Saturday 14 March 2015 13:57:20

Giurisprudenza  Patto di Stabliità, Bilancio e Fiscalità

Danno erariale: è truffa al fisco impedire la riscossione delle imposte

segnalazione dell'Avv. Paolo Pittori della sentenza della Corte dei Conti Sezione Prima Giurisdizionale Centrale di Appello del 25 febbraio 2015

Con la sentenza del 24.2.2015, la Corte dei Conti, Sezione Prima Giurisdizionale Centrale di Appello conferma la sentenza di condanna al risarcimento del danno erariale pronunciata dalla Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio a carico di tre dipendenti dell’Agenzia delle Entrate per aver impedito la riscossione di imposte presso una società estera mediante una condotta fraudolenta e la produzione di documenti falsi. Le doglianze avanzate dagli appellanti nell’atto di gravame offrono alla Corte dei Conti l’occasione per ribadire alcuni principi giurisprudenziali consolidati in tema di responsabilità amministrativa per danno erariale in ordine a: 1) dies a quo di decorrenza del termine di prescrizione dell’azione di risarcimento del danno nel caso di occultamento doloso del danno medesimo. Sotto questo profilo, premesso che "ai sensi dell'art. 1, comma 2 della legge 14.1.1994 n. 20 (come successivamente modificata dalla legge 20.12.1996 n. 639), il diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta. La prescrizione, dunque, decorre dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso e tale data è stata identificata dalla giurisprudenza in quella in cui si è verificato il danno quale componente del “fatto“" e rammentato che "il Legislatore, con le norme appena citate, ha sancito espressamente il principio secondo il quale, nel caso di occultamento doloso, il termine di decorrenza della prescrizione non può che decorrere dalla data della sua scoperta", il Giudice contabile conclude che «nei casi […] di fatti delittuosi consistenti nell’ignota percezione illecita di denaro, si deve ritenere in re ipsa la sussistenza di un doloso occultamento del danno […]. Tale situazione, a sua volta, comporta un obiettivo impedimento ad agire, di carattere giuridico e non di mero fatto: ciò implica che l’azione contabile può essere iniziata solo allorché il fatto viene non meramente scoperto, ma da quando esso assume una sua concreta qualificazione giuridica, atta ad identificarlo come presupposto di una fattispecie dannosa. Non vi è allora dubbio che l’inizio del termine di prescrizione debba essere individuato, in tali evenienze, nel momento in cui il danno stesso viene delineato in tutte le sue componenti, a seguito del provvedimento di rinvio a giudizio in sede penale: momento che indubbiamente rappresenta, anche in virtù di quanto disposto dall’art. 2935 del c.c. (“la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”) il dies a quo di decorrenza». b) accertamento del nesso di causalità in campo giuscontabile. Sul punto, la Corte dei Conti evidenzia che "in realtà sarebbe sufficiente un qualsiasi apporto causale al determinarsi di un effetto dannoso, perché emerga e sussista il nesso etiologico tra condotta del soggetto agente ed evento dannoso per l’Erario: a differenza di quanto avviene in campo contrattuale privatistico, dove il principio di causalità viene interpretato con particolare rigore (art. 1223 c.c.), nel campo giuscontabile il criterio dell'immediatezza viene esteso, considerando rilevanti anche gli eventi indiretti e mediati, purché però siano effetto normale della condotta (principio c.d. della regolarità causale). In particolare, nell'ipotesi di concorso di cause (pluralità di fatti dannosi, imputabili a più persone e succedutisi nel tempo), si riconosce efficienza causale nei confronti di tutti coloro che abbiano determinato una situazione tale che, senza il loro apporto, l'evento non si sarebbe verificato". c) utilizzabilità ai sensi e per gli effetti dell’art. 116 c.p.c. anche di materiale probatorio acquisito nell’ambito di un giudizio diverso da quello contabile e in particolare nel giudizio penale. In relazione a tale profilo, la Corte dei Conti rimarca che "il principio di base da cui partire è quello secondo cui il materiale di un giudizio diverso da quello contabile ben può essere esaminato e valutato da questo Giudice contabile, per essere posto (unitamente a tutta la restante documentazione) a fondamento dell’emanandadecisione, senza che ciò implichi la violazione del diritto di difesa di alcuno. Secondo giurisprudenza consolidata, infatti, tutti gli elementi utili per la conoscenza dei fatti, comunque acquisiti, anche (come nel caso all’esame) in sede processuale e pre-processuale penale, devono e possono essere oggetto di autonoma valutazione da parte del Giudice contabile, in quanto concorrono, ai sensi appunto dell’art. 116 del c.p.c., alla formazione del convincimento sull’esistenza dell’eventuale danno e delle conseguenti responsabilità amministrative". d) incidenza delle formule assolutorie adottate dal Giudice penale sul giudizio di responsabilità amministrativa. Sul punto, il Giudice contabile sottolinea che la corretta interpretazione dell’art. 652, comma 1, c.p.p. "non autorizza […] alcun automatismo tra formula assolutoria adottata dal Giudice penale ed efficacia di giudicato extrapenale, la cui valutazione va condotta caso per caso, tenendo cioè conto dell’effettivo accertamento contenuto nella sentenza di assoluzione[…]. In altre parole, le formule assolutorie “perché il fatto non sussiste” o “perché l’imputato non lo ha commesso”, posto che vengano utilizzate propriamente, potrebbero non essere indicative dell’accerta-mento della insussistenza del fatto materiale dedotto nel (diverso) giudizio di responsabilità amministrativa". e) modificabilità del titolo della responsabilità da parte del Giudice contabile in sede dibattimentale. A tal proposito la Corte dei Conti afferma che «Circa poi la presunta illegittima modifica operata dal Giudice di I grado della domanda e del grado della responsabilità (da dolo a colpa grave), si è trattato non certo di una mutatio libelli, ma (semmai) di una mera, e consentita, emendatio libelli. E’ infatti pienamente possibile, per questo Giudice (come per ciascun altro Giudice), riqualificare la causa petendi in conseguenza dell'acquisizione dei contributi assunti dalle parti in causa, come del resto esattamente opposto dal PM nelle sue conclusioni".

 

Testo del Provvedimento (Apri il link)

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

=   °   =

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE DEI CONTI

SEZIONE PRIMA GIURISDIZIONALE CENTRALE

composta dai seguenti magistrati:

Dott. Martino             COLELLA                             Presidente

Dott. Nicola               LEONE                                 Consigliere

Dott.ssa Rita             LORETO                               Consigliere

Dott.ssa Emma        ROSATI                                Consigliere

Dott. Piergiorgio       DELLA VENTURA              Consigliere relatore

ha pronunziato la seguente

S E N T E N Z A

Nei giudizi riuniti, iscritti ai nn. 46120, 46273 e 46259 del registro di segreteria della Sezione, sugli appelli proposti, rispettivamente, da:

****

tutti avverso

la sentenza 2.5.2013, n. 360 della Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la regione Lazio.

VISTI gli atti e documenti di causa;

UDITI, nella pubblica udienza del giorno 20 novembre 2014, il consigliere relatore dr. Piergiorgio Della Ventura, il Pubblico Ministero, nella persona del vice Procuratore generale dr. Antonio Buccarelli, nonché gli avv.ti: Stefano Margiotta per Caleca; Riccardo e Alessandro Biz per Anzimani; Francesco A. Caputo per Trezza;

Ritenuto in

F A T T O

Con la sentenza indicata in epigrafe la Sezione giurisdizionale Lazio ha condannato, salvo eventuali recuperi realizzati nella fase esecutiva, **a al risarcimento del danno pari a € 2.517.025,50 e ** al risarcimento di € 1.258.513,00 ciascuno, in tutti i casi oltre rivalutazione monetaria dalla data dell’evento dannoso al deposito della decisione ed interessi legali dalla data di deposito della sentenza fino al soddisfo.

