logico seguito dall'autorità amministrativa, bensì alla verifica diretta dell'attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro correttezza quanto a criterio tecnico ed a procedimento applicativo.

Ciò esonera il Collegio da ogni ulteriore commento rispetto alla massima che segue tratta da una recente decisione della Sesta Sezione del Consiglio di Stato (sent. 27-04-2011, n. 2482) “secondo un'evoluzione interpretativa in linea con i principi costituzionali e comunitari del "giusto processo" - inscindibile dalla effettività della tutela - e del "giusto procedimento amministrativo", la pubblica autorità è chiamata a rendere conto, in modo sempre più incisivo, della ratio sottesa alle proprie determinazioni. Le tradizionali formule, che limitavano il sindacato giurisdizionale di legittimità sugli atti discrezionali all'esatta rappresentazione dei fatti ed alla congruità dell'iter logico seguito dall'autorità emanante il provvedimento, debbono ritenersi superate dai parametri di attendibilità della valutazione, frutto di discrezionalità tecnica, e di non arbitrarietà della scelta, ove sia stata esercitata una discrezionalità amministrativa. E' infatti, ormai, pacificamente censurabile la valutazione che si ponga al di fuori dell'ambito di esattezza o attendibilità, qualora non appaiano rispettati parametri tecnici di univoca lettura, ovvero orientamenti già oggetto di giurisprudenza consolidata, o di dottrina dominante in materia.”

E’ importante poi sottolineare le ulteriori conclusioni cui approda la detta decisione, laddove sottolinea che “una evoluzione analoga investe anche la discrezionalità amministrativa, sotto il profilo del "quomodo", soprattutto ove le scelte si proiettino su valutazioni comparative, legate al parametro costituzionale dell'imparzialità. Un criterio di scelta, formulato come discrezionale e pertanto insindacabile nel merito, può infatti ritenersi funzionalmente deviato, e sindacabile sul piano della legittimità, qualora non renda esplicita e verificabile la logica interna che lo ispira, consentendo conclusioni di cui sia impossibile appurare l'effettiva rispondenza all'interesse pubblico. “.

Arrestando l’esame alla discrezionalità tecnica, quindi, ed escluso che le manifestazioni della stessa subiscano alcun deficit di tutela nel processo amministrativo considerando la “discrezionalità tecnica” un minus rispetto alla discrezionalità amministrativa “ordinaria” poi, costituirebbe errore prospettico assai grave e collide con la pacifica circostanza che vi sono atti di “alta amministrazione“ assistiti unicamente da profili di discrezionalità di natura amplissima nei cui confronti il giudice amministrativo può svolgere unicamente un sindacato “debole” limitato appunto a macroscopici profili di illogicità illogicità, irragionevolezza, arbitrarietà.

Con tale suggestivo concetto di “sindacato debole”, come è ben noto, si intende il giudizio espresso dal giudice amministrativo su provvedimenti che esprimono una discrezionalità tecnica riconosciuta in determinate materie alla Pubblica Amministrazione, ponendo in tal modo un limite alla statuizione finale resa dal giudice medesimo, il quale, dopo aver accertato in modo pieno i fatti ed aver verificato il processo logico-valutativo svolto dall'Autorità in base a regole tecniche o del buon agire amministrativo, anch'esse sindacabili, se ritiene le valutazioni dell'Autorità corrette, ragionevoli, proporzionate ed attendibili, non deve spingersi oltre fino ad esprimere proprie autonome scelte, perché, altrimenti, assumerebbe egli la titolarità del potere; ossia, in sostanza il giudice non può sostituirsi ad un potere già esercitato, ma deve soltanto stabilire se la valutazione complessa operata nell'esercizio del potere debba essere ritenuta corretta sia sotto il profilo delle regole tecniche applicate, sia nella fase di contestualizzazione della norma posta a tutela della conformità a parametri tecnici che nella fase di raffronto tra i fatti accertati ed il parametro contestualizzato. (Consiglio di Stato, Sezione IV, 5 marzo 2010 n. 1274, ma anche Consiglio di Stato Sezione IV, Sent., 08-10-2012, n. 5209).

Orbene, nel caso di specie il Collegio si trova a doversi confrontare proprio con un atto di tale natura, e deve prendere atto: della numerosa teoria di riunioni ed incontri succedutisi sul tema, della circostanza che lo “stimolo” a tale approfondimento discendeva (anche) dall’impegno in tal senso profuso dal Tar del Lazio in sede cautelar; della piena trasparenza assicurata ai lavori tesi a trovare una soluzione condivisa, nell’ambito dei quali è stata assicurata la piena partecipazione al privato.

