Monday 25 July 2016 12:37:28

Giurisprudenza  Procedimento Amministrativo e Riforme Istituzionali

Annullamento in autotutela: il decorso del tempo e l'affidamento ingenerato nel privato

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 18.7.2016 n. 3174

Nel giudizio in esame l’appellante ha dedotto l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha ritenuto illegittimo l’atto di auto-annullamento per mancanza del presupposto rappresentato dalla sussistenza di un interesse concreto e attuale, nonché per mancata valutazione dell’affidamento ingenerato nel privato dal comportamento tenuto dall’amministrazione. In particolare l’annullamento è stato disposto dopo cinquantadue mesi dal rilascio del titolo abilitativo n. 66 del 1998, dopo quarantaquattro mesi dall’ultimazione dei lavori e dopo trentanove mesi dalla deliberazione consiliare, che ha stabilito la capienza della superficie coperta ammissibile. Il Consiglio di Stato Sez. VI nella sentenza del 18.7.2016 n. 3174 ha ritenuto ilmotivo infondato affermando che "L’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, nella versione vigente all’epoca dei fatti, prevedeva che il «provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge». Nella fattispecie in esame sussistono tutti i presupposti contemplati dalla suddetta normativa per l’esercizio del potere di autotutela. Il requisito dell’illegittimità discende dalle statuizioni contenute nella deliberazione consiliare 16 dicembre 1999 n. 55, recante la revoca parziale della propria precedente deliberazione n. 31/98, che contemplava una possibilità edificatoria eccedente rispetto a quella consentita nel comparto. Il requisito dell’interesse pubblico concreto e attuale, in ragione della evidente violazione dei limiti dimensionali consentiti, è insisto nell’oggetto stesso delle statuizioni adottate (Cons. Stato, sez. IV, 23 febbraio 2012, n. 1041). Il requisito dell’affidamento non può venire in rilievo, in quanto il tempo trascorso è imputabile alle richieste di rilascio di concessioni in sanatoria avanzate da Finagen tra il 6 settembre 2001 (data della prima istanza) e l’1 aprile 2003 (data di abbandono della richiesta del 25 novembre 2002). Il tempo anteriore a quella data può ritenersi un tempo ragionevole di attesa prima dell’esercizio del potere di autotutela. Sotto altro aspetto, deve rilevarsi che dagli atti del processo risulta che l’appellante, anche in ragione della presentazione delle suddette richieste, fosse comunque a conoscenza dell’illegittimità dell’atto e dunque consapevole della possibilità che lo stesso potesse essere oggetto di annullamento da parte dell’amministrazione. Non può, pertanto, ritenersi che si sia formato un affidamento meritevole di protezione giuridica che l’amministrazione avrebbe dovuto valutare ai fini dell’adozione del provvedimento di secondo grado oggetto di impugnazione".

 

Testo del Provvedimento (Apri il link)

 

N. 03174/2016REG.PROV.COLL.

N. 08619/2013 REG.RIC.

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8619 del 2013, proposto da: 
Difarco s.r.l., in persona rappresentato e difeso dall’avvocato Mario Viviani, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Giovanni Corbyons in Roma, via Cicerone, 44; 

contro

Comune di Calvenzano, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Lodovico Valsecchi e Stefano Santarelli, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via Asiago, 8; 

per la riforma

della sentenza n. 312 del 2013 del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, Sezione staccata di Brescia, Sezione II. 

 

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Calvenzano;

viste le memorie difensive;

visti tutti gli atti della causa;

relatore nell'udienza pubblica del giorno 31 marzo 2016 il Cons. Vincenzo Lopilato e uditi per le parti gli avvocati Monti, per delega di Viviani, e Santarelli.

 

 

FATTO e DIRITTO

1.– La Società Nuova Difarco s.r.l. svolge attività di «logistica e distribuzione conto terzi» presso un fabbricato ottenuto in locazione finanziaria da Finagen s.p.a. 

