Sunday 15 May 2016 08:28:06

Giurisprudenza  Contratti, Servizi Pubblici e Concorrenza

Informativa antimafia: excursus della normativa e casi pratici nella sentenza del Consiglio di Stato

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 9.5.2016 n. 1846

L’informativa antimafia, ai sensi degli art. 84, comma 4, e 91, comma 6, del d. lgs. 159/2011, presuppone «concreti elementi da cui risulti che l’attività d’impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata». Per quanto riguarda la ratio dell’istituto della interdittiva antimafia, va premesso che si tratta di una misura volta – ad un tempo - alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della pubblica Amministrazione: nella sostanza, l’interdittiva antimafia comporta che il Prefetto escluda che un imprenditore – pur dotato di adeguati mezzi economici e di una adeguata organizzazione – meriti la fiducia delle Istituzioni (vale a dire che risulti «affidabile») e possa essere titolare di rapporti contrattuali con le pubbliche Amministrazioni o degli altri titoli abilitativi, individuati dalla legge. Il Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione di cui al d. lgs. n. 159 del 2011 – come già avevano disposto l’art. 4 del d.lg. 8 agosto 1994, n. 490, e il d.P.R. 3 giugno 1998, n. 252 – ha tipizzato un istituto mediante il quale, con un provvedimento costitutivo, si constata una obiettiva ragione di insussistenza della perdurante «fiducia sulla affidabilità e sulla moralità dell’imprenditore», che deve costantemente esservi nei rapporti contrattuali di cui sia parte una amministrazione (e di per sé rilevante per ogni contratto d’appalto, ai sensi dell’art. 1674 c.c.) ovvero comunque deve sussistere, affinché l’imprenditore risulti meritevole di conseguire un titolo abilitativo, ovvero di conservarne gli effetti. Nell’attribuire il relativo potere ad un organo periferico del Ministero dell’Interno e nel prevedere il dovere di tutte le altre Amministrazioni di emanare i relativi atti consequenziali, il legislatore ha tenuto conto sia delle competenze generali delle Prefetture in ordine alla gestione dell’ordine pubblico ed al coordinamento delle Forze dell’ordine, sia dell’esigenza che non sia ciascuna singola Amministrazione – di per sé non avente i necessari mezzi ed esperienze – a porre in essere le relative complesse attività istruttorie e ad emanare singoli provvedimenti ad hoc sulla perdurante sussistenza o meno del «rapporto di fiducia». Un singolo provvedimento ad hoc – avente per oggetto un solo «rapporto» – rischierebbe, infatti, anche di porsi in contrasto con provvedimenti di altre Amministrazioni che intrattengano rapporti con il medesimo imprenditore. Osserva il Collegio che – sia in sede amministrativa che in sede giurisdizionale – rileva il complesso degli elementi concreti emersi nel corso del procedimento: una visione ‘parcellizzata’ di un singolo elemento, o di più elementi, non può che far perdere a ciascuno di essi la sua rilevanza nel suo legame sistematico con gli altri. Quanto alla motivazione della informativa, essa: a) deve «scendere nel concreto», e cioè indicare gli elementi di fatto posti a base delle relative valutazioni; b) deve indicare le ragioni in base alle quali gli elementi emersi nel corso del procedimento siano tali da indurre a concludere in ordine alla sussistenza dei relativi presupposti e, dunque, in ordine alla «perdita di fiducia», nel senso sopra chiarito dell’affidabilità, che le Istituzioni nutrono nei confronti dell’imprenditore. Qualora i fatti valutati risultino chiari ed evidenti o quanto meno altamente plausibili (ad es. perché risultanti da articolati provvedimenti dell’Autorità giudiziaria o da relazioni ben fatte nel corso del procedimento), il provvedimento prefettizio – che in tali casi assume quasi un carattere vincolato, nell’ottica del legislatore – si può anche limitare a rimarcare la loro sussistenza, provvedendo di conseguenza. Ove invece i fatti emersi nel corso del procedimento risultino in qualche modo marcatamente opinabili, e si debbano effettuare collegamenti e valutazioni, il provvedimento prefettizio deve motivatamente specificare quali elementi ritenga rilevanti e come essi si leghino tra loro. In altri termini, se gli atti richiamati nel provvedimento prefettizio – emessi da organi giudiziari o amministrativi – già contengono specifiche valutazioni degli elementi emersi, il provvedimento prefettizio si può intendere sufficientemente motivato per relationem, anche se fa ad essi riferimento. Viceversa, se gli atti richiamati contengono una sommatoria di elementi eterogenei non ancora unitariamente considerati (ad es., perché si sono susseguite relazioni delle Forze dell’ordine indicanti meri dati di fatto), spetta al provvedimento prefettizio valutare tali elementi eterogenei. In materia, non rilevano formalismi linguistici, non occorrendo l’utilizzo di una terminologia tecnico-giuridica nelle relazioni redatte dalle Forze dell’ordine, chiamate al delicato compito di controllo del territorio. È condizione necessaria e sufficiente, invece, l’effettiva sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e basta una ragionevole valutazione – pur priva di formule sacramentali – del contenuto obiettivo delle risultanze acquisite, che può anche evidenziare, se del caso, la condivisione delle conclusioni già in precedenza esplicitate nel corso del procedimento. Quand’anche il provvedimento prefettizio contenga una motivazione poco curata e scarna (che, cioè, si sia limitata ad elencare o a richiamare le risultanze procedimentali, senza alcuna rielaborazione concettuale), profili di eccesso di potere possono risultare effettivamente sussistenti solo se, a loro volta, anche gli atti del procedimento non siano congruenti e siano carenti di effettivi contenuti, frettolosi o immotivati e, sostanzialmente, non sindacabili nemmeno nel loro valore indiziario. Profili di inadeguatezza della valutazione vanno esclusi se – mediante una tale motivazione per relationem – negli atti risultino richiamate, in altri termini, le effettive ragioni sostanziali poste a base del provvedimento prefettizio. Al contrario, se gli atti del procedimento risultino poco perspicui o, addirittura, imperscrutabili (e, cioè, consistano in un mero elenco di elementi eterogenei e non evidenzino una ragionata valutazione del loro significato indiziario), il provvedimento prefettizio deve desumere dagli atti istruttori quegli elementi che giustifichino la misura adottata. In ogni caso, l’impianto motivazionale dell’informativa (ex se o col richiamo agli atti istruttori) deve fondarsi su una rappresentazione complessiva, imputabile all’autorità prefettizia, degli elementi di permeabilità criminale che possano influire anche indirettamente sull’attività dell’impresa, la quale si viene a trovare in una condizione di potenziale asservimento – o comunque di condizionamento - rispetto alle iniziative della criminalità organizzata di stampo mafioso (ovvero «comunque localmente denominata»). Il quadro indiziario dell’infiltrazione mafiosa posto a base dell’informativa deve dar conto in modo organico e coerente, ancorché sintetico, di quei fatti aventi le caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, dai quali, sulla base della regola causale del «più probabile che non» (Cons. St., sez. III, 7 ottobre 2015, n. 4657; Cass. civ., sez. III, 18 luglio 2011, n. 15709), il giudice amministrativo, chiamato a verificare l’effettivo pericolo di infiltrazione mafiosa, possa pervenire in via presuntiva alla conclusione ragionevole che tale rischio sussista, valutatene e contestualizzatene tutte le circostanze di tempo, di luogo e di persona. È estranea al sistema delle informative antimafia, non trattandosi di provvedimenti nemmeno latamente sanzionatori, qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (né – tanto meno – occorre l’accertamento di responsabilità penali, quali il «concorso esterno» o la commissione di reati aggravati ai sensi dell’art. 7 della legge n. 203 del 1991), poiché simile logica vanificherebbe la finalità anticipatoria dell’informativa, che è quella di prevenire un grave pericolo e non già quella di punire, nemmeno in modo indiretto, una condotta penalmente rilevante. Occorre invece valutare il rischio di inquinamento mafioso in base all’ormai consolidato criterio del più «probabile che non», alla luce di una regola di giudizio, cioè, che ben può essere integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, qual è, anzitutto, anche quello mafioso. Per questo gli elementi posti a base dell’informativa possono essere anche non penalmente rilevanti o non costituire oggetto di procedimenti o di processi penali o, addirittura e per converso, possono essere già stati oggetto del giudizio penale, con esito di proscioglimento o di assoluzione. I fatti che l’autorità prefettizia deve valorizzare prescindono, infatti, dall’atteggiamento antigiuridico della volontà mostrato dai singoli e finanche da condotte penalmente rilevanti, non necessarie per la sua emissione, come meglio si dirà, ma sono rilevanti nel loro valore oggettivo, storico, sintomatico, perché rivelatori del condizionamento che la mafia, in molteplici, cangianti