A fronte di tutto ciò, e delle reiterate note con le quali il Dipartimento Territorio aveva evidenziato (non solo la priorità dell’opera ma anche) la inaccoglibilità della proposta dell’appellante Testa di spostare l’impianto a monte della falda acquifera (motivando in tale senso in termini congrui ed immuni da censure evidenziando che un eventuale guasto dell’impianto avrebbe potuto avere, a quel punto, gravi ripercussioni sulla falda a valle) l’appellante reitera argomentazioni frontalmente collidenti, rievoca lo studio agrovegetazionale del dott. Antellini, e sottolinea che nella delibera era stata prevista la possibilità di spostare l’impianto s richiesta dei privati.

Ma non dimostra: né che il progetto definitivamente fatto proprio dal comune intersecasse negativamente il detto studio, ed in cosa consistessero le ineliminabili criticità; che la propria proposta non incorresse negli inconvenienti segnalati dal comune; ma, soprattutto, che la scelta allocativa (ed è questo l’unico parametro che il Collegio avrebbe potuto prendere in considerazione) fosse abnorme o manifestamente irragionevole.

A fronte di tali lacune dimostrative la doglianza non può che essere disattesa.

3.Merita più approfondita disamina la questione dell’avvenuto rilascio di una certificazione catastale incompleta a parte appellante, in quanto sulla stessa il Collegio è tenuto a fornire le precisazioni che seguono.

Anticipa sul punto il Collegio il proprio convincimento secondo il quale essa, certamente non inficia in alcun modo il procedere dell’azione amministrativa finalizzata alla erezione dell’opera previa espropriazione dell’area.

Ciò tanto più che al momento del rilascio della detta certificazione non può dirsi che l’appellante avesse acquisito alcuna aspettativa qualificata (sotto il profilo della realizzazione di opere ed iniziative nell’area) quantomeno proveniente dal Comune appellante, e del quale quest’ultimo potrebbe essere chiamato a rispondere.

Va esclusa ogni incidenza sulla localizzazione dell’opera del rilascio incompleto di tale certificazione.

Correttamente il primo giudice ne ha escluso la fondatezza, anche in considerazione della circostanza che il vincolo in itinere riguardava una porzione piccolissima (circa 2000 mq ) del compendio immobiliare (186000 mq circa) oggetto di promessa di vendita.

In tali termini inteso, il petitum va respinto.

Senonchè, va dato atto della circostanza che l’appello non appare del tutto esplicito nel chiarire la natura del danno asseritamente risarcibile: esso appare appunto ricollegato (nella prospettazione appellatoria) alla successiva procedura localizzativa dell’opera, (come in particolare si evince dal penultimo capoverso della pag . 18 dell’appello, laddove si fa riferimento – qual circostanza già ammessa dal Tar e “fondante” la propria domanda - all’ordinanza cautelare in cui è stato stigmatizzato l’originario asserito mancato coinvolgimento del privato “aggravato” dal rilascio del certificato di destinazione urbanistica “parziale”. In altra porzione dell’appello, si parrebbe preconizzare – senza però decisamente avanzare la detta ipotesi - un danno ex art. 2043 cc “puro” (e/o ex art. 1337 e 1338 cc) a cagione della circostanza in ultimo citata, senza però allegare e/o indicare gli elementi decisivi a conforto di tale opzione.

3.1. Ritiene in proposito il Collegio di evidenziare quanto segue.

La già rilevata non perspicua prospettazione contenuta nell’atto di appello, la connessione della proposta domanda con quella di annullamento della localizzazione, la asserita incidenza del detto rilascio del certificato parzialmente incompleto sulla omessa informazione della procedura localizzativa, inducono il Collegio a ritenere che il petitum, in quanto posto in connessione con la detta localizzazione, fosse inteso a corroborare la domanda risarcitoria coinvolgente il detto segmento procedimentale ed a dimostrare la illegittimità della detta scelta.

Detta domanda in tali termini è stata (correttamente, a parre del Collegio, anche per quanto si chiarirà di seguito) intesa dal Tar, né l’appellante ha gravato ex art. 112 cpc (almeno in parte qua) la sentenza di primo grado per omissione di pronuncia (come avrebbe dovuto fare laddove avesse ritenuto di potere dimostrare che il petitum risarcitorio era “slegato” dalla procedura localizzativa e proposto ex artt. 2043, 1337, 1338 CC) il che appare tanto più significativo in quanto il motivo ex art. 112 cpc è stato sollevato con riguardo ad altra parte della decisione.

Intesa nei detti termini essa, in parte qua, è del tutto infondata, per le già chiarite ragioni.

3.2. Ove invece la stessa avesse dovuto intendersi qual slegata dalla predetta procedura localizzativa la giurisdizione, ad avviso del Collegio, perterrebbe al Giudice ordinario (si vedano gli arresti della giurisprudenza di legittimità secondo i quali: la responsabilità della p.a. per illecito extracontrattuale - che può essere fatta valere dal privato con azione di risarcimento del danno davanti al giudice ordinario - è astrattamente configurabile anche nella diffusione di informazioni inesatte -Cass. 22 novembre 1999, n. 12941): esclusa infatti, per le già chiarite ragioni la interferenza di tale falsa/inesatta/ incompleta informazione catastale sulla parallela attività espropriativa intrapresa (ed esclusa quindi qualsivoglia ipotesi di giurisdizione esclusiva in subiecta materia) residuerebbe una condotta non diligente afferente ad una attività di natura ricognitiva e non provvedimentale e totalmente vincolata.