La vicenda dannosa ha avuto origine dalla condotta posta in essere dai tre soggetti, tutti impiegati dell’Agenzia delle entrate di Roma; condotta consistente – secondo la prospettazione formulata in sede penale - nell’aver essi impedito, mediante artifici e raggiri e con la produzione di documentazione risultata poi falsa, la riscossione dell’imposta sul valore aggiunto e dell’imposta sui redditi sulla plusvalenza dovuta dalla società estera * (società del Lichtenstein) a seguito della cessione in data 25 giugno 2002 del complesso alberghiero, denominato Imperiale Palace Hotel, e successivamente Nuovo Hotel Acropolis, sito in Taormina.

Il processo penale che è scaturito a seguito della scoperta dei su indicati fatti illeciti è stato definito, quanto al **i, con sentenza n. 2258/2010 di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione del reato mentre, per Trezza, che aveva rinunciato alla prescrizione, con sentenza assolutoria nel merito che, pur escludendo la partecipazione al disegno criminoso e la falsificazione di documenti (comunque falsi), non si è ritenuto abbia inciso sulla qualificazione e sulla rilevanza delle condotte ai fini della responsabilità amministrativa: la Sezione giudicante, con il conforto probatorio scaturente dalle indagini penali - le cui risultanze sono state espressamente valutate nel giudizio erariale di primo grado, non quali prove in senso tecnico, bensì quali elementi da valutare, anche ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c. - ha pienamente riconosciuto, senza vincolo di solidarietà, detta responsabilità per il danno erariale provocato in considerazione della gravità delle azioni poste in essere da soggetti che avrebbero dovuto svolgere con estrema diligenza un compito opposto di tutela delle pubbliche finanze, al punto da non potersi neppure fare applicazione del potere riduttivo.

Nello specifico l’attività illecita è consistita nella costituzione della società estera Peralta AG le cui quote sociali, al momento della cessione del complesso immobiliare, erano detenute al 100% dall’Arch. *.

I tre convenuti partecipavano attivamente all’istruzione (quanto al *, anche per la parte riguardante gli incombenti del contribuente) ed alla evasione della pratica da parte dell’Ufficio concernente la domiciliazione fiscale della società ed in generale le operazioni di inizio attività sociali, attraverso l’acquisizione e la formazione di atti completamente falsi tanto dal punto di vista materiale che ideologico o in carenza della documentazione notarile necessaria per detta domiciliazione. Il tutto con la finalità di “creare” sulla carta un soggetto estero domiciliato in Italia, ma del tutto evanescente ai fini della idoneità contributiva di cui con la cessione della struttura alberghiera detto soggetto avrebbe dovuto farsi carico tanto in termini di IVA sulla operazione (€ 1.446.079,32), quanto in termini di IRPEG (all’epoca) in ordine alla plusvalenza realizzata (€ 2.455.288,00).

In particolare, il sig. * (addetto allo sportello al pubblico e conoscente dell’Ilardo) depositava sotto falso nome presso un CAF romano la comunicazione annuale ai fini IVA per la citata società ove veniva dichiarato un debito IVA pari a zero.

La concreta ricostruzione dei fatti ha permesso di stabilire che il sig. * (unico dei tre dipendenti addetto alla trattazione delle pratiche di società estere) e il sig. * avevano aperto, quattro giorni prima del rogito notarile di compravendita, il fascicolo informatico in nome del rappresentante fiscale in Italia della * A.G., tale *, rivelatosi soggetto inesistente (come altrettanto inesistente era il domicilio fiscale della società estera); ciò impediva la riscossione delle imposte dovute sia perché la soc. Peralta non era rintracciabile in Italia, sia perché il rappresentante legale, e quindi coobbligato con la società, era anch’egli irrintracciabile.

Nella specie, * ha acquisito la dichiarazione di inizio attività della società estera Peralta con conseguente attribuzione della partita IVA il 21 giugno 2002; il mandato di rappresentanza autenticato dal notaio, allegato a detta dichiarazione, reca la data del 24 giugno 2002. Mentre il * ha svolto le operazioni successive, dal 12.7.2002 in poi, compresa, otto mesi dopo, la cessazione di attività della Peralta AG in Italia.

Proprio con riguardo alle condotte appena descritte, anche a voler escludere il comportamento doloso, rileva la sentenza di I grado come sia del tutto inspiegabile che la variazione del domicilio fiscale della società sia stata effettuata da un indirizzo (via Anzio 23, Ladispoli) che non era l’ultimo domicilio (Lungotevere Flaminio n. 34 Roma) della società collegata al rappresentante legale, tale Stefanutti, ed in presenza di un mandato di rappresentanza per conto di società estera privo di firma del rappresentante, di data di emissione e delle cc.dd. apostille notarili. Le circostanze evidenziate, viene fatto presente, avrebbero determinato un qualsiasi funzionario – anche svogliato e distratto - a rifiutare l’apertura della partita Iva e, poi, la variazione proposta del domicilio fiscale o comunque a richiedere la regolarizzazione della documentazione.

Inoltre, il fascicolo relativo alla società * presso l’Agenzia dell’Entrate non è stato mai ritrovato, per cui, prima delle indagini confluite nel procedimento penale, non era stato possibile risalire al menzionato socio unico Ilardo (né all’originario acquirente del complesso immobiliare), presso il cui studio privato venivano rinvenute, per contro, numerose stampe informatiche ad uso interno dell’ufficio fiscale, e, quindi, non reperibili da utenti esterni, aventi ad oggetto i vari passaggi in cui si è concretizzata l’operazione di occultamento della società al fisco.

In ogni caso, il sistema informatico ha consentito di risalire ai soggetti (i convenuti) dalle cui postazioni era partita l’interrogazione al sistema e la conseguente stampa delle schermate riguardanti proprio la società Peralta.

In conseguenza di quanto precede la Sezione giurisdizionale del Lazio, in accoglimento delle richieste della Procura regionale, con la sentenza n. 360/2013 ha condannato i tre odierni appellanti, salvo eventuali recuperi realizzati nella fase esecutiva, al risarcimento delle somme innanzi indicate.

=   °   =

Avverso la sentenza hanno interposto appello tutti e tre i soggetti condannati. Tutti ripercorrono in maniera ampia ed articolata i fatti oggetto di giudizio, riproponendo sostanzialmente le argomentazioni già respinte in prime cure.

Più in particolare, il sig. * (appello n. 46120) ha dedotto:

§  Mancanza di nesso causa-effetto tra quanto addebitatogli e il danno erariale. In particolare, la contestata consegna ad un CAF di una dichiarazione IVA, per veri o falsi che fossero i dati ivi contenuti, non avrebbe –secondo l’appellante- alcuna efficacia causale sul danno erariale in quanto avrebbe potuto essere effettuata da qualsiasi "fattorino". Peraltro, la truffa che ha dato avvio al procedimento è stata perpetrata da privati a prescindere dall'apporto degli sportellisti dell'Agenzia delle Entrate e si sarebbe perpetrata comunque, e con analogo danno erariale.

§  La sentenza impugnata sarebbe viziata in quanto illegittimamente basata su argomenti di prova ex art. 116 c.p.c. seppure in presenza: a) di fatti contestati e di richieste istruttorie tendenti alla loro negazione; b) di indizi discordanti; c) di fatti travisati; d) di argomentazione contraddittoria. Conseguentemente risultano violate, in contrasto con la giurisprudenza contabile, le norme sul processo avanti la Corte dei Conti e del codice civile e di procedura civile (art. 2697 c.c. e artt. 115, 116, 187, 188, 277, 281 c.p.c. in combinato disposto con l'art. 26 del r.d. n. 1038 del 1933). Peraltro, ad evidenza della contraddittorietà della sentenza di I grado, gli stessi addebiti al Caleca potrebbero spiegare un qualche incidenza sul danno erariale solo se combinanti con le azioni concertate con il * e *, il che a sua volta presupporrebbe un comune disegno fraudolento che, invece, la sentenza impugnata esclude. Pertanto in via ulteriormente subordinata al mancato accoglimento di tale motivo di impugnazione, viene chiesto di dichiarare rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 26 R.D. n. 1038 del 1933 e dell'art. 116 c.p.c. in relazione agli artt. 3, 24, 111, Cost..

§  Violazione delle norme sulla colpa grave, poiché quanto contestato al * nulla ha a che vedere con compiti svolti nella qualità di pubblico impiegato.

§  Mancato accoglimento delle istanze istruttorie del *.