e sempre nuovi modi, può esercitare sull’impresa anche al di là e persino contro la volontà del singolo. Anche soggetti semplicemente conniventi con la mafia (dovendosi intendere con tale termine ogni similare organizzazione criminale «comunque localmente denominata»), per quanto non concorrenti, nemmeno esterni, con siffatta forma di criminalità, e persino imprenditori soggiogati dalla sua forza intimidatoria e vittime di estorsioni sono passibili di informativa antimafia. Infatti, la mafia, per condurre le sue lucrose attività economiche nel mondo delle pubbliche commesse, non si vale solo di soggetti organici o affiliati ad essa, ma anche e sempre più spesso di soggetti compiacenti, cooperanti, collaboranti, nelle più varie forme e qualifiche societarie, sia attivamente, per interesse, economico, politico o amministrativo, che passivamente, per omertà o, non ultimo, per il timore della sopravvivenza propria e della propria impresa. Le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa, tipizzate dal legislatore, comprendono dunque una serie di elementi del più vario genere e, spesso, anche di segno opposto, frutto e cristallizzazione normativa di una lunga e vasta esperienza in questa materia, situazioni che spaziano dalla condanna, anche non definitiva, per taluni delitti da considerare sicuri indicatori della presenzao mafiosa (art. 84, comma 4, lett. a), del d. lgs. n. 159 del 2011), alla mancata denuncia di delitti di concussione e di estorsione, da parte dell’imprenditore, dalle condanne per reati strumentali alle organizzazioni criminali (art. 91, comma 6, del d. lgs. n. 159 del 2011), alla sussistenza di vicende organizzative, gestionali o anche solo operative che, per le loro modalità, evidenzino l’intento elusivo della legislazione antimafia. Esistono poi, come insegna l’esperienza applicativa della legislazione in materia e la vasta giurisprudenza formatasi sul punto nel corso di oltre venti anni, numerose altre situazioni, non tipizzate dal legislatore, che sono altrettante ‘spie’ dell’infiltrazione (nella duplice forma del condizionamento o del favoreggiamento dell’impresa). Gli elementi di inquinamento mafioso, ben lungi dal costituire un numerus clausus, assumono forme e caratteristiche diverse secondo i tempi, i luoghi e le persone e sfuggono, per l’insidiosa pervasività e mutevolezza, anzitutto sul piano sociale, del fenomeno mafioso, ad un preciso inquadramento. Quello voluto dal legislatore, ben consapevole di questo, è dunque un catalogo aperto di situazioni sintomatiche del condizionamento mafioso. L’autorità prefettizia deve valutare perciò il rischio che l’attività di impresa possa essere oggetto di infiltrazione mafiosa, in modo concreto ed attuale, sulla base dei seguenti elementi: a) i provvedimenti ‘sfavorevoli’ del giudice penale; b) le sentenze di proscioglimento o di assoluzione; c) la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d. lgs. n. 159 del 2011; d) i rapporti di parentela; e) i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia; f) le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa; g) le vicende anomale nella concreta gestione dell’impresa; h) la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi ‘benefici’; i) l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità. Passando ad un più dettagliato esame di tali elementi, osserva il Collegio che innanzitutto rilevano i provvedimenti del giudice penale che dispongano una misura cautelare o il giudizio o che rechino una condanna, anche non definitiva, di titolari, soci, amministratori, di fatto e di diritto, direttori generali dell’impresa, per uno dei delitti-spia previsti dall’art. 84, comma 4, lett. a), del d. lgs. n. 159 del 2011. Tra questi delitti (rilevanti pur se ‘risalenti nel tempo’), un particolare rilievo hanno quelli di turbata libertà degli incanti (art. 353 c.p.), turbata libertà di scelta del contraente (art. 353-bis c.p.), estorsione (art. 629 c.p.), truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bisc.p.), usura (art. 644 c.p.), riciclaggio (art. 648-bis c.p.) o impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (art. 648-ter c.p.), e quelli indicati dall’art. 51, comma 3-bis, c.p.p., cioè, tra gli altri, i delitti di associazione semplice (art. 416 c.p.) o di associazione di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.) o tutti i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p. o per agevolare le attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché l’art. 12-quinquies del d.l. n. 306 del 1992, convertito con modificazioni dalla l. n. 356 del 1992. Rilevano anche tutti i provvedimenti di condanna anche non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali, di cui all’art. 91, comma 6, del d. lgs. n. 159 del 2011. Le sentenze di proscioglimento o di assoluzione hanno una specifica rilevanza, ove dalla loro motivazione si desuma che titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa, pur essendo andati esenti da condanna, abbiano comunque subìto, ancorché incolpevolmente, un condizionamento mafioso che pregiudichi le libere logiche imprenditoriali. Può rilevare, più in generale, qualsivoglia provvedimento del giudice civile, penale, amministrativo, contabile o tributario, quale che sia il suo contenuto decisorio, dalla cui motivazione emergano elementi di condizionamento, in qualsiasi forma, delle associazioni malavitose sull’attività dell’impresa o, per converso, l’agevolazione, l’aiuto, il supporto, anche solo logistico, che questa abbia fornito, pur indirettamente, agli interessi e agli affari di tali associazioni. Rileva anche la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d. lgs. n. 159 del 2011, siano esse di natura personale o patrimoniale, nei confronti di titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e dei loro parenti, proprio in coerenza con la logica preventiva e anticipatoria che sta a fondamento delle misure in esame. Quanto ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose, l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità, o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del «più probabile che non», che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare(di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto col proprio congiunto. Ai rapporti di parentela l’Autorità amministrativa, in presenza di altri elementi univoci e sintomatici, può anche assimilare quei «rapporti di comparaggio», derivanti da consuetudini di vita. Infatti, specialmente nei contesti sociali in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una «influenza reciproca» di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza. Una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto che non sia attinto da pregiudizio mafioso può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione. Sotto tale profilo, hanno rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e rilevano le peculiari realtà locali, ben potendo l’Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l’esistenza – su un’area più o meno estesa – del controllo di una ‘famiglia’ e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti (a fortiori se questi non risultino avere proprie fonti legittime di reddito). In materia, possono risultare utili anche i principi formulati da questo Consiglio, in materia di revoca delle licenze di polizia, quando abbiano ad oggetto armi e munizioni, e cioè in una materia in cui similmente si pongono – sia pure sotto distinti profili – aspetti di protezione dell’ordine pubblico. Infatti, l’Autorità di polizia può ragionevolmente disporre la revoca quando il titolare della licenza sia un congiunto di un appartenente alla criminalità organizzata e sia con questi convivente: si può senz’altro ritenere sussistente un pericolo di abuso, quando un’arma sia custodita nella stessa abitazione di un appartenente alla criminalità organizzata, non solo perché è concretamente ipotizzabile che vi sia la possibilità di utilizzare l’arma senza il consenso del titolare della licenza, ma anche perché il legame familiare e la convivenza comportano reciproci condizionamenti. Similmente, il provvedimento del Prefetto può ritenere sussistente il pericolo di condizionamento mafioso, quando l’imprenditore conviva con un congiunto, risultato appartenente ad un sodalizio criminoso. Circa i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia, di titolari, soci, amministratori, dipendenti dell’impresa con soggetti raggiunti da provvedimenti di carattere penale o da misure di prevenzione antimafia, l’Amministrazione può ragionevolmente attribuire loro rilevanza quando essi non siano frutto di casualità o, per converso, di necessità. Se di per sé è irrilevante un episodio isolato ovvero giustificabile, sono invece altamente significativi i ripetuti contatti o le ‘frequentazioni’ di soggetti coinvolti in sodalizi criminali, di coloro che risultino avere precedenti penali o che comunque siano stati presi in considerazione da misure di prevenzione. Tali contatti o frequentazioni (anche per le modalità, i luoghi e gli orari in cui avvengono) possono far presumere, secondo la logica del «più probabile che non», che l’imprenditore – direttamente o anche tramite un proprio