In relazione all’attività amministrativa che ha coinvolto “direttamente” la proprietaria Finagen s.p.a. deve rilevarsi che:

- il Comune, con atto del 9 dicembre 1999, ha rigettato la domanda di concessione in sanatoria relativa alla realizzazione di opere adibite a spogliatoi, uffici e guardiola, cui è seguita l’ordinanza di demolizione 18 dicembre 1999; 

- la società Finangen, in data 6 settembre 2001, ha presentato istanza di concessione edilizia in sanatoria, proponendo la demolizione di 1.171,27 mq. di superficie dell’edificio industriale (sia per ricavare cavedi scoperti da utilizzare come vie di fuga, sia per recuperare ulteriore superficie scoperta per rispettare i limiti dello strumento urbanistico generale) e la realizzazione di 2 baie di carico in lato nord per 31,38 mq.;

- il Comune ha rilasciato il titolo abilitativo in sanatoria in data 2 agosto 2001 ma Finagen non ha eseguito le opere, cosicché il 5 novembre 2002 l’amministrazione ha dichiarato la decadenza della concessione edilizia, con notifica anche alla società locatrice;

- la società Finangen ha depositato nuova richiesta di concessione in sanatoria il 25 novembre 2002 (con le medesime soluzioni progettuali di cui alla precedente domanda), che veniva abbandonata l’1 aprile 2003.

Taluni di questi atti sono stati oggetto di autonoma impugnazione innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia. I relativi giudizi non rilevano in questa sede. 

In relazione all’attività amministrativa che ha coinvolto “direttamente” la locataria Società Nuova Difarco, deve rilevarsi che il Comune di Calvenzano:

- con atto 9 aprile 2003, n. 3829 ha annullato parzialmente la concessione edilizia 21 novembre 1998, n. 66 (come variata con denuncia di inizio attività del 15 maggio 1999) per la parte eccedente la superficie coperta ammissibile di cui alla deliberazione consiliare 16 dicembre 1999 n. 55, ossia 1.729,07 mq. (la superficie dell’edificio risulterebbe 26.788,87 mq. contro i 25.273,80 consentiti); 

- con ordinanza 9 aprile 2003, n. 3829 ha ordinato la demolizione di tale porzione eccedente;

- con successivo provvedimento 24 aprile 2003 ha rettificato la precedente determinazione, rilevando che i metri quadri di superficie coperta superiore alla massima ammessa sarebbe pari a 1.515,07 mq., mentre è stata confermata l’ingiunzione a demolire;

- con ordinanza 16 ottobre 2003, n. 9825 ha constatato l’inottemperanza all’ordine di demolizione.

La società Nuova Difarco ha impugnato tali atti innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia. 

2.– Il Tribunale amministrativo, con sentenza 2 aprile 2013, n. 312, ha dichiarato il ricorso in parte inammissibile e in parte infondato. 

3.– La ricorrente in primo grado ha proposto appello. 

3.1.– Si è costituita in giudizio l’amministrazione comunale, chiedendo il rigetto dell’appello.

4.– La causa è stata decisa all’esito dell’udienza pubblica del 31 marzo 2016.

5.– L’appello non è fondato.

5.1.– Con il primo motivo l’appellante lamenta la violazione degli artt. 7, 8 e 10 della legge n. 241 del 1990 per omessa comunicazione (quale utilizzatrice dell’immobile) dell’avvio del procedimento, senza che sussistessero ragioni di impedimento qualificate, ed anche alla luce del lungo tempo trascorso (39 mesi e mezzo) dalla data della deliberazione consiliare n. 55 del 1999.

Il motivo non è fondato.

L’odierna appellante, come correttamente messo in rilievo dal primo giudice, era stata posta a conoscenza delle vicende amministrative e giudiziarie che hanno coinvolto la società proprietaria e, conseguentemente, era a conoscenza delle illegittimità riguardanti il bene in locazione. 

Ma anche a volere prescindere da tale dato, l’art. 21-octies, secondo comma, secondo inciso, della legge n. 241 del 1990 prevede che «il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato».

Nella fattispecie in esame l’amministrazione comunale resistente ha dimostrato in giudizio che, anche se la parte avesse partecipato al procedimento, comunque l’assetto sostanziale definito con i provvedimenti finali non sarebbe mutato. 

5.2.– Con un secondo motivo l’appellante ha dedotto l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha ritenuto illegittimo l’atto di auto-annullamento per mancanza del presupposto rappresentato dalla sussistenza di un interesse concreto e attuale, nonché per mancata valutazione dell’affidamento ingenerato nel privato dal comportamento tenuto dall’amministrazione. A tale proposito, si rileva che l’annullamento è stato disposto dopo cinquantadue mesi dal rilascio del titolo abilitativo n. 66 del 1998, dopo quarantaquattro mesi dall’ultimazione dei lavori e dopo trentanove mesi dalla deliberazione consiliare n. 55 del 1999, che ha stabilito la capienza della superficie coperta ammissibile.

Il motivo non è fondato.

L’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, nella versione vigente all’epoca dei fatti, prevedeva che il «provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge».

Nella fattispecie in esame sussistono tutti i presupposti contemplati dalla suddetta normativa per l’esercizio del potere di autotutela.