§  Violazione delle norme sulla quantificazione del danno, sulla ripartizione e sull’addebito.

§  In via del tutto subordinata, condanna del * ad un importo non superiore ad un ventesimo del danno erariale o della diversa misura che il collegio riterrà di determinare.

=   °   =

Per quel che riguarda * (appello n. 46259), le doglianze sono le seguenti:

v  Erronea, mancata declaratoria della prescrizione dell'azione di responsabilità.

v  Nel merito, insussistenza degli elementi tipici della responsabilità amministrativa, infondatezza della domanda che si basa su evidenti contraddizioni e vistose forzature degli elementi di fatto acquisiti. Tanto si desumerebbe pacificamente anche dalla conclusione di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione del processo penale. Rileva la difesa che * ha correttamente inserito a sistema le esatte generalità del rappresentante fiscale della Peralta e che tali dati siano stati modificati successivamente – il 12.7.2002 - dal *, sulla base di documentazione a supporto falsa. Anche il GIP, in sede di richiesta applicazione delle misure cautelari, ha rilevato che l’impianto dell’accusa non era assistito da consistenza indiziaria idonea ai fini dell'applicazione della misura. Pur non sapendo fornire giustificazione sulla evidente mancanza di idoneità degli atti presentati ad aprire partita IVA avvenuta il 21.6.2002, la difesa * spiega gli accessi al sistema informatico operati il 12.7.2002 (data di variazione del domicilio fiscale effettuata dal * pochi minuti prima) con l’intervento in aiuto di un collega inesperto, ed il 29.7.2002 con probabili verifiche ad uso interno dietro richiesta operata allo sportello o proveniente da altro dipendente dell’Amministrazione.

v  Mancanza dell'elemento psicologico del dolo o della colpa grave.

v  In via subordinata, contesta la mancata applicazione del potere riduttivo.

=   °   =

Da ultimo, il sig. * (appello n. 46273) ha lamentato:

q  Error in procedendo ed in iudicando della sentenza per incongruità della motivazione ed eccesso di potere giurisdizionale in quanto la condanna è stata somministrata sulla base di presunzioni  semplici ex artt. 2727 e 2729 c.c., in violazione del principio del giusto procedimento e del corretto rapporto tra "fatto noto e fatto ignoto”, nonché del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato. Rileva la difesa che il ragionamento assunto in sentenza prescinde dalla statuizione penale di assoluzione piena del * (cui nessuna negligenza, imprudenza o imperizia, né violazione di norme di legge o di regolamento o della comune e doverosa prassi di diligenza e prudenza sono addebitabili), per la quale dovrebbe applicarsi il principio di cui all’art. 652 c.p.p., con conseguebnte assoluzione. Rileva, inoltre, che il primo Giudice ha riqualificato l’elemento psicologico in termini di colpa grave così violando l’attinenza alla domanda attorea, che presupponeva il dolo da parte dell’impiegato.

q  Error in iudicando dei primi giudici per eccesso di potere giurisdizionale per travisamento dei presupposti e falso supposto in fatto: risultava evidente, dalle circostanze oggettive e soggettive, che l'operazione contestata al * era stata compiuta da altro soggetto, il quale ebbe ad approfittarsi del momentaneo spostamento dell'appellante dalla propria postazione di lavoro.

q  Mancata applicazione dell’esimente derivante dal c.d. “caos amministrativo”, riconosciuta dalla giurisprudenza della Corte dei conti, nonché dell’errore professionale o dell’errore scusabile.

=   °   =

Con nota del 4.12.2012 l'Agenzia delle Entrate - Settore Gestione Risorse, Ufficio Contenzioso e Disciplina - ha chiesto di porre in essere azioni a garanzia e tutela del credito erariale nei riguardi dei sigg.ri * ed *, in quanto solo questi ultimi cessati dal servizio a seguito di licenziamento irrogato con provvedimenti del 6.8.2012. Tanto per l'uno quanto per l'altro l'Ufficio aveva dato incarico all'Avvocatura Generale dello Stato di avviare le procedure di pignoramento presso terzi delle somme dovute dall'INPS a titolo di buonuscita e previdenziale, avendo il predetto Ente rappresentato di non poter procedere a sospensione dei pagamenti sulla base di un provvedimento di fermo amministrativo ex art. 69, comma sesto, del r.d. 2440/1923.

A seguito dell'appello della sentenza di I grado della Sezione giurisdizionale Lazio che ha sospeso ex lege l'esecutività della sentenza, l'Avvocatura dello Stato ha interrotto le procedure esecutive raccomandando l'Amministrazione di richiedere il sequestro conservativo delle somme dovute ai dipendenti pubblici condannati ai sensi dell'art. 5, comma 2, legge n. 19/1994, ovvero la provvisoria esecutività della sentenza di condanna, ai sensi dell'art. 1, comma 5-ter, della stessa legge.

In tale ultimo senso ha proceduto la Procura generale, anche nei riguardi del *, la cui posizione di responsabilità ad avviso del Requirente medesimo non differisce da quella degli altri due convenuti, se non per la misura dell’addebito; posizione rispetto alla quale l'Amministrazione non aveva ritenuto di segnalare il proprio interesse poichè l’interessato è stato assolto nel processo penale "per non aver commesso il fatto" in ordine alle specifiche ipotesi di reato contestate, di truffa ai danni dello Stato e di falso materiale.

Con ordinanza n. 21/2014, depositata il 28.5.2014, questa Sezione ha accolto l’istanza di provvisoria esecuzione della sentenza di I grado per i sigg.ri * ed *; l’istanza è stata invece respinta quanto al sig. *, non avendo il Collegio ravvisato - per essere quest’ultimo ancora in servizio e, quindi, solvibile rispetto al credito erariale - il periculum in mora determinato dalla mancanza di garanzia sulla futuribile esigibilità del credito.

=   °   =

Con le proprie conclusioni, recentemente depositate, il Procuratore generale ha chiesto il rigetto degli appelli proposti.

Le solide ragioni fondative del buon diritto erariale emergono, secondo il PM, già dalla mera esposizione dei fatti e sarebbero state adeguatamente dimostrate nel giudizio di primo grado, che descrive una condotta la cui antigiuridicità, per i profili di responsabilità amministrativa, appare quale dato oggettivamente insuperabile e ben al di là delle argomentazioni dei convenuti in giudizio, i quali - sembra al Requirente - vorrebbero trarre conseguenze giuridiche oltremodo ridondanti ed esagerate rispetto all’evidenza di fatti e circostanze, che non lascerebbero invece alcuno spazio ad una rimeditazione in sede di gravame.

Seguendo l’ordine di prospettazione dei motivi di ricorso, appare evidente al Procuratore che sulla fattispecie non si è formata la dedotta prescrizione dell’azione di danno erariale, sia per l’effettiva decorrenza del termine alla luce del rilievo penale della vicenda dedotta in giudizio (rinvio a giudizio del 5.3.2007), ma anche perchè vi è stata costituzione in mora dei dipendenti nel dicembre 2007, rinnovata a dicembre 2012 da parte dell’Amministrazione di appartenenza, quando già il processo contabile era stato incardinato.

Nel merito, specifica il PM che gli appellanti, nell’esplicare le loro singole difese, tendono a smentire la ricostruzione degli altri in ordine ai medesimi fatti: sicché non vi sarebbe il minimo dubbio che le operazioni di assegnazione di partita IVA siano state compiute dall’Anzimani, che quelle di modifica del rappresentate legale e di variazione del domicilio fiscale, nonché la cancellazione della attività (da notare bene: otto mesi dalla sua iscrizione) siano state eseguite dalla stessa medesima persona, cioè dal *, e non da altri dipendenti proditoriamente introdottisi sui terminali in uso anche a quest’ultimo; in disparte la tracciabilità delle interrogazioni informatiche e la loro attribuibilità all’operatore, * conferma sia le proprie attività che quelle del *. Così come non vi sarebbe dubbio che il *, sotto mentite spoglie, si sia recato presso un CAF della capitale a svolgere operazioni fiscali (finalizzati all’elusione della pretesa tributaria) per conto di un privato contribuente che aveva fatto perdere le sue tracce al Fisco e che tale condotta, come le altre appena descritte, siano tutte rilevanti ai fini della determinazione della perdita - a prescindere dalle velleitarie attività dell'Amministrazione finanziaria - della pretesa tributaria. Rileva il Procuratore come il * non riesca a fornire un solo elemento di dubbio e non neghi nemmeno di avere posto in essere la condotta che gli è stata ascritta.