intermediario - scelga consapevolmente di porsi in dialogo e in contatto con ambienti mafiosi. Quand’anche ciò non risulti punibile (salva l’adozione delle misure di prevenzione), la consapevolezza dell’imprenditore di frequentare soggetti mafiosi e di porsi su una pericolosa linea di confine tra legalità e illegalità (che lo Stato deve invece demarcare e difendere ad ogni costo) deve comportare la reazione dello Stato proprio con l’esclusione dell’imprenditore medesimo dal conseguimento di appalti pubblici e comunque degli altri provvedimenti abilitativi individuati dalla legge. In altri termini, l’imprenditore che – mediante incontri, telefonate o altri mezzi di comunicazione, contatti diretti o indiretti – abbia tali rapporti (e che si espone al rischio di esserne influenzato per quanto riguarda le proprie attività patrimoniali e scelte imprenditoriali) deve essere consapevole della inevitabile perdita di ‘fiducia’ che ne consegue (perdita che il provvedimento prefettizio attesta, mediante l’informativa). Rilevano altresì le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa, sia essa in forma individuale o collettiva, nonché l’abuso della personalità giuridica. Tali vicende e tale abuso non sono altrimenti spiegabili, secondo la logica del «più probabile che non», se non con la permeabilità mafiosa dell’impresa e il malcelato intento di dissimularla, come, ad esempio, nei casi previsti dall’art. 84, comma 4, lett. f), del d. lgs. n. 159 del 2011 e, cioè, le sostituzioni negli organi sociali, nella rappresentanza legale della società, nonché nella titolarità delle imprese individuali ovvero delle quote societarie, effettuate da chiunque conviva con soggetti destinatati di provvedimenti di cui alle lettere a) e b) dello stesso art. 84, comma 4, del d. lgs. n. 159 del 2011, realizzate con modalità che, per i tempi in cui vengono realizzati, il valore economico delle transazioni, il reddito dei soggetti e le qualità dei subentranti, «denotino l’intento di eludere la normativa sulla documentazione antimafia». Rilevano, più in generale, tutte quelle operazioni fraudolente, modificative o manipolative della struttura dell’impresa, che essa esercitata in forma individuale o societaria: - scissioni, fusioni, affitti di azienda o anche solo di ramo di azienda, acquisti di pacchetti azionari o di quote societarie da parte di soggetti, italiani o esteri, al di sopra di ogni sospetto, spostamenti di sede, legale od operativa, in zone apparentemente ‘franche’ dall’influsso mafioso; - aumenti di capitale sociale finalizzati a garantire il controllo della società sempre da parte degli stessi soggetti, patti parasociali, rimozione o dimissioni di sindaci o controllori sgraditi; - walzer di cariche sociali tra i medesimi soggetti, partecipazioni in altre società colpite da interdittiva antimafia, gestione di diverse società, operanti in settori diversi, ma tutte riconducibili alla medesima governance e spostamenti degli stessi soggetti dalle cariche sociali dell’una o dell’altra, etc. Tali operazioni vanno considerate fraudolente, quando sono eseguite al malcelato fine di nascondere o confondere il reale assetto gestionale e con un abuso delle forme societarie, dietro il cui schermo si vuol celare la realtà effettiva dell’influenza mafiosa, diretta o indiretta, ma pur sempre dominante. Rilevano inoltre le vicende anomale nella concreta gestione dell’impresa, riscontrate dal Prefetto anche mediante i poteri di accesso e di accertamento di cui alle lettere d) ed e) dell’art. 84, comma 4, del d. lgs. n. 159 del 2011, consistenti in fatti che lasciano intravedere, nelle scelte aziendali, nelle dinamiche realizzative delle strategie imprenditoriali, nella stessa fase operativa e nella quotidiana attività di impresa, evidenti segni di influenza mafiosa. Tale casistica è assai varia ed è ben nota alla giurisprudenza di questo Consiglio, potendo avere rilievo, a solo titolo esemplificativo: - le cc.dd. teste di legno poste nelle cariche sociali, le sedi legali con uffici deserti e le sedi operative ubicate presso luoghi dove invece hanno sede uffici di altre imprese colpite da antimafia; - l’inspiegabile presenza sul cantiere di soggetti affiliati alle associazioni mafiose; - il nolo di mezzi esclusivamente da parte di imprese locali gestite dalla mafia; - il subappalto o la tacita esecuzione diretta delle opere da parte di altre imprese, gregarie della mafia o colpite da interdittiva antimafia; - i rapporti commerciali intrattenuti solo con determinate imprese gestite o ‘raccomandate’ dalla mafia; - le irregolarità o le manomissioni contabili determinate dalla necessità di camuffare l’intervento e il tornaconto della mafia nella effettiva esecuzione dell’appalto; - gli stati di avanzamento di lavori ‘gonfiati’ o totalmente mendaci; - l’utilizzo dei beni aziendali a titolo personale, senza alcuna ragione, da parte di soggetti malavitosi; - la promiscuità di forze umane e di mezzi con imprese gestite dai medesimi soggetti riconducibili alla criminalità e già colpite, a loro volta, da interdittiva antimafia; - l’assunzione esclusiva o prevalente, da parte di imprese medio-piccole, di personale avente precedenti penali gravi o comunque contiguo ad associazioni criminali; - i rapporti tra impresa e politici locali collusi con la mafia o addirittura incandidabili, etc. Quanto alla condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi ‘benefici’, la perdita di ‘fiducia’ – giustificativa della interdittiva – si può legittimamente basare anche sulla manifestata disponibilità dell’imprenditore di far parte di un sistema di gestione di un settore, caratterizzato da illegalità, con ‘scambi di favori’ (riferibili, ad es., ad una volontaria mancata partecipazione ad una gara, ‘in cambio’ di successivi vantaggi). Può avere un rilievo decisivo – per escludere la fiducia necessaria perché vi siano i contatti con la pubblica Amministrazione – anche l’inserimento dell’imprenditore in un contesto di illegalità o di abusivismo, reiterato e costante o anche solo episodico, ma particolarmente allarmante, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità, sintomatiche di una sostanziale impunità. In tali casi, il Prefetto può senz’altro desumere ulteriori argomenti per ritenere che l’imprenditore possa contare in loco su ‘coperture’ e connivenze, anche presso gli uffici pubblici, valendosi del clima tipico di una realtà pervasa e soggiogata dall’influenza mafiosa. Può essere sufficiente a giustificare l’emissione dell’informativa anche uno dei sopra indicati elementi indiziari: la valutazione del provvedimento prefettizio si può ragionevolmente basare anche su un solo indizio, che comporti una presunzione, qualora essa sia ritenuta di tale precisione e gravità da rendere inattendibili gli elementi di giudizio ad essa contrari. Ciò in quanto, come afferma la consolidata giurisprudenza, il ragionamento indiziario può fondarsi anche su un unico elemento presuntivo, purché non contrastato da altro ragionamento presuntivo di segno contrario, con la conseguenza che il requisito della concordanza, previsto dall’art. 2729 c.c., perde il carattere di requisito necessario e finisce per essere elemento eventuale della valutazione presuntiva, destinato ad operare solo laddove ricorra una pluralità di presunzioni (v., ex plurimis, Cass., sez. I, 26.3.2003, n. 4472). Circa la motivazione, come sopra si è osservato in termini generali, per ciascuno o anche uno solo di essi il Prefetto dovrà indicare con precisione, nell’informativa, gli elementi di fatto e motivare, anche mediante il rinvio, per relationem, alle relazioni eseguite dalle Forze di Polizia, le ragioni che lo inducono a ritenere probabile che da uno o più di tali elementi, per la loro attualità, univocità e gravità, sia ragionevole desumere il pericolo concreto di infiltrazione mafiosa nell’impresa: se la valutazione unitaria non traspare dagli atti del procedimento, occorre che essa sia effettuata dal Prefetto, con una motivazione che può anche non essere analitica e diffusa, ma che richiede un calibrato giudizio sintetico su uno o anche più di detti elementi presuntivi, sopra indicati. La valutazione della prova presuntiva, giova qui ricordare, esige che dapprima il Prefetto in sede amministrativa (come poi il giudice amministrativo nell’esercizio dei suoi poteri quale giudice di legittimità) esamini tutti gli indizi di cui disponga, non già considerandoli isolatamente, ma valutandoli complessivamente ed alla luce l’uno dell’altro, senza negare valore ad uno o più di essi sol perché equivoci, così da stabilire se sia comunque possibile ritenere accettabilmente probabile l’esistenza del fatto da provare. Passando all’esame del caso qui controverso, facendo specifica applicazione dei principi sopra enunciati, si deve rimarcare innanzitutto come – per quanto riguarda i «rapporti familiari» di cui al precedente punto d) – la giurisprudenza di questo Consiglio abbia già più volte chiarito che i legami di parentela costituiscono un indice importante per valutare la sussistenza di condizionamenti mafiosi, quando siano connotati da attivi comportamenti di solidarietà e di cointeressenza (Cons. St., sez. III, 19 ottobre 2015, n. 4792).