Ed è ben noto l’orientamento della Suprema Corte sulla sostanziale inesistenza di spendita di “potere amministrativo” che giustifichi l’attribuzione delle controversie al plesso giurisdizionale amministrativo in ipotesi di attività totalmente vincolata, ivi essendosi ravvisato (secondo la risalente teoria della c.d. “degradazione dell’atto”) il permanere di una posizione di diritto soggettivo pieno (e ciò, sia con riguardo ai c.d. “diritti soggettivi non degradabili” che ad altre invero non frequenti fattispecie in cui l’amministrazione si limita a dare pedissequa applicazione a principi già integralmente prefissati dalla norma superior : ex aliis Cass. civ. Sez. Unite Ordinanza, 16-09-2010, n. 19577).

Più in particolare, è stato di recente condivisibilmente osservato che

(T .A.R. Lazio Latina Sez. I, 22-05-2013, n. 482)”il certificato di destinazione urbanistica redatto dal pubblico ufficiale è atto meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti giuridici che da esso risultano: effetti che discendono, invece, da precedenti provvedimenti, i quali hanno determinato la situazione giuridica acclarata con il certificato . Se ne desume che tale atto non ha natura provvedimentale ed è sprovvisto di concreta lesività e, dunque, non è suscettibile di impugnazione. Pertanto, la domanda di risarcimento del danno derivante dal rilascio di un certificato urbanistico errato non rientra nella giurisdizione del G.A.”.

Ove in tal senso dovesse essere intesa la domanda dell’appellante (ma non ritiene il Collegio vi siano indici univoci per ciò ritenere) questo Collegio dovrebbe declinare in parte qua la giurisdizione: pur tenendo conto del disposto di cui all’art. 9 del cpa, pienamente applicabile alla fattispecie per cui è causa, va rilevato che nel presente procedimento il Tar ha respinto la domanda, non ritenendo la giurisdizione neppure in modo implicito quanto a tale prospettazione del petitum risarcitorio, e non prendendola neppure in esame, ritenendola all’evidenza legata alla procedura localizzativa (così si esprime il Tar, in proposito: “la parziale improcedibilità e comunque la non fondatezza delle censure dedotte da parte ricorrente determinano, a propria volta, la reiezione dell’ulteriore domanda di risarcimento del danno, in mancanza di un’attività amministrativa illegittima cui ricondurre la genesi di un danno ingiusto ed in presenza di una specifica procedura prevista dalla legge per il ristoro economico del danno derivante dall’esproprio della porzione di area in esame”).

Questo Giudice d’appello sarebbe quindi facultizzato (così qualificata la domanda, rilevato il –comunque non dedotto da parte appellante- vizio ex art. 112 cpc, e decidendola nel merito) a rilevare ex officio e per la prima volta la carenza di giurisdizione, non essendovi accertamento né esplicito né implicito sul punto (arg: Cons. Giust. Amm. Sic., 04-06-2013, n. 548 il”G.A. può rilevare in ufficio per la prima volta in appello il difetto di giurisdizione ogni qualvolta in primo grado le questioni controverse estranee all'ambito della cognizione amministrativa non siano state esaminate, nemmeno implicitamente, dal Tar”).

Senonchè, a cagione appunto della equivocità del gravame in parte qua, il Collegio non ritiene di potere in tali termini qualificare il petitum, e quindi si limita a respingerlo in parte qua nei termini sopra evidenziati, il che non precluderebbe all’odierno appellante, eventualmente, di riproporre il petitum risarcitorio finalizzato ex art. 2043 cc e 1337 e 1338 CC innanzi all’Autorità giurisdizionale competente.

4. Conclusivamente, l’appello è infondato e merita la reiezione, integrale, nei termini e con i chiarimenti di cui alla motivazione che precede, mentre tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.

5. La natura e la particolare complessità della controversia consente la compensazione delle spese processuali sostenute dalle parti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge nei termini e con le precisazioni di cui alla motivazione che precede.

Spese processuali compensate

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 gennaio 2014 con l'intervento dei magistrati:

 

 

Marzio Branca, Presidente FF

Raffaele Greco, Consigliere

Fabio Taormina, Consigliere, Estensore

Andrea Migliozzi, Consigliere

Umberto Realfonzo, Consigliere

 

 

 

 

     
     
L'ESTENSORE   IL PRESIDENTE
     
     
     
     
     

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il **/02/2014

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

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