Tuesday 26 July 2016 06:55:31

Giurisprudenza  Uso del Territorio: Urbanistica, Ambiente e Paesaggio

Esproprio: la mancata previsione di un indennizzo non è ex se circostanza viziante il decreto di esproprio

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV del 20.7.2016 n. 3291

Secondo il costante insegnamento giurisprudenziale la mancata previsione di un indennizzo non è ex se circostanza viziante il decreto di esproprio (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 24 novembre 2014, nr. 5814, id., sez. VI, 30 luglio 2013, nr. 4006). In applicazione di tale principio, la Quarta Sezione del Consiglio di Stato, nella sentenza