Il requisito dell’illegittimità discende dalle statuizioni contenute nella deliberazione consiliare 16 dicembre 1999 n. 55, recante la revoca parziale della propria precedente deliberazione n. 31/98, che contemplava una possibilità edificatoria eccedente rispetto a quella consentita nel comparto. 

Il requisito dell’interesse pubblico concreto e attuale, in ragione della evidente violazione dei limiti dimensionali consentiti, è insisto nell’oggetto stesso delle statuizioni adottate (Cons. Stato, sez. IV, 23 febbraio 2012, n. 1041).

Il requisito dell’affidamento non può venire in rilievo, in quanto il tempo trascorso è imputabile alle richieste di rilascio di concessioni in sanatoria avanzate da Finagen tra il 6 settembre 2001 (data della prima istanza) e l’1 aprile 2003 (data di abbandono della richiesta del 25 novembre 2002). Il tempo anteriore a quella data può ritenersi un tempo ragionevole di attesa prima dell’esercizio del potere di autotutela. Sotto altro aspetto, deve rilevarsi che dagli atti del processo risulta che l’appellante, anche in ragione della presentazione delle suddette richieste, fosse comunque a conoscenza dell’illegittimità dell’atto e dunque consapevole della possibilità che lo stesso potesse essere oggetto di annullamento da parte dell’amministrazione. Non può, pertanto, ritenersi che si sia formato un affidamento meritevole di protezione giuridica che l’amministrazione avrebbe dovuto valutare ai fini dell’adozione del provvedimento di secondo grado oggetto di impugnazione. 

5.3.– Con un terzo motivo l’appellante ha dedotto la violazione del principio del contrarius actus e del giusto procedimento, per omessa preventiva acquisizione del parere della commissione edilizia. 

Il motivo non è fondato.

Il dato obiettivo del superamento del limite edificatorio del comparto non poteva essere inciso in alcun modo dagli apprezzamenti dell’organo consultivo comunale non coinvolto, con la conseguenza che il suo mancato coinvolgimento non può avere valenza invalidante. 

5.4.– Con un quarto motivo l’appellante ha lamentato l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha ritenuto applicabile l’art. 11 della legge n. 47 del 1985, il quale, disciplinando le fattispecie di annullamento di precedenti titoli edilizi, non contemplerebbe la misura dell’acquisizione gratuita al patrimonio dell’ente e non consentirebbe l’applicazione della sanzione della demolizione nei casi, come quello in esame, di impossibilità di dare ad essa attuazione. L’appellante ha rilevato che, anche qualora trovasse applicazione dell’art. 7 della legge n. 47 del 1985, che disciplina le fattispecie di opere eseguite in assenza di concessione edilizia, nel caso in esame l’amministrazione comunale non avrebbe individuato l’opera da demolire.

Il motivo non è fondato.

L’art. 11 della legge n. 47 del 1985, applicabile ratione temporis e posta a base della censura, prevede che: «In caso di annullamento della concessione, qualora non sia possibile la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il sindaco applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall'ufficio tecnico erariale. La valutazione dell'ufficio tecnico è notificata alla parte del comune e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa». 

Tale norma deve essere intesa nel senso che non si procede alla demolizione soltanto in presenza di vizi formali che possono essere rimossi mediante la rinnovazione della procedura ovvero quando non sia oggettivamente possibile la restituzione in pristino. L’inottemperanza all’obbligo di demolizione comporta l’acquisizione del bene al patrimonio dell’ente.

Nel caso in esame, da un lato, non si tratta di vizi formali ma sostanziali, dall’altro, l’appellante non ha addotto neanche un principio di prova volto a dimostrare che non fosse possibile la riduzione in pristino. Anzi, come correttamente messo in rilievo dal primo giudice, le due istanze di concessione edilizia in sanatoria (depositate da Finagen e positivamente vagliate dall’amministrazione) dimostrano l’esistenza e l’attuabilità di proposte progettuali in grado di assicurare il rispetto della normativa urbanistica ed edilizia. 

L’ulteriore parte della censura fa riferimento all’art. 7 della legge n. 47 del 1985, non applicabile al caso di specie, e comunque l’ordine di demolizione individua con precisione la parte “eccedente” che deve essere demolita. 

5.5.– Con il quinto motivo l’appellante deduce l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha ritenuto sussistente il vizio di eccesso di potere per difetto di istruttoria e travisamento, poiché l’edificio adibito a spogliatoi, uffici e guardiola (stralciato dal computo della superficie coperta esistente edificata) sarebbe stato assentito con la concessione edilizia n. 66/98.