Premessa l’irrilevanza rispetto all’affermazione di piena responsabilità dei convenuti dell’addebito per colpa gravissima, piuttosto che per dolo (non essendo stata provata in sede penale una azione concorsuale concertata tra di essi), appare comunque inverosimile al Requirente che tre dipendenti abbiano commesso gravissimi errori professionali tutti insieme, nello stesso tempo e sulla stessa pratica che, ritiene, non presentava alcun elemento di difficoltà specifica, meritando semmai una maggiore sensibilità ed attenzione trattandosi di società estera del Lichtenstein. In ogni caso, prosegue, anche volendo ammettere che le cose si siano svolte nei termini di una mera e concomitante negligenza, non dubita il PM che da tali condotte sia derivata l’impossibilità concreta di recuperare il credito tributario che è ora da considerarsi inesigibile.

In ordine alla presunta illegittima modifica operata dal Giudice di I grado della domanda e del grado della responsabilità, in funzione dell’esito del processo penale, il Procuratore sostiene essersi trattato di una legittima riqualificazione della causa petendi, in conseguenza dell'acquisizione dei contributi assunti dalle parti in causa; riqualificazione che, del resto, rientrerebbe nei poteri di qualsiasi giudice, non solo del giudice contabile per il quale tale facoltà afferisce al c.d. potere sindacatorio (Cass. SS.UU. n. 26582/13), e che nel caso sarebbe stata legittimamente esercitata senza che ciò abbia impedito il dispiegarsi con pienezza del diritto di difesa dei convenuti, ed anzi anche in ragione delle apporto difensivo da essi conferito. Il Giudice di I grado ha legittimamente tenuto conto delle evidenze del procedimento penale in funzione della determinazione del proprio libero convincimento; né, sostiene il PM, al caso di specie potrebbe applicarsi, quanto al *, l’art. 652 c.p.p. (efficacia della sentenza penale di assoluzione nel giudizio civile o amministrativo di danno), sia per la mancata costituzione nel giudizio penale dell’Amministrazione danneggiata, sia perché la fattispecie decisa in sede penale non è la stessa presa in esame per il giudizio di responsabilità amministrativa.

In questa sede, infatti, la falsità della documentazione esibita dagli emissari della Peralta agli uffici finanziari non è in discussione, né è in discussione chi abbia falsificato quella documentazione, rilevando invece in maniera determinante che quella documentazione era assolutamente inidonea all’apertura della partita IVA ed all’annotazione del domicilio fiscale (e, quindi, al buon esito della procedura), peraltro, tutti aspetti rivelatori ed essenziali di una operazione truffaldina in atto, quand’anche compiuta da terzi.

Quanto alla truffa, osserva il Requirente, in sede penale è stato acclarato che, con riguardo al Trezza, non sussistevano gli estremi oggettivi e soggettivi della fattispecie ipotizzata dalla norma penale (artifici o raggiri, dolo, ritenuto generico, ma il cui carattere specifico è, in realtà, assorbito dalla oggettiva univocità direzionale della condotta fraudolenta); nel giudizio contabile, tuttavia, i requisiti oggettivi e soggettivi sono differenti proprio perché ogni fattispecie è da valutarsi in relazione al rapporto di servizio che intercorre tra l’amministrazione danneggiata ed il soggetto danneggiante (aspetto che in sede penale è solo una aggravante o un requisito soggettivo specifico dei reati cd. propri). In questo senso, prosegue il Procuratore, rileva non già che il * abbia con dolo partecipato alla truffa e consentito l’ingiusto profitto, ma soltanto che egli abbia posto in essere una condotta foriera di danno, in violazione dei compiti di servizio da cui è disceso l’approfittamento in danno allo Stato. In sostanza, precisa, l’approdo della sentenza penale non ha alcun riflesso nella presente sede, dato che la fattispecie di responsabilità amministrativa è, per come avanzata dalla Procura regionale e riconosciuta nella sentenza impugnata, già autonomamente formata e definita.

In termini di relazione tra giudizi, quindi, nel caso di specie non troverebbe applicazione neppure l’art. 654 c.p.p. il quale definisce (sempre che il danneggiato si sia costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile) l’efficacia della sentenza penale di condanna o di assoluzione in altri giudizi civili o amministrativi, poiché i fatti materiali rilevanti trattati nel giudizio penale ed in quello contabile non sono gli stessi.

Il Giudice di I grado, allora, ha tratto gli elementi desumibili dal processo penale ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., come confermativi della responsabilità erariale dei tre dipendenti e, tenendo conto degli elementi di prova acquisiti in sede penale, ha autonomamente valutato il fatto in contestazione ai sensi degli artt. 115 e 116 c.p.c. (cita Cass. SS.UU. 26 gennaio 2011, n. 1768).

Conclusivamente, il Procuratore chiede il rigetto degli interposti appelli, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio e, quanto agli appellanti sigg.ri * ed *, anche del giudizio di provvisoria esecuzione.

=   °   =

La difesa del sig. * ha depositato brevi note in vista dell’udienza odierna, nelle quali sostanzialmente ribadisce le proprie ragioni e deduzioni.

Afferma, in particolare, la necessità di applicare all’odierna fattispecie il principio di cui all’art. 652 c.p.p., dal momento che l’interessato è stato assolto con la formula “per non aver commesso il fatto” e, dunque, tale formula assolutoria non potrebbe non operare nei suoi confronti. Infatti, sostiene la difesa, il dipendente è stato “ingannato dalla produzione di documenti falsi, sulla cui genuinità non aveva concrete possibilità di verifica” e che nei suoi confronti, a differenza degli altri coimputati in sede penale, non erano riscontrabili “forme di cointeressanza con le società interessate all’operazione”; insomma, lo stesso Giudice penale, all’esito del dibattimento, ha escluso che il dipendente potesse verificare la legittimità dell’operazione.

Viene anche evidenziata la sproporzione rispetto alla condanna inflitta agli altri soggetti coinvolti, che non sono stati assolti in sede penale con formula piena.

La difesa insiste, sotto altro profilo, sulla completa assenza di dimostrazione circa la colpa grave a suo carico.

Conclusivamente, chiede l’assoluzione dell’interessato o, in subordine, la riduzione della condanna ad una misura meramente simbolica.

=   °   =

All’udienza dibattimentale odierna, l’avv. Margiotta, per *, evidenzia come l’accusa sia mutata nel corso del giudizio: all’inizio si parlava di intento fraudolento, poi si parla, dopo la sentenza penale, di tre distinte negligenze. A carico del * resta solo l’addebito di avere depositato documentazione a un CAF, circostanza peraltro del tutto dubbia in quanto ricavabile da una sola testimonianza non sottoposta al vaglio dibattimentale. Manca un adeguato sostegno probatorio circa l’illiceità della condotta, circa il danno e circa il nesso causale tra la consegna di quel plico e il danno derivato.

L’avv. Francesco A. Caputo, per *, evidenzia che l’accertamento della realtà dei fatti in sede penale, rende la posizione del Trezza non passibile di alcun addebito nella presente sede. E di tale pronunzia si deve tenere conto tanto più alla luce del principio di cui all’art. 652 c.p.p.: richiama in proposito Cassazione civile, SS.UU., n. 1768/2011.

L’avv. Alessandro Biz, per *, sottolinea che la stessa sentenza di I grado lo ha ritenuto estraneo all’attività truffaldina posta in essere da altri; dunque occorre valutare i singoli comportamenti e la loro incidenza sul danno prodottosi per l’Erario. * aprì la partita IVA a nome della società, con dati riconosciuti poi come esatti; la sparizione del fascicolo ha impedito poi di provarlo ulteriormente. Risulta che i dati inseriti dall’Anzimani furono modificati in seguito. E’ stato poi contestato un successivo accesso senza modifica, avvenuto evidentemente a richiesta di un utente. In ogni caso, gli atti posti in essere non ebbero alcuna efficacia causale sul successivo danno.