 

Testo del Provvedimento (Apri il link)

 

N. 01846/2016REG.PROV.COLL.

N. 01547/2016 REG.RIC.

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

ai sensi degli artt. 38 e 60 c.p.a.
sul ricorso numero di registro generale 1547 del 2016, proposto dal Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore, U.T.G. – Prefettura di Caserta, in persona del Prefetto pro tempore, rappresentati e difesi ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici sono domiciliati in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

contro

La signora Nic. Sant., in proprio e nella qualità di amministratrice unica della s.r.l. «Il Buongustaio», parti appellate entrambe non costituite;

nei confronti di

La s.r.l. Tara, appellata non costituita;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. per la Campania, Sede di Napoli, Sez. I, n. 5310/2015, resa tra le parti, concernente la revoca dell’affidamento in economia del servizio di gestione mensa per il personale delle Forze di Polizia, a seguito di informativa antimafia;

 

 

visti il ricorso e i relativi allegati;

viste le memorie difensive;

visti tutti gli atti della causa;

relatore nella camera di consiglio del giorno 31 marzo 2016 il Cons. Massimiliano Noccelli e udito per il Ministero appellante l’Avvocato dello Stato Lorenzo D’Ascia;

designati il Presidente e il Relatore come coestensori della sentenza nella sua integralità;

sentito il solo Ministero appellante, comparso, ai sensi dell’art. 60 c.p.a.;

 

 

1. Col ricorso di primo grado n. 511 del 2015, le odierne appellate, Nic. Sant., in proprio, e la s.r.l. «Il *», hanno impugnato avanti al T.A.R. per la Campania la revoca dell’affidamento provvisorio in economia di una fornitura di vitto alla Sottosezione della Polizia Ferrovaria di Villa Literno, già disposto in favore della s.r.l. «Il '», con la conseguente aggiudicazione della gara alla seconda partecipante alla stessa gara Hotel “La *”, gestito dalla s.r.l. *, nonché la presupposta informativa antimafia emessa a carico della stessa società dalla Prefettura di Caserta il 31 marzo 2014.

1.1. Le ricorrenti, sostenendo che l’informativa si sarebbe basata «solo sui legami familiari» del precedente amministratore, Umb. D.San., con il padre Mic. D.San., ritenuto organico ad una associazione criminale di stampo camorristico, hanno chiesto, previa sospensione, l’annullamento degli atti impugnati, con la conseguente aggiudicazione della gara in favore della s.r.l. «Il Buongustaio».

1.2. Nel primo grado di giudizio, si è costituita l’Amministrazione per resistere al ricorso.

1.3. Con l’ordinanza n. 506 dell’11 marzo 2015, il T.A.R. ha sospeso, in via cautelare, l’efficacia dei provvedimenti impugnati.

1.4. L’ordinanza è stata confermata da questo Consiglio, in sede di appello cautelare, con l’ordinanza n. 2430 del 5 giugno 2015.

1.5. Con il successivo provvedimento del 14 luglio 2015, la Prefettura di Caserta ha emesso una seconda informativa antimafia, impugnata con motivi aggiunti dalle ricorrenti, che ne hanno chiesto l’annullamento, con il consequenziale risarcimento dei danni.

1.6. Il T.A.R. per la Campania, con la sentenza n. 5310 del 16 novembre 2015, ha accolto il ricorso ed i motivi aggiunti, ha annullato tutti gli atti impugnati e ha disposto il risarcimento in forma specifica a favore della s.r.l. «Il *» mediante l’affidamento del servizio per il periodo di 12 mesi originariamente previsto, previa declaratoria di inefficacia del contratto stipulato con il controinteressato Hotel “La '”.

2. Avverso tale sentenza ha proposto appello il Ministero dell’Interno, chiedendone, previa sospensione, la riforma.

2.1. Non si sono costituite in giudizio le altre parti (le ricorrenti originarie e la controinteressata s.r.l. Tara).

2.2. Nella camera di consiglio del 31 marzo 2016, il Collegio, ritenuto di poter decidere la controversia anche nel merito con sentenza in forma semplificata, ai sensi dell’art. 60 c.p.a., e sentito l’Avvocato dello Stato, ha trattenuto la causa in decisione.

3. L’appello del Ministero è fondato e va accolto.

3.1. La sentenza impugnata ha annullato l’interdittiva antimafia emessa il 31 marzo 2014, poiché ha considerato insufficiente il solo legame familiare del Um. D.San.s, fino a tempi recenti amministratore della s.r.l. «Il *». (unitamente alla signora Nic. San. alla quale ha ceduto la sua quota), con il padre Mic. D.San., ritenuto soggetto affiliato al clan dei Casalesi.

3.2. Il T.A.R. per la Campania ha ritenuto, poi, che anche la motivazione del secondo provvedimento prefettizio – adottato il 14 luglio 2015 in sede di esecuzione della misura cautelare e impugnato con motivi aggiunti – sarebbe insufficiente, perché, testualmente, «la logica impone di ritenere che, se la presenza di una determinata persona in una società non può giustificare l’interdizione antimafia nei confronti di tale impresa, neppure l’abbandono dell’attività di impresa da parte della stessa persona potrebbe giustificare la reiterazione di un provvedimento interdittivo antimafia» (p. 6 della sentenza del TAR).

4. Ritiene il Collegio che la sentenza impugnata vada riformata, in accoglimento dell’appello proposto dal Ministero dell’Interno, con il conseguente rigetto del ricorso originario e dei motivi aggiunti.

4.1. L’informativa antimafia, ai sensi degli art. 84, comma 4, e 91, comma 6, del d. lgs. 159/2011, presuppone «concreti elementi da cui risulti che l’attività d’impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata».

4.2. Per quanto riguarda la ratio dell’istituto della interdittiva antimafia, va premesso che si tratta di una misura volta – ad un tempo - alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della pubblica Amministrazione: nella sostanza, l’interdittiva antimafia comporta che il Prefetto escluda che un imprenditore – pur dotato di adeguati mezzi economici e di una adeguata organizzazione – meriti la fiducia delle Istituzioni (vale a dire che risulti «affidabile») e possa essere titolare di rapporti contrattuali con le pubbliche Amministrazioni o degli altri titoli abilitativi, individuati dalla legge.