Il motivo non è fondato. 

Il primo giudice ha correttamente rilevato che detti manufatti erano stati oggetto di un atto di diniego di concessione in sanatoria (9 dicembre 1999), richiesta da Finagen, cui è seguito un ordine di demolizione (18 dicembre 1999), non impugnati nei termini, con la conseguenza che non è possibile la contestazione in questa sede. Né varrebbe rilevare, come fa l’appellante, che «la mancata impugnativa dei suddetti provvedimenti non è in grado di modificare la realtà degli atti e quindi di far venir meno la previsione del suddetto edificio nel progetto», in quanto si tratta di una doglianza non comprensibile alla luce di quanto esposto in ordine alla tardività della contestazione. 

5.6.– Con il sesto motivo l’appellante assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha ritenuto illegittimo l’atto con cui l’amministrazione ha comunicato l’avvenuto accertamento della mancata ottemperanza all’ordinanza n. 3829 del 2003. Ciò su presupposto che sarebbero fondate le censure proposte nei confronti degli atti di annullamento e demolizione.

Il motivo non è fondato. 

L’infondatezza delle censure sin qui riportate determina l’infondatezza anche di quella, derivata, in esame.

5.7.– Con il settimo motivo l’appellante lamenta l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha riscontrato la violazione dell’art. 44, comma 1, della legge n. 47 del 1985 in relazione all’art. 32, comma 25, del decreto-legge n. 269 del 2003, che prevederebbero la sospensione ope legis dei procedimenti sanzionatori fino alla scadenza del termine per la presentazione della domanda di condono. Si aggiunge che detta sospensione sarebbe automatica e prescinderebbe dalla effettiva presentazione di una domanda di condono. 

Il motivo non è fondato. 

L’art. 44, primo comma, sopra citato, dispone che «dalla data di entrata in vigore della presente legge e fino alla scadenza dei termini fissati dall'art. 35, sono sospesi i procedimenti amministrativi e giurisdizionali e la loro esecuzione quelli penali nonché quelli connessi all'applicazione dell’art. 15 della legge 6 agosto 1967, n. 765, attinenti al presente capo».

Tale norma, in coerenza con la sua ragione giustificativa che è quella di mettere in condizione gli interessati di ottenere la sanatoria degli abusi realizzati, deve essere interpretata nel senso che essa prevede una sospensione, tra l’altro, dei procedimenti sanzionatori per abusi edilizi nel solo caso in cui una domanda di condono sia stata effettivamente presentata. 

Nella fattispecie, in esame, come è stato correttamente messo in rilievo dal primo giudice, non è stata presentata alcuna domanda di condono, con conseguente non applicabilità della predetta disciplina. 

5.8.– Con l’ultimo motivo l’appellante deduce l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui non ha rilevato l’illegittimità, da un lato, dell’ordine di demolizione perché privo dell’indicazione dell’area da acquisire, dall’altro, dell’atto di acquisizione perché l’area acquisita è stata individuata in maniera illogica in quanto la «porzione immobiliare individuata costituisce parte di un capannone priva di autonomia». 

Il motivo non è fondato. 

L’atto di annullamento della concessione edilizia e l’atto successivo di rettifica hanno individuato, con precisione, l’ampiezza dell’area non “coperta” dal titolo autorizzatorio. L’ordinanza di demolizione ha ripreso il contenuto di detti provvedimenti e ha disposto la demolizione della parte di edificio industriale eccedente pari a mq 1.515,07.

La società è stata, pertanto, messa in condizione di eseguire l’ordinanza. 

La rimanente censura, riferita all’asserito “coinvolgimento” nella demolizione di un capannone privo di autonomia, è generica e non dimostrata. 

6.– L’appellante è condannata al pagamento delle spese processuali del presente grado di giudizio, in favore dell’ente comunale, che si determinano in euro 3.000,00, oltre accessori di legge.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando:

a) rigetta l’appello proposto con il ricorso indicato in epigrafe; 

b) condanna l’appellante al pagamento, in favore della parte resistente costituita, delle spese del presente grado di giudizio che si determinano in euro 3.000,00, oltre accessori. 

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 31 marzo 2016 con l'intervento dei magistrati:

 

 

Luciano Barra Caracciolo, Presidente

Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere

Dante D'Alessio, Consigliere

Andrea Pannone, Consigliere

Vincenzo Lopilato, Consigliere, Estensore

 

 

 

 

     
     
L'ESTENSORE   IL PRESIDENTE
     
     
     
     
     

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 18/07/2016

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

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