Il PM si richiama ai fatti emersi durante il processo penale, che nel presente processo hanno fatto emergere elementi su cui fondare i relativi profili di responsabilità a carico degli odierni appellanti.

In questa vicenda, qualunque medio operatore avrebbe dovuto rilevare l’operazione intesa ad evitare il pagamento delle imposte, per come essa si è svolta; ed invece, nessuna istruttoria è stata effettuata al riguardo. Tutti e tre gli appellanti hanno partecipato, a vario titolo, alla negligente gestione del fascicolo: ci sono consultazioni del fascicolo in ore e giorni ben precisi, ci sono documenti interni rinvenuti a casa dell’Ilardo, etc.. Evidenzia, inoltre, che la responsabilità amministrativa non coincide con quella penale; semplicemente, il materiale del processo penale è stato utilizzato per fondare la pronunzia di condanna emessa in primo grado.

D I R I T T O

1.         In rito, si dispone la riunione degli odierni appelli, ai sensi dell'art. 335 c.p.c., in quanto proposti avverso la medesima sentenza.

2.         In via preliminare, va poi respinta la doglianza dell’appellante *, il quale si duole della mancata declaratoria della prescrizione da parte del Giudice di prime cure.

Tale pretesa risulta, invero, del tutto infondata, per almeno due ragioni.

2.1.     In primo luogo, occorre premettere che, ai sensi dell'art. 1, comma 2 della legge 14.1.1994 n. 20 (come successivamente modificata dalla legge 20.12.1996 n. 639), il diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta. La prescrizione, dunque, decorre dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso e tale data è stata identificata dalla giurisprudenza in quella in cui si è verificato il danno quale componente del “fatto“ (ex plurimis, v. Corte dei Conti, SS.RR., 29 gennaio 1997, n. 12 e Cassazione civile, Sez. III^, 12 agosto 1995, n. 8845); in particolare, per quel che qui interessa, si ricorda che il Legislatore, con le norme appena citate, ha sancito espressamente il principio secondo il quale, nel caso di occultamento doloso, il termine di decorrenza della prescrizione non può che decorrere dalla data della sua scoperta.

Orbene, ritiene questo Giudice che nei casi – come quello all’esame - di fatti delittuosi consistenti nell’ignota percezione illecita di denaro, si deve ritenere in re ipsa la sussistenza di un doloso occultamento del danno: cfr., in proposito, Corte dei conti, SS.RR., 15.2.1999, n. 3 e 11.2.1994, n. 929; Sezione I app., 25.11.2008, n. 508; Sezione II app., 13.4.2000, n. 134; Sezione III app., 2.4.1999, n. 63. Tale situazione, a sua volta, comporta un obiettivo impedimento ad agire, di carattere giuridico e non di mero fatto: ciò implica che l’azione contabile può essere iniziata solo allorchè il fatto viene non meramente scoperto, ma da quando esso assume una sua concreta qualificazione giuridica, atta ad identificarlo come presupposto di una fattispecie dannosa.

Non vi è allora dubbio che l’inizio del termine di prescrizione debba essere individuato, in tali evenienze, nel momento in cui il danno stesso viene delineato in tutte le sue componenti, a seguito del provvedimento di rinvio a giudizio in sede penale: momento che indubbiamente rappresenta, anche in virtù di quanto disposto dall’art. 2935 del c.c. (“la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”) il dies a quo di decorrenza, secondo quanto ampiamente chiarito dalla pacifica giurisprudenza di questa Corte dei conti, che questo Collegio condivide appieno: cfr., ex plurimis, SS.RR., sentenza 25.10.1996, n. 63; Sezione I app., 5.2.2008, n. 64; id., 4.12.2007, n. 497; Sezione II app., 7.6.2004, n. 184; id., 2.2.2004, n. 29; Sezione III app., 26.3.2007, n. 73; id., 16.1.2002, n. 10; Sezione app. Sicilia, 22.4.2004, n. 66.

E dunque, se pure i fatti materiali risalgono al 2002, vale qui il riferimento alla data del rinvio a giudizio (5.3.2007), quale individuazione del dies a quo di decorrenza del relativo termine. Termine che peraltro è rimasto interrotto in pendenza del processo penale.

2.2.     Inoltre, e ad abundantiam, non potrebbe non tenersi conto dell’intervenuta costituzione in mora dei dipendenti nel dicembre 2007, rinnovata a dicembre 2012 da parte dell’Amministrazione di appartenenza, quando già il processo contabile era stato incardinato.

La doglianza relativa alla prescrizione deve pertanto, essere de plano disattesa.

3.         Nel merito, le determinazioni del Collegio di prime cure meritano conferma, nei termini di cui si dirà.

Si rammenta, in estrema sintesi, che l’attività illecita per la quale è causa è consistita nella costituzione della società estera (* A.G.) le cui quote sociali, al momento della cessione di un importante complesso immobiliare in Taormina, erano detenute al 100% dall’arch. Giovanni Francesco *. A tale società estera è stata attribuita apposita partita IVA (21 giugno 2002) e otto mesi dopo ne è stata accertata la cessazione di attività; il rappresentante fiscale in Italia della società, tale Arnaldo *, è stato poi accertato essere inesistente (come altrettanto inesistente era il domicilio fiscale della società estera). Tutto ciò ha avuto l’effetto di impedire la riscossione delle imposte dovute per la cessione immobiliare, perché la * A.G. non era rintracciabile e, inoltre, lo stesso rappresentante legale, e quindi coobbligato con la società al pagamento delle imposte, non esisteva.

4.         Ciò premesso, con riferimento alla posizione dell’appellante sig. *, ritiene questo Giudice che le determinazioni assunte dal Collegio di prime cure siano pienamente condivisibili.

4.1.     Ed invero, dall’esame degli atti di causa risulta accertato che il sig. *, pur affermando di non conoscere la società Peralta, ebbe a curare la consegna, sotto mentite spoglie, della dichiarazione IVA 2002 della società medesima al CAF Confagricoltura di Roma.

La su detta circostanza, come già evidenziato nella sentenza impugnata, risulta ampiamente dimostrata, al di là di ogni dubbio ragionevole: si vedano in proposito, tra l’altro, le dichiarazioni testimoniali dell’incaricato alla trasmissione telematica della dichiarazione presso il CAF (sig. Claudio *), di cui al verbale di sommarie informazioni ex art. 351 c.p., redatto dalla Guardia di finanza, Comando Nucleo provinciale Polizia tributaria di Roma in data 27.4.2004: “Sì, ricordo di aver inviato la comunicazione annuale IVA 2002 della società PERALTA AG … La persona che fisicamente si è recata presso i nostri uffici per la trasmissione della comunicazione si è presentata come Massimo * il quale mi ha lasciato il suo recapito telefonico, da me annotato sul retro della seconda pagina … Lo stesso è ritornato presso i nostri uffici per ritirare la copia della comunicazione e la ricevuta della presentazione”.

Altrettanto certo risulta che il fantomatico sig. *, altri non era che Massimo *; ciò si evince con chiarezza dal verbale di sommarie informazioni in data 26.5.2004 della sig.ra Luciana Spagnolo, titolare dell’utenza mobile il cui numero era stato riportato sulla dichiarazione IVA presentata al CAF di cui innanzi (“l’utenza è utilizzata da un amico di famiglia, tale Massimo Caleca”).

Inoltre, e ad abundantiam, è sicuro che vi fosse un diretto rapporto di conoscenza tra il medesimo sig. * e il sig. *, cioèil destinatario diretto degli effetti dell’operazione illecita (come risulta dal verbale di sommarie informazioni, rese dal medesimo appellante alla G.d.F. in data 26.5.2004).

Sono state, infine, rilevate numerose interrogazioni dello stesso interessato al sistema informatico dell’Agenzia, tra il 18 aprile e il 21 giugno 2002; interrogazioni da qualificare indebite, in quanto non rientranti tra i suoi compiti d’ufficio (addetto allo sportello informazioni) e che contribuiscono anch’esse a tratteggiare con esattezza il ruolo specifico rivestito nella vicenda dall’odierno appellante: il quale, detto per inciso, aveva sempre dichiarato di non conoscere la soc. * (sulla quale aveva però effettuato quegli accessi).