4.3. Il Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione di cui al d. lgs. n. 159 del 2011 – come già avevano disposto l’art. 4 del d.lg. 8 agosto 1994, n. 490, e il d.P.R. 3 giugno 1998, n. 252 – ha tipizzato un istituto mediante il quale, con un provvedimento costitutivo, si constata una obiettiva ragione di insussistenza della perdurante «fiducia sulla affidabilità e sulla moralità dell’imprenditore», che deve costantemente esservi nei rapporti contrattuali di cui sia parte una amministrazione (e di per sé rilevante per ogni contratto d’appalto, ai sensi dell’art. 1674 c.c.) ovvero comunque deve sussistere, affinché l’imprenditore risulti meritevole di conseguire un titolo abilitativo, ovvero di conservarne gli effetti.

4.4. Nell’attribuire il relativo potere ad un organo periferico del Ministero dell’Interno e nel prevedere il dovere di tutte le altre Amministrazioni di emanare i relativi atti consequenziali, il legislatore ha tenuto conto sia delle competenze generali delle Prefetture in ordine alla gestione dell’ordine pubblico ed al coordinamento delle Forze dell’ordine, sia dell’esigenza che non sia ciascuna singola Amministrazione – di per sé non avente i necessari mezzi ed esperienze – a porre in essere le relative complesse attività istruttorie e ad emanare singoli provvedimenti ad hoc sulla perdurante sussistenza o meno del «rapporto di fiducia».

4.4.1. Un singolo provvedimento ad hoc – avente per oggetto un solo «rapporto» – rischierebbe, infatti, anche di porsi in contrasto con provvedimenti di altre Amministrazioni che intrattengano rapporti con il medesimo imprenditore. 

4.5. Osserva il Collegio che – sia in sede amministrativa che in sede giurisdizionale – rileva il complesso degli elementi concreti emersi nel corso del procedimento: una visione ‘parcellizzata’ di un singolo elemento, o di più elementi, non può che far perdere a ciascuno di essi la sua rilevanza nel suo legame sistematico con gli altri.

4.6. Quanto alla motivazione della informativa, essa:

a) deve «scendere nel concreto», e cioè indicare gli elementi di fatto posti a base delle relative valutazioni;

b) deve indicare le ragioni in base alle quali gli elementi emersi nel corso del procedimento siano tali da indurre a concludere in ordine alla sussistenza dei relativi presupposti e, dunque, in ordine alla «perdita di fiducia», nel senso sopra chiarito dell’affidabilità, che le Istituzioni nutrono nei confronti dell’imprenditore.

4.7. Qualora i fatti valutati risultino chiari ed evidenti o quanto meno altamente plausibili (ad es. perché risultanti da articolati provvedimenti dell’Autorità giudiziaria o da relazioni ben fatte nel corso del procedimento), il provvedimento prefettizio – che in tali casi assume quasi un carattere vincolato, nell’ottica del legislatore – si può anche limitare a rimarcare la loro sussistenza, provvedendo di conseguenza.

4.8. Ove invece i fatti emersi nel corso del procedimento risultino in qualche modo marcatamente opinabili, e si debbano effettuare collegamenti e valutazioni, il provvedimento prefettizio deve motivatamente specificare quali elementi ritenga rilevanti e come essi si leghino tra loro.

4.9. In altri termini, se gli atti richiamati nel provvedimento prefettizio – emessi da organi giudiziari o amministrativi – già contengono specifiche valutazioni degli elementi emersi, il provvedimento prefettizio si può intendere sufficientemente motivato per relationem, anche se fa ad essi riferimento.

4.10. Viceversa, se gli atti richiamati contengono una sommatoria di elementi eterogenei non ancora unitariamente considerati (ad es., perché si sono susseguite relazioni delle Forze dell’ordine indicanti meri dati di fatto), spetta al provvedimento prefettizio valutare tali elementi eterogenei.

4.11. In materia, non rilevano formalismi linguistici, non occorrendo l’utilizzo di una terminologia tecnico-giuridica nelle relazioni redatte dalle Forze dell’ordine, chiamate al delicato compito di controllo del territorio.

4.12. È condizione necessaria e sufficiente, invece, l’effettiva sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e basta una ragionevole valutazione – pur priva di formule sacramentali – del contenuto obiettivo delle risultanze acquisite, che può anche evidenziare, se del caso, la condivisione delle conclusioni già in precedenza esplicitate nel corso del procedimento.

4.13. Quand’anche il provvedimento prefettizio contenga una motivazione poco curata e scarna (che, cioè, si sia limitata ad elencare o a richiamare le risultanze procedimentali, senza alcuna rielaborazione concettuale), profili di eccesso di potere possono risultare effettivamente sussistenti solo se, a loro volta, anche gli atti del procedimento non siano congruenti e siano carenti di effettivi contenuti, frettolosi o immotivati e, sostanzialmente, non sindacabili nemmeno nel loro valore indiziario.

4.14. Profili di inadeguatezza della valutazione vanno esclusi se – mediante una tale motivazione per relationem – negli atti risultino richiamate, in altri termini, le effettive ragioni sostanziali poste a base del provvedimento prefettizio.

4.15. Al contrario, se gli atti del procedimento risultino poco perspicui o, addirittura, imperscrutabili (e, cioè, consistano in un mero elenco di elementi eterogenei e non evidenzino una ragionata valutazione del loro significato indiziario), il provvedimento prefettizio deve desumere dagli atti istruttori quegli elementi che giustifichino la misura adottata.

4.16. In ogni caso, l’impianto motivazionale dell’informativa (ex se o col richiamo agli atti istruttori) deve fondarsi su una rappresentazione complessiva, imputabile all’autorità prefettizia, degli elementi di permeabilità criminale che possano influire anche indirettamente sull’attività dell’impresa, la quale si viene a trovare in una condizione di potenziale asservimento – o comunque di condizionamento - rispetto alle iniziative della criminalità organizzata di stampo mafioso (ovvero «comunque localmente denominata»).

5. Il quadro indiziario dell’infiltrazione mafiosa posto a base dell’informativa deve dar conto in modo organico e coerente, ancorché sintetico, di quei fatti aventi le caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, dai quali, sulla base della regola causale del «più probabile che non» (Cons. St., sez. III, 7 ottobre 2015, n. 4657; Cass. civ., sez. III, 18 luglio 2011, n. 15709), il giudice amministrativo, chiamato a verificare l’effettivo pericolo di infiltrazione mafiosa, possa pervenire in via presuntiva alla conclusione ragionevole che tale rischio sussista, valutatene e contestualizzatene tutte le circostanze di tempo, di luogo e di persona.

5.1. È estranea al sistema delle informative antimafia, non trattandosi di provvedimenti nemmeno latamente sanzionatori, qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (né – tanto meno – occorre l’accertamento di responsabilità penali, quali il «concorso esterno» o la commissione di reati aggravati ai sensi dell’art. 7 della legge n. 203 del 1991), poiché simile logica vanificherebbe la finalità anticipatoria dell’informativa, che è quella di prevenire un grave pericolo e non già quella di punire, nemmeno in modo indiretto, una condotta penalmente rilevante.

5.2. Occorre invece valutare il rischio di inquinamento mafioso in base all’ormai consolidato criterio del più «probabile che non», alla luce di una regola di giudizio, cioè, che ben può essere integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, qual è, anzitutto, anche quello mafioso.

5.3. Per questo gli elementi posti a base dell’informativa possono essere anche non penalmente rilevanti o non costituire oggetto di procedimenti o di processi penali o, addirittura e per converso, possono essere già stati oggetto del giudizio penale, con esito di proscioglimento o di assoluzione.

5.4. I fatti che l’autorità prefettizia deve valorizzare prescindono, infatti, dall’atteggiamento antigiuridico della volontà mostrato dai singoli e finanche da condotte penalmente rilevanti, non necessarie per la sua emissione, come meglio si dirà, ma sono rilevanti nel loro valore oggettivo, storico, sintomatico, perché rivelatori del condizionamento che la mafia, in molteplici, cangianti e sempre nuovi modi, può esercitare sull’impresa anche al di là e persino contro la volontà del singolo.