Si tratta, ad ogni evidenza, di circostanze e fatti precisi ma, sopra tutto, concordanti e coerenti tra loro e che l’interessato, in fondo (si leggano le sue stesse note difensive), neppure smentisce.

4.2.     Né potrebbero valere, in contrario, le osservazioni e doglianze avanzate dall’interessato nel proprio atto di gravame. Lamenta, l’interessato, la mancanza di nesso causa-effetto tra quanto addebitatogli e il danno erariale: la consegna al CAF di una dichiarazione IVA non avrebbe alcuna efficacia causale sul danno, poiché la truffa che ha dato avvio al procedimento fu perpetrata da privati a prescindere dall'apporto degli sportellisti dell'Agenzia delle Entrate; inoltre quanto contestato al * nulla avrebbe a che vedere con i suoi compiti di pubblico impiegato.

Tali deduzioni non hanno alcun pregio.

4.2.1.  Sotto un primo profilo, di carattere generale, va infatti evidenziato che in realtà sarebbe sufficiente un qualsiasi apporto causale al determinarsi di un effetto dannoso, perché emerga e sussista il nesso etiologico tra condotta del soggetto agente ed evento dannoso per l’Erario: a differenza di quanto avviene in campo contrattuale privatistico, dove il principio di causalità viene interpretato con particolare rigore (art. 1223 c.c.), nel campo giuscontabile il criterio dell'immediatezza viene esteso, considerando rilevanti anche gli eventi indiretti e mediati, purché però siano effetto normale della condotta (principio c.d. della regolarità causale). In particolare, nell'ipotesi di concorso di cause (pluralità di fatti dannosi, imputabili a più persone e succedutisi nel tempo), si riconosce efficienza causale nei confronti di tutti coloro che abbiano determinato una situazione tale che, senza il loro apporto, l'evento non si sarebbe verificato: cfr., ex multis, Corte dei conti, Sezione III app., 4.2.2011, n. 132; Sezione II, 16.1.1984, n. 9; Sezione giurisdizionale Toscana, 15.1.2001, n. 54 e 26.8.1999, n. 1004.

4.2.2.  In ogni caso, anche in concreto le difese in questione si appalesano del tutto inconsistenti.

Se è vero che qualunque persona avrebbe potuto presentare la dichiarazione IVA presso il CAF, è certo che in questo caso il “fattorino” fu proprio il sig. *, e che tale ruolo è stato essenziale per il raggiungimento dello scopo illecito (altrimenti, perché dissimulare la propria identità?). Senza contare le ulteriori attività poste in essere dall’interessato (accessi ed interrogazioni al sistema informatico dell’Agenzia delle entrate), tutte finalizzate al medesimo scopo.

E’ poi persino superfluo rammentare che i su detti comportamenti del sig. *, lungi dall’essere irrilevanti ovvero non contestabili, costituiscono al contrario specifiche e gravissime violazioni delle norme di legge di cui al D.P.R. n. 3/1957 – di carattere generale e tuttora in vigore - il cui articolo 13 (“Comportamento in servizio”) così dispone: “[1] L'impiegato deve prestare tutta la sua opera nel disimpegno delle mansioni che gli sono affidate curando, in conformità delle leggi, con diligenza e nel miglior modo, l'interesse dell'Amministrazione per il pubblico bene. [2] L'impiegato deve conformare la sua condotta al dovere di servire esclusivamente la Nazione, di osservare lealmente la Costituzione e le altre leggi e non deve svolgere attività incompatibili con l'anzidetto dovere. (…) [6]Fuori dell'ufficio, l'impiegato deve mantenere condotta conforme alla dignità delle proprie funzioni”.

Tutti questi doveri comportamentali sono stati, come noto, ulteriormente precisati dal D.M. Funzione pubblica del 31 marzo 1994 (“Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni”), in seguito (e anche di recente) più volte modificato.

Per i dipendenti dell’Agenzia delle Entrate era in vigore all’epoca dei fatti il D.M. Funzione pubblica 28 novembre 2000, il cui art. 2 (“Principi”) recita, tra l’altro: “Il dipendente conforma la sua condotta al dovere costituzionale di servire esclusivamente la Nazione con disciplina ed onore e di rispettare i principi di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione. Nell’espletamento dei propri compiti, il dipendente assicura il rispetto della legge e persegue esclusivamente l’interesse pubblico che gli è affidato (comma 1) … Egli non svolge alcuna attività che contrasti con il corretto adempimento dei compiti d'ufficio e si impegna ad evitare situazioni e comportamenti che possano nuocere agli interessi o all'immagine della pubblica amministrazione (comma 2)”; per non parlare dei successivi artt. 5 (“Trasparenza negli interessi finanziari”), 6 (“Obbligo di astensione”) e 7 (“Attività collaterali”).

Ora, come già posto in luce da questa Corte (v. Sezione I app., 5.10.2007, n. 310; Sezione giurisdizionale Lombardia, 18.3.2009, n. 157 e 29.12.2008, n. 990) la ratio dei su riportati divieti è da ricercare nella tutela del principio di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., in base al quale i dipendenti pubblici sono obbligati a rendere i loro servizi in modo trasparente e, soprattutto, ponendo tutti i destinatari sullo stesso piano: vi è pertanto sicura lesione di detto precetto quando il pubblico dipendente, con l’accettazione di rapporti privilegiati con determinati soggetti, anche al di fuori dell’ufficio, realizza una disparità di trattamento nei confronti della restante platea dei contribuenti.

Tali principi non possono non essere riaffermati, con forza, nell’odierna fattispecie: e dunque, prive di pregio si appalesano le contrarie deduzioni dell’appellante, i cui comportamenti senza dubbio alcuno integrano altrettante - chiarissime e gravissime – violazioni delle norme, di legge e regolamentari, che presiedono al corretto comportamento dei pubblici funzionari: oltre ad avere costituito causa diretta ed immediata del danno erariale per cui è causa.

4.3.     Sempre a proposito della posizione del sig. *, vanno poi senz’altro respinte le deduzioni relative alla pretesa violazione dell’art. 116 del c.p.c..

Occorre premettere, al riguardo, che il principio di base da cui partire è quello secondo cui il materiale di un giudizio diverso da quello contabile ben può essere esaminato e valutato da questo Giudice contabile, per essere posto (unitamente a tutta la restante documentazione) a fondamento dell’emananda decisione, senza che ciò implichi la violazione del diritto di difesa di alcuno.

Secondo giurisprudenza consolidata, infatti, tutti gli elementi utili per la conoscenza dei fatti, comunque acquisiti, anche (come nel caso all’esame) in sede processuale e pre-processuale penale, devono e possono essere oggetto di autonoma valutazione da parte del Giudice contabile, in quanto concorrono, ai sensi appunto dell’art. 116 del c.p.c., alla formazione del convincimento sull’esistenza dell’eventuale danno e delle conseguenti responsabilità amministrative (Corte dei conti, Sezione I app., 14.11.2011, n. 516; 18.3.2010, n. 188; 11 settembre 2009, n. 544; 9 maggio 2008, n. 209; 11 gennaio 2006, n. 7).

In ogni caso, i fatti emersi in sede penale sono stati, nella presente fattispecie, autonomamente apprezzati dal Collegio di prime cure a fini qualificatori diversi rispetto al giudizio penale, che è indirizzato, esclusivamente, all’accadimento dell’esistenza del reato ed alla erogazione della pena nei confronti del colpevole (Corte dei conti, Sezione I app., 11 gennaio 2006 n. 7 e 18 marzo 2010, n. 188; Sezione III app., 14 febbraio 2005, n. 75). Oltre a ciò, le motivazioni dell’impugnata decisione testimoniano ampiamente come il convincimento dei Giudici di prime cure si sia basato non soltanto sugli elementi probatori emersi in sede penale, ma anche sui risultati delle indagini compiute dalla Procura contabile e sulla restante documentazione presente in atti.