5.5. Anche soggetti semplicemente conniventi con la mafia (dovendosi intendere con tale termine ogni similare organizzazione criminale «comunque localmente denominata»), per quanto non concorrenti, nemmeno esterni, con siffatta forma di criminalità, e persino imprenditori soggiogati dalla sua forza intimidatoria e vittime di estorsioni sono passibili di informativa antimafia.

5.6. Infatti, la mafia, per condurre le sue lucrose attività economiche nel mondo delle pubbliche commesse, non si vale solo di soggetti organici o affiliati ad essa, ma anche e sempre più spesso di soggetti compiacenti, cooperanti, collaboranti, nelle più varie forme e qualifiche societarie, sia attivamente, per interesse, economico, politico o amministrativo, che passivamente, per omertà o, non ultimo, per il timore della sopravvivenza propria e della propria impresa.

5.7. Le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa, tipizzate dal legislatore, comprendono dunque una serie di elementi del più vario genere e, spesso, anche di segno opposto, frutto e cristallizzazione normativa di una lunga e vasta esperienza in questa materia, situazioni che spaziano dalla condanna, anche non definitiva, per taluni delitti da considerare sicuri indicatori della presenza mafiosa (art. 84, comma 4, lett. a), del d. lgs. n. 159 del 2011), alla mancata denuncia di delitti di concussione e di estorsione, da parte dell’imprenditore, dalle condanne per reati strumentali alle organizzazioni criminali (art. 91, comma 6, del d. lgs. n. 159 del 2011), alla sussistenza di vicende organizzative, gestionali o anche solo operative che, per le loro modalità, evidenzino l’intento elusivo della legislazione antimafia.

5.8. Esistono poi, come insegna l’esperienza applicativa della legislazione in materia e la vasta giurisprudenza formatasi sul punto nel corso di oltre venti anni, numerose altre situazioni, non tipizzate dal legislatore, che sono altrettante ‘spie’ dell’infiltrazione (nella duplice forma del condizionamento o del favoreggiamento dell’impresa).

5.9. Gli elementi di inquinamento mafioso, ben lungi dal costituire un numerus clausus, assumono forme e caratteristiche diverse secondo i tempi, i luoghi e le persone e sfuggono, per l’insidiosa pervasività e mutevolezza, anzitutto sul piano sociale, del fenomeno mafioso, ad un preciso inquadramento.

5.10. Quello voluto dal legislatore, ben consapevole di questo, è dunque un catalogo aperto di situazioni sintomatiche del condizionamento mafioso.

6. L’autorità prefettizia deve valutare perciò il rischio che l’attività di impresa possa essere oggetto di infiltrazione mafiosa, in modo concreto ed attuale, sulla base dei seguenti elementi:

a) i provvedimenti ‘sfavorevoli’ del giudice penale;

b) le sentenze di proscioglimento o di assoluzione;

c) la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d. lgs. n. 159 del 2011;

d) i rapporti di parentela;

e) i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia;

f) le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa;

g) le vicende anomale nella concreta gestione dell’impresa;

h) la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi ‘benefici’;

i) l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità.

6.1. Passando ad un più dettagliato esame di tali elementi, osserva il Collegio che innanzitutto rilevano i provvedimenti del giudice penale che dispongano una misura cautelare o il giudizio o che rechino una condanna, anche non definitiva, di titolari, soci, amministratori, di fatto e di diritto, direttori generali dell’impresa, per uno dei delitti-spia previsti dall’art. 84, comma 4, lett. a), del d. lgs. n. 159 del 2011.

6.1.1. Tra questi delitti (rilevanti pur se ‘risalenti nel tempo’), un particolare rilievo hanno quelli di turbata libertà degli incanti (art. 353 c.p.), turbata libertà di scelta del contraente (art. 353-bis c.p.), estorsione (art. 629 c.p.), truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bisc.p.), usura (art. 644 c.p.), riciclaggio (art. 648-bis c.p.) o impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (art. 648-ter c.p.), e quelli indicati dall’art. 51, comma 3-bis, c.p.p., cioè, tra gli altri, i delitti di associazione semplice (art. 416 c.p.) o di associazione di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.) o tutti i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p. o per agevolare le attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché l’art. 12-quinquies del d.l. n. 306 del 1992, convertito con modificazioni dalla l. n. 356 del 1992.

6.1.2. Rilevano anche tutti i provvedimenti di condanna anche non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali, di cui all’art. 91, comma 6, del d. lgs. n. 159 del 2011.

6.2.Le sentenze di proscioglimento o di assoluzione hanno una specifica rilevanza, ove dalla loro motivazione si desuma che titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa, pur essendo andati esenti da condanna, abbiano comunque subìto, ancorché incolpevolmente, un condizionamento mafioso che pregiudichi le libere logiche imprenditoriali.

6.2.1. Può rilevare, più in generale, qualsivoglia provvedimento del giudice civile, penale, amministrativo, contabile o tributario, quale che sia il suo contenuto decisorio, dalla cui motivazione emergano elementi di condizionamento, in qualsiasi forma, delle associazioni malavitose sull’attività dell’impresa o, per converso, l’agevolazione, l’aiuto, il supporto, anche solo logistico, che questa abbia fornito, pur indirettamente, agli interessi e agli affari di tali associazioni.

6.3. Rileva anche la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d. lgs. n. 159 del 2011, siano esse di natura personale o patrimoniale, nei confronti di titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e dei loro parenti, proprio in coerenza con la logica preventiva e anticipatoria che sta a fondamento delle misure in esame.

6.4. Quanto ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose, l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità, o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del «più probabile che non», che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare(di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto col proprio congiunto.

6.4.1. Ai rapporti di parentela l’Autorità amministrativa, in presenza di altri elementi univoci e sintomatici, può anche assimilare quei «rapporti di comparaggio», derivanti da consuetudini di vita.

6.4.2. Infatti, specialmente nei contesti sociali in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una «influenza reciproca» di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza.

6.4.3. Una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto che non sia attinto da pregiudizio mafioso può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione.

6.4.4. Sotto tale profilo, hanno rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e rilevano le peculiari realtà locali, ben potendo l’Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l’esistenza – su un’area più o meno estesa – del controllo di una ‘famiglia’ e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti (a fortiori se questi non risultino avere proprie fonti legittime di reddito).

6.4.5. In materia, possono risultare utili anche i principi formulati da questo Consiglio, in materia di revoca delle licenze di polizia, quando abbiano ad oggetto armi e munizioni, e cioè in una materia in cui similmente si pongono – sia pure sotto distinti profili – aspetti di protezione dell’ordine pubblico.

6.4.6. Infatti, l’Autorità di polizia può ragionevolmente disporre la revoca quando il titolare della licenza sia un congiunto di un appartenente alla criminalità organizzata e sia con questi convivente: si può senz’altro ritenere sussistente un pericolo di abuso, quando un’arma sia custodita nella stessa abitazione di un appartenente alla criminalità organizzata, non solo perché è concretamente ipotizzabile che vi sia la possibilità di utilizzare l’arma senza il consenso del titolare della licenza, ma anche perché il legame familiare e la convivenza comportano reciproci condizionamenti.

6.4.7. Similmente, il provvedimento del Prefetto può ritenere sussistente il pericolo di condizionamento mafioso, quando l’imprenditore conviva con un congiunto, risultato appartenente ad un sodalizio criminoso.

6.5. Circa i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia, di titolari, soci, amministratori, dipendenti dell’impresa con soggetti raggiunti da provvedimenti di carattere penale o da misure di prevenzione antimafia, l’Amministrazione può ragionevolmente attribuire loro rilevanza quando essi non siano frutto di casualità o, per converso, di necessità.

6.5.1. Se di per sé è irrilevante un episodio isolato ovvero giustificabile, sono invece altamente significativi i ripetuti contatti o le ‘frequentazioni’ di soggetti coinvolti in sodalizi criminali, di coloro che risultino avere precedenti penali o che comunque siano stati presi in considerazione da misure di prevenzione.

6.5.2. Tali contatti o frequentazioni (anche per le modalità, i luoghi e gli orari in cui avvengono) possono far presumere, secondo la logica del «più probabile che non», che l’imprenditore – direttamente o anche tramite un proprio intermediario - scelga consapevolmente di porsi in dialogo e in contatto con ambienti mafiosi.