In altri termini, nella presente vicenda gli elementi considerati dal primo Giudice non erano affatto controversi o discordanti o, ancora, contraddittori. E comunque - va pure evidenziato - in relazione a tutto il complesso del materiale probatorio esistente, i soggetti convenuti nel giudizio in primo grado hanno avuto piena possibilità di interloquire e difendersi, senza tuttavia riuscire a dimostrare in alcun modo l’infondatezza o la non rilevanza, nel presente processo, del materiale probatorio acquisito.

Né, a tutta evidenza, e per le medesime ragioni appena esposte, potrebbe affermarsi la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 26 R.D. n. 1038 del 1933 e dell'art. 116 c.p.c., in relazione agli artt. 3, 24, 111, Cost., ipotizzata in via subordinata dall’appellante: nessuna violazione né della par condicio tra i soggetti sottoposti a giudizio, né tampoco del diritto di difesa potrebbe emergere dalla disposizione normativa in esame, perfettamente coerente anzi con i fondamentali principi che, da sempre e in ogni tempo, presiedono allo svolgimento dell’attività processuale.

4.4.     Allo stesso modo, le restanti doglianze dell’interessato si appalesano del tutto sfornite di fondamento.

Priva di pregio ritiene questo Collegio la pretesa relativa alle istanze istruttorie, del cui mancato accoglimento da parte del primo Giudice il sig. * si duole: i fatti appaiono del tutto chiari, non sono stati efficacemente smentiti dalle deduzioni dell’interessato e ogni ulteriore attività istruttoria risulterebbe alla fine, ad avviso della Sezione, inutilmente dilatoria.

Non sembrano inoltre essere state affatto violate, da parte del primo Giudice, le norme sulla quantificazione del danno, sulla ripartizione e sull’addebito; né appare esservi spazio alcuno per l’accoglimento della richiesta, formulata in via subordinata, di una condanna ridotta del sig. Caleca: ed invero – anche a non voler considerare il carattere doloso dei comportamenti dell’interessato – l’estrema e assoluta gravità del suo contegno complessivo esclude in radice ogni possibile riduzione, o comunque diversa o più favorevole ripartizione del carico di condanna nell’odierna fattispecie.

5.         Anche la posizione del sig. Anzimani è stata correttamente giudicata dal Collegio di prime cure, le cui statuizioni vengono, quindi, condivise e fatte proprie da questo Giudice d’appello.

Lamenta l’interessato le contraddizioni e forzature degli elementi di fatto presi a base della sua condanna in sede contabile, a fronte della conclusione di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione nel processo penale. Sostiene poi * di avere correttamente inserito a sistema le esatte generalità del rappresentante fiscale della Peralta e che tali dati furono modificati successivamente dal *, sulla base di documentazione a supporto falsa. Infine, gli accessi al sistema informatico operati il 12.7.2002 (data di variazione del domicilio fiscale effettuata dal Trezza pochi minuti prima) furono effettuati per aiutare un collega inesperto, ed il 29.7.2002 avvennero dietro richiesta proveniente dall’Amministrazione.

Le deduzioni sopra descritte non meritano accoglimento.

5.1.     Risulta, invero, che il sig. * in data 21.6.2002 ha eseguito l’operazione di inizio attività sociali della *, con attribuzione della partita IVA, a seguito di presentazione dell’apposito modello corredato del mandato di rappresentanza con l’autentica del notaio recante una data successiva, il 24.6.2002 (!); né potrebbe essersi trattato di un mero errore di digitazione, come pure l’interessato ha cercato di opporre, anche perchè non è risultato che l’operazione di digitazione sia stata reiterata.

Inoltre, l’appellante ha preso parte attiva anche nella vicenda del trasferimento del domicilio fiscale della società estera e del suo rappresentante legale, poi rivelatosi soggetto inesistente (Armando *): risultano accessi del sig. * al sistema informatico nelle date 12.7.2002 (data di variazione del domicilio fiscale della soc. *) e 29.7.2002; le relative stampe sono state rinvenute presso lo studio del sig. Ilardo. Per contro, non è mai stato rinvenuto presso L’agenzia delle entrate di Roma 6 il fascicolo riguardante l’inizio delle attività della *, che avrebbe quanto meno consentito di (tentare di) rivalersi nei confronti del legale rappresentante.

5.2.     A fronte di tutto ciò, velleitarie (a dir poco) si appalesano le affermazioni dell’interessato, relative alla pretesa carenza dell'elemento psicologico del dolo o della colpa grave: mai sarebbe stata realizzata l’operazione illecita per la quale è causa, senza il determinante apporto (anche) del sig. *, le cui negligenze, sopra sommariamente descritte, risultano evidenti e gravissime, perfino clamorose: è proprio il caso tipico di cui al noto brocardo, per il quale “culpa lata, dolo equiparatur”.

Né risulta dimostrato in alcun modo – a differenza di quanto afferma l’interessato – che egli, il 21 giugno 2002, non ebbe modo di vedere il mandato di rappresentanza con l’autentica del notaio recante una data successiva (24.6.2002). E comunque, a tutto concedere, tale circostanza, se fosse vera, di sicuro integrerebbe una colpa gravissima del soggetto agente: mai si sarebbe dovuta aprire una posizione IVA, senza prima controllare la relativa documentazione.

Da ultimo, e per le medesime ragioni spese con riferimento al sig. *, non è in alcun modo accoglibile la richiesta, formulata dal sig. * in via subordinata, di applicazione del potere riduttivo dell’addebito: troppo gravi e diffuse risultano le sue mancanze.

6.         Vanno, infine, respinte le doglianze del sig. *, con integrale conferma, anche qui, di quanto deciso in prime cure.

Si ricorda, anche qui brevemente, che l’appellante ha dedotto error in procedendo ed in iudicando della sentenza, ritenendo che la condanna sia stata decisa sulla base di presunzioni semplici, in violazione del principio del giusto procedimento, nonché prescindendo dalla statuizione penale di assoluzione piena e riqualificando l’elemento psicologico in termini di colpa grave così violando l’attinenza alla domanda attorea, che presupponeva il dolo.

Inoltre, si contesta la mancata applicazione dell’esimente derivante dal c.d. “caos amministrativo”, nonché dell’errore scusabile.

6.1.     Orbene, risulta che il sig. * – che era peraltro l’unico, dei tre convenuti in primo grado, addetto alla trattazione delle pratiche di società estere – ha collaborato con il sig. Anzimani all’apertura del rogito notarile di compravendita ma sopra tutto ha effettuato, il 12.7.2002, il trasferimento del domicilio fiscale della soc. * e del suo rappresentante fiscale in Italia (appunto, l’irrintracciabile sig. *), da Ladispoli a Roma, via Valentino Mazzola 21, domicilio rivelatosi poi inesistente. Sempre l’interessato ha effettuato, otto mesi dopo, il giorno 11.2.2003, la pratica di cessazione di attività della medesima società.

In particolare, risulta che il dipendente abbia accettato un mandato di rappresentanza privo sia delle cc.dd. “apostille” notarili che della firma del rappresentante in Italia della soc. *. Inoltre, come ha giustamente rilevato il primo Giudice, è stata consentita la variazione del domicilio fiscale della società da un indirizzo (via Anzio 23, Ladispoli) che non era l’ultimo domicilio (Lungotevere Flaminio n. 34 Roma) della società collegata al rappresentante legale.

E comunque, a tutto voler concedere, le stesse deduzioni dell’interessato - laddove egli afferma di non avere personalmente compiuto quelle operazioni e che, semmai, queste ultime sono state effettuate da altro soggetto che ebbe ad approfittarsi del suo momentaneo allontanamento dalla postazione – rappresentano invece, ad avviso di questo Collegio, la migliore conferma dell’inescusabile negligenza dell’appellante: abbandonare la postazione informatica di un ufficio di tale delicatezza senza disattivare il collegamento o avere cura di proteggerlo da intrusioni tramite password, è un autentico “invito a nozze” per malintenzionati che volessero introdursi nel sistema per commettere illeciti; illeciti che, quindi, non potrebbero che evocare, in tal caso, la diretta e totale responsabilità del titolare della postazione medesima.