6.5.3. Quand’anche ciò non risulti punibile (salva l’adozione delle misure di prevenzione), la consapevolezza dell’imprenditore di frequentare soggetti mafiosi e di porsi su una pericolosa linea di confine tra legalità e illegalità (che lo Stato deve invece demarcare e difendere ad ogni costo) deve comportare la reazione dello Stato proprio con l’esclusione dell’imprenditore medesimo dal conseguimento di appalti pubblici e comunque degli altri provvedimenti abilitativi individuati dalla legge.

6.5.4. In altri termini, l’imprenditore che – mediante incontri, telefonate o altri mezzi di comunicazione, contatti diretti o indiretti – abbia tali rapporti (e che si espone al rischio di esserne influenzato per quanto riguarda le proprie attività patrimoniali e scelte imprenditoriali) deve essere consapevole della inevitabile perdita di ‘fiducia’ che ne consegue (perdita che il provvedimento prefettizio attesta, mediante l’informativa).

6.6. Rilevano altresì le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa, sia essa in forma individuale o collettiva, nonché l’abuso della personalità giuridica.

6.6.1. Tali vicende e tale abuso non sono altrimenti spiegabili, secondo la logica del «più probabile che non», se non con la permeabilità mafiosa dell’impresa e il malcelato intento di dissimularla, come, ad esempio, nei casi previsti dall’art. 84, comma 4, lett. f), del d. lgs. n. 159 del 2011 e, cioè, le sostituzioni negli organi sociali, nella rappresentanza legale della società, nonché nella titolarità delle imprese individuali ovvero delle quote societarie, effettuate da chiunque conviva con soggetti destinatati di provvedimenti di cui alle lettere a) e b) dello stesso art. 84, comma 4, del d. lgs. n. 159 del 2011, realizzate con modalità che, per i tempi in cui vengono realizzati, il valore economico delle transazioni, il reddito dei soggetti e le qualità dei subentranti, «denotino l’intento di eludere la normativa sulla documentazione antimafia».

6.7. Rilevano, più in generale, tutte quelle operazioni fraudolente, modificative o manipolative della struttura dell’impresa, che essa esercitata in forma individuale o societaria:

- scissioni, fusioni, affitti di azienda o anche solo di ramo di azienda, acquisti di pacchetti azionari o di quote societarie da parte di soggetti, italiani o esteri, al di sopra di ogni sospetto, spostamenti di sede, legale od operativa, in zone apparentemente ‘franche’ dall’influsso mafioso;

- aumenti di capitale sociale finalizzati a garantire il controllo della società sempre da parte degli stessi soggetti, patti parasociali, rimozione o dimissioni di sindaci o controllori sgraditi;

walzer di cariche sociali tra i medesimi soggetti, partecipazioni in altre società colpite da interdittiva antimafia, gestione di diverse società, operanti in settori diversi, ma tutte riconducibili alla medesima governance e spostamenti degli stessi soggetti dalle cariche sociali dell’una o dell’altra, etc.

6.7.1. Tali operazioni vanno considerate fraudolente, quando sono eseguite al malcelato fine di nascondere o confondere il reale assetto gestionale e con un abuso delle forme societarie, dietro il cui schermo si vuol celare la realtà effettiva dell’influenza mafiosa, diretta o indiretta, ma pur sempre dominante.

6.8. Rilevano inoltre le vicende anomale nella concreta gestione dell’impresa, riscontrate dal Prefetto anche mediante i poteri di accesso e di accertamento di cui alle lettere d) ed e) dell’art. 84, comma 4, del d. lgs. n. 159 del 2011, consistenti in fatti che lasciano intravedere, nelle scelte aziendali, nelle dinamiche realizzative delle strategie imprenditoriali, nella stessa fase operativa e nella quotidiana attività di impresa, evidenti segni di influenza mafiosa.

6.8.1. Tale casistica è assai varia ed è ben nota alla giurisprudenza di questo Consiglio, potendo avere rilievo, a solo titolo esemplificativo:

- le cc.dd. teste di legno poste nelle cariche sociali, le sedi legali con uffici deserti e le sedi operative ubicate presso luoghi dove invece hanno sede uffici di altre imprese colpite da antimafia; 

- l’inspiegabile presenza sul cantiere di soggetti affiliati alle associazioni mafiose; 

- il nolo di mezzi esclusivamente da parte di imprese locali gestite dalla mafia; 

- il subappalto o la tacita esecuzione diretta delle opere da parte di altre imprese, gregarie della mafia o colpite da interdittiva antimafia; 

- i rapporti commerciali intrattenuti solo con determinate imprese gestite o ‘raccomandate’ dalla mafia; 

- le irregolarità o le manomissioni contabili determinate dalla necessità di camuffare l’intervento e il tornaconto della mafia nella effettiva esecuzione dell’appalto; 

- gli stati di avanzamento di lavori ‘gonfiati’ o totalmente mendaci; 

- l’utilizzo dei beni aziendali a titolo personale, senza alcuna ragione, da parte di soggetti malavitosi; 

- la promiscuità di forze umane e di mezzi con imprese gestite dai medesimi soggetti riconducibili alla criminalità e già colpite, a loro volta, da interdittiva antimafia;

- l’assunzione esclusiva o prevalente, da parte di imprese medio-piccole, di personale avente precedenti penali gravi o comunque contiguo ad associazioni criminali; 

- i rapporti tra impresa e politici locali collusi con la mafia o addirittura incandidabili, etc.

6.9. Quanto alla condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi ‘benefici’, la perdita di ‘fiducia’ – giustificativa della interdittiva – si può legittimamente basare anche sulla manifestata disponibilità dell’imprenditore di far parte di un sistema di gestione di un settore, caratterizzato da illegalità, con ‘scambi di favori’ (riferibili, ad es., ad una volontaria mancata partecipazione ad una gara, ‘in cambio’ di successivi vantaggi).

6.10. Può avere un rilievo decisivo – per escludere la fiducia necessaria perché vi siano i contatti con la pubblica Amministrazione – anche l’inserimento dell’imprenditore in un contesto di illegalità o di abusivismo, reiterato e costante o anche solo episodico, ma particolarmente allarmante, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità, sintomatiche di una sostanziale impunità.

6.11. In tali casi, il Prefetto può senz’altro desumere ulteriori argomenti per ritenere che l’imprenditore possa contare in loco su ‘coperture’ e connivenze, anche presso gli uffici pubblici, valendosi del clima tipico di una realtà pervasa e soggiogata dall’influenza mafiosa.

7. Può essere sufficiente a giustificare l’emissione dell’informativa anche uno dei sopra indicati elementi indiziari: la valutazione del provvedimento prefettizio si può ragionevolmente basare anche su un solo indizio, che comporti una presunzione, qualora essa sia ritenuta di tale precisione e gravità da rendere inattendibili gli elementi di giudizio ad essa contrari.

7.1. Ciò in quanto, come afferma la consolidata giurisprudenza, il ragionamento indiziario può fondarsi anche su un unico elemento presuntivo, purché non contrastato da altro ragionamento presuntivo di segno contrario, con la conseguenza che il requisito della concordanza, previsto dall’art. 2729 c.c., perde il carattere di requisito necessario e finisce per essere elemento eventuale della valutazione presuntiva, destinato ad operare solo laddove ricorra una pluralità di presunzioni (v., ex plurimis, Cass., sez. I, 26.3.2003, n. 4472).

8. Circa la motivazione, come sopra si è osservato in termini generali, per ciascuno o anche uno solo di essi il Prefetto dovrà indicare con precisione, nell’informativa, gli elementi di fatto e motivare, anche mediante il rinvio, per relationem, alle relazioni eseguite dalle Forze di Polizia, le ragioni che lo inducono a ritenere probabile che da uno o più di tali elementi, per la loro attualità, univocità e gravità, sia ragionevole desumere il pericolo concreto di infiltrazione mafiosa nell’impresa: se la valutazione unitaria non traspare dagli atti del procedimento, occorre che essa sia effettuata dal Prefetto, con una motivazione che può anche non essere analitica e diffusa, ma che richiede un calibrato giudizio sintetico su uno o anche più di detti elementi presuntivi, sopra indicati.