6.2.     A fronte di tali gravissime manchevolezze, le difese dell’interessato non hanno fondamento alcuno.

6.2.1.  In primo luogo, deve essere decisamente negata la rilevanza, nel caso presente, della pronunzia di assoluzione penale intervenuta a favore del sig. *.

Dispone come noto l’art. 652, comma 1, c.p.p., che “la sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso dal danneggiato o nell'interesse dello stesso (...)”.

La corretta interpretazione della norma non autorizza – a differenza di quanto, evidentemente, opinato dall’appellante - alcun automatismo tra formula assolutoria adottata dal Giudice penale ed efficacia di giudicato extrapenale, la cui valutazione va condotta caso per caso, tenendo cioè conto dell’effettivo accertamento contenuto nella sentenza di assoluzione, come già osservato da questo Giudice in numerose pronunce: cfr. in proposito, ex plurimis, Sezione I app., sentenza 12.11.2001, n. 318; Sezione giurisdizionale Sicilia, 20.5.2008, n. 1374; Sezione giurisdizionale Lazio, 13.1.2004, n. 52; Sezione giurisdizionale Lombardia, 10.4.2001, n. 597.

In altre parole, le formule assolutorie “perchè il fatto non sussiste” o “perché l’imputato non lo ha commesso”, posto che vengano utilizzate propriamente, potrebbero non essere indicative dell’accerta-mento della insussistenza del fatto materiale dedotto nel (diverso) giudizio di responsabilità amministrativa.

Ciò è quanto è avvenuto nel caso di specie. Risulta infatti chiaramente, dalla sentenza penale assolutoria n. 4023/2013, che eventuali responsabilità del sig. *, a diverso titolo, non siano state affatto escluse; più semplicemente, il predetto Giudice penale ha escluso che fosse stata accertata la volontaria e consapevole collaborazione dell’imputato nella redazione degli atti falsi; allo stesso modo, la pronunzia penale sostiene non essere stata raggiunta una prova sufficiente della volontaria commissione, da parte del sig. *, delle operazioni a lui ascritte: ciò in quanto, spiega la sentenza, in quell’ufficio “… il modus operandi … era improntato ad una certa leggerezza e fiducia nei colleghi, essendo prassi abituale, almeno all’epoca, quella di consentire l’intervento successivo di più dipendenti sulla medesima procedura, che veniva lasciata “aperta” e lavorabile anche da mani successive rispetto a chi – nell’avviare il sistema inserendo le proprie credenziali – ne risultava formale autore”.

Insomma, proprio ciò cui si accennava innanzi: se il comportamento del sig. * non è stato ritenuto penalmente rilevante (o comunque dolosamente posto in essere), non di meno esso, nell’ottica della delibazione che compete a questo Giudice contabile in ordine ad eventuali illiceità foriere di danno erariale, non può non essere giudicato di una gravità estrema, secondo quanto innanzi precisato.

6.2.2.  Circa poi la presunta illegittima modifica operata dal Giudice di I grado della domanda e del grado della responsabilità (da dolo a colpa grave), si è trattato non certo di una mutatio libelli, ma (semmai) di una mera, e consentita, emendatio libelli. E’ infatti pienamente possibile, per questo Giudice (come per ciascun altro Giudice), riqualificare la causa petendi in conseguenza dell'acquisizione dei contributi assunti dalle parti in causa, come del resto esattamente opposto dal PM nelle sue conclusioni: cfr., ex plurimis, Corte dei conti, Sezione I app., 26.3.2003, n. 109; Sezione II, 12.5.1999, 142; Sezione giurisdizionale Campania, 13.4.2005, n. 290 (“Deve ritenersi ammissibile, in sede dibattimentale, la modifica del titolo della responsabilità da dolo in colpa grave, trattandosi di semplice precisazione della domanda risarcitoria (emendatio libelli)”).

6.2.3.  Né, in tale situazione, alcun rilievo potrebbe riconoscersi al presunto “caos amministrativo” dedotto dal ricorrente, e per la verità tutto da dimostrare. Resta comunque il fatto, non seriamente contestabile, che l’illecito consumatosi nell’occasione a carico del pubblico Erario è stato causato da specifiche e ben individuate negligenze (gravissime, si ripete) del sig. * e dei suoi colleghi * e *, sulle quali nessuna influenza hanno avuto la disorganizzazione o l’inefficienza della struttura.

Da ultimo, anche qui non si ritiene di aderire alla richiesta subordinata di ridefinizione del quantum dell’addebito posto a carico dell’appellante, il cui contributo causale (a nulla rilevando in proposito, come innanzi chiarito, l’assoluzione in sede penale) non sembra sia stato inferiore a quello dell’altro condannato sig. *, secondo quanto già sopra esposto.

7.         In conclusione, gli appelli odierni vanno rigettati, per tutte le ragioni e motivazioni sopra espresse, con conseguente, integrale conferma della pronunzia di primo grado.

Gli appellanti vanno inoltre condannati, in solido e in parti uguali, alla r

 

Ultime Notizie

Pubblico Impiego e Responsabilità Amministrativa - Friday 12 April 2024 10:23:54

COMPARTO FUNZIONI CENTRALI - Quesito su conteggio dei giorni retribuiti di congedo parentale spettanti a entrambi i genitori

ARAN Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni

Pubblico Impiego e Responsabilità Amministrativa - Friday 12 April 2024 10:21:12

AREA FUNZIONI LOCALI - Quesito su modalità di fruizione del congedo matrimoniale

ARAN Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni

Uso del Territorio: Urbanistica, Ambiente e Paesaggio - Monday 25 March 2024 09:47:19

Esposizione ai campi elettromagnetici: divieto di collocare antenne su ospedali, case di cure ecc..

In linea di diritto, come ancora di recente ribadito dalla sezione, la legge n. 36 del 22 febbraio 2001 («Legge quadro sulla protezione dalle...

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 6.2.2024, n. 1200

Uso del Territorio: Urbanistica, Ambiente e Paesaggio - Monday 25 March 2024 09:23:59

Reti di comunicazione elettronica: illegittimo il regolamento comunale che subordinare il rilascio dell’autorizzazione al preventivo deposito di una cauzione

Il Consiglio di Stato con la sentenza in trattazione ha affermato che “Le doglianze dell’appellante sono già state valutate posi...

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 16.2.2024, n. 1574

Uso del Territorio: Urbanistica, Ambiente e Paesaggio - Monday 25 March 2024 09:10:58

Impianti di telefonia mobile: per l’installazione la situazione di fatto può far superare il vincolo paesaggistico

“l’esistenza di un vincolo paesaggistico non è sufficiente di per sé a determinare l’incompatibilità di qual...

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 21.3.2024, n. 2747

Pubblico Impiego e Responsabilità Amministrativa - Friday 01 March 2024 12:08:35

AREA FUNZIONI LOCALI - Quesito su modalità di fruizione del periodo di congedo matrimoniale

ARAN Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni

Pubblico Impiego e Responsabilità Amministrativa - Friday 01 March 2024 12:07:30

COMPARTO ISTUZIONE E RICERCA - Quesito su diritto alle ferie e modalità di fruizione delle stesse

ARAN Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni

Pubblico Impiego e Responsabilità Amministrativa - Monday 12 February 2024 09:52:49

COMPARTO ISTRUZIONE E RICERCA- Quesito su fruizione ferie e assenze per malattia

ARAN Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni

Pubblico Impiego e Responsabilità Amministrativa - Monday 12 February 2024 09:51:39

COMPARTO SANITA’ 2019-2021 - Quesito su prestazioni di lavoro straordinario in caso di adesione alla “banca delle ore”. Modalità di fruizione del riposo compensativo e/o pagamento delle ore accantonate.

ARAN Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni

Pubblico Impiego e Responsabilità Amministrativa - Monday 12 February 2024 09:50:24

AREA FUNZIONI LOCALI - Quesito su possibili cause di sospensione delle ferie

ARAN Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni

Copyright © 2016 Gazzetta Amministrativa | All Rights Reserved | Privacy - Note Legali
Via Giovanni Nicotera, 29 - 00195 - Roma - Contatti
Partita Iva: 14140491003 - Codice Fiscale: 97910230586
Top