8.1. La valutazione della prova presuntiva, giova qui ricordare, esige che dapprima il Prefetto in sede amministrativa (come poi il giudice amministrativo nell’esercizio dei suoi poteri quale giudice di legittimità) esamini tutti gli indizi di cui disponga, non già considerandoli isolatamente, ma valutandoli complessivamente ed alla luce l’uno dell’altro, senza negare valore ad uno o più di essi sol perché equivoci, così da stabilire se sia comunque possibile ritenere accettabilmente probabile l’esistenza del fatto da provare.

9. Passando all’esame del caso qui controverso, facendo specifica applicazione dei principi sopra enunciati, si deve rimarcare innanzitutto come – per quanto riguarda i «rapporti familiari» di cui al precedente punto d) – la giurisprudenza di questo Consiglio abbia già più volte chiarito che i legami di parentela costituiscono un indice importante per valutare la sussistenza di condizionamenti mafiosi, quando siano connotati da attivi comportamenti di solidarietà e di cointeressenza (Cons. St., sez. III, 19 ottobre 2015, n. 4792).

9.1. Ad avviso del Collegio, tale indice indubbiamente sussiste nel caso di specie.

9.2. Il signor Umb. D.San. – fino a tempi recenti socio e amministratore della s.r.l. «Il Buongustaio» – è, infatti, il figlio del signor Mic. D.San, affiliato al clan dei Casalesi.

9.3. Egli solo dal febbraio 2015, in seguito all’emissione dell’informativa, non risulta più convivente con il padre, bensì nello stato di famiglia della madre Pas. D.Ron., (unitamente ad altre due persone tra cui, particolare non irrilevante, il fratello consanguineo Giu. D.San., figlio del padre e della di lui convivente, ciò che lascia intravedere come si sia in presenza di un unico e coeso nucleo familiare).

9.4. Il forte e indiscutibile legame con il padre convivente – appartenente al clan dei Casalesi – è comunque di per sé rilevante e tale da giustificare l’interdittiva del 31 marzo 2014.

9.5. Come si è osservato al precedente § 5.4., infatti, risulta ragionevole il provvedimento del Prefetto che ritenga sussistente il pericolo di condizionamento mafioso, quando l’imprenditore conviva con un congiunto, risultato appartenente ad un sodalizio criminoso.

9.6. Contrariamente a quanto rilevato dalla sentenza appellata, ciò comporta la legittimità della ‘prima’ interdittiva del 31 marzo 2014, impugnata col ricorso di primo grado.

10. A maggior ragione, risulta legittima la ‘seconda’ informativa, emessa dopo l’esito del giudizio cautelare, risultato favorevole in primo grado.

10.1. L’informativa del 14 luglio 2015 ha rilevato che il signor Umb. D.San., dapprima socio e amministratore, è stato estromesso dalla società dal 16 ottobre 2014, successivamente all’emissione della ‘prima’ informativa antimafia: egli ha ceduto la sua quota alla signora Nic. San., divenuta amministratrice unica.

10.2. La sentenza impugnata ha osservato che la cessione delle quote potrebbe essere indicativa di uno scopo elusivo della normativa in materia, qualora di tale espediente si sia servita una persona sospettata di legami con le organizzazioni criminali, essendo possibile che la fuoriuscita dalla compagine sociale si riveli una operazione fittizia, qualora non cessino, contestualmente, i rapporti di fatto tra l’ex-socio e la direzione dell’impresa, mentre nel caso in esame il sig. Umb. D.San.s non risulta essere affiliato o sospettato di legami con le organizzazioni camorristiche, trattandosi di persona la cui «unica colpa sembra essere il rapporto di parentela con un presunto mafioso» (v. p. 8 della sentenza impugnata).

10.3. Ritiene al riguardo il Collegio che si tratti, tuttavia, di un ragionamento non condivisibile, sia in fatto, per quanto ora si dirà, che in diritto, perché contrastante con la disposizione dell’art. 84, comma 4, lett. f), del d. lgs. n. 159 del 2011.

10.4. Anzitutto, il sig. Mic. D.San. non può essere qualificato come «presunto mafioso», ma risulta un soggetto pluripregiudicato e condannato, tra l’altro, dalla Corte d’Appello di Napoli, con sentenza divenuta irrevocabile il 20 marzo 2013, per il delitto di cui all’art. 416-bis c.p., sicché legittimamente è stato considerato organico alla criminalità organizzata di stampo camorristico.

10.5. Inoltre, del tutto ragionevolmente il provvedimento prefettizio ha ritenuto che la cessione delle quote da parte del figlio di questi alla signora Nic. San., già consocia e amministratrice con Umb. D.San., sia un espediente per aggirare la normativa antimafia.

10.6. L’art. 84, comma 4, lett. f), del d. lgs. n. 159 del 2011 prevede, espressamente, che elementi di infiltrazione mafiosa, che danno luogo all’adozione dell’interdittiva, sono le cessioni delle quote societarie o le sostituzioni negli organi sociali, effettuate da chiunque conviva stabilmente con i soggetti destinatari di cui alle lettere a) e b), con modalità che, per i tempi in cui vengono realizzati, denotino l’intento di eludere la normativa sulla documentazione antimafia.

10.7. E proprio questo è accaduto nel caso di specie, perché tale cessione è avvenuta il 16 ottobre 2014 da parte del signor Umb. D.San. (figlio convivente con il padre Mic. D.San. e comunque stabilmente inserito nel suo nucleo familiare “allargato”, soggetto condannato in via definitiva per associazione di stampo mafioso), dopo l’emissione della prima informativa antimafia, risalente al 31 marzo 2014.

11. Per le ragioni che precedono, le due informative, sia la prima del 21 marzo 2014 impugnata con il ricorso originario che, a maggior ragione, la seconda del 14 luglio 2015 impugnata con motivi aggiunti, non risultano affetti dai vizi dedotti in primo grado, fondandosi su elementi che rivelano l’influenza della “famiglia” sulla conduzione della società (le cui quote sono state cedute dal signor Umb. D.San. in elusione della normativa antimafia all’altra amministratrice, Nic. San., in linea di continuità con la precedente gestione, nella quale entrambi erano soci e amministratori della s.r.l. «Il Buongustaio»).

12. La sentenza appellata dal Ministero va pertanto integralmente riformata, con conseguente reiezione del ricorso originario e dei motivi aggiunti (questi ultimi anche nella parte contenente le consequenziali domande risarcitorie per evidente mancanza di un atto illegittimo, costituente il necessario elemento costitutivo di una responsabilità in capo all’Amministrazione).

13. Le spese del doppio grado di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono in solido la soccombenza della signora Nic. San., ricorrente in proprio, e della s.r.l. «Il Buongustaio».

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello n. 1547 del 2016, come in epigrafe proposto dal Ministero dell’Interno, lo accoglie e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso n. 551 del 2015 e i motivi aggiunti, proposti in primo grado dalla signora Nic, San. e dalla s.r.l. «Il Buongustaio».

Condanna in solido gli appellati Nicolina Santoro e la s.r.l. «Il Buongustaio» a rifondere in favore del Ministero dell’Interno le spese del doppio grado di giudizio, che liquida nell’importo di € 10.000,00, oltre accessori (IVA, CPA e spese generali) come per legge, di cui 3.000 per il primo grado e 7.000 per il secondo grado

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, presso la sede del Consiglio di Stato, Palazzo Spada, nella camera di consiglio del giorno 31 marzo 2016, con l’intervento dei magistrati:

 

 

Luigi Maruotti, Presidente Coestensore

Carlo Deodato, Consigliere

Lydia Ada Orsola Spiezia, Consigliere

Massimiliano Noccelli, Consigliere Coestensore

Pierfrancesco Ungari, Consigliere

 

 

 

 

     
     
IL COESTENSORE   IL PRESIDENTE COESTENSORE
     
     
     
     
     

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 09/05/2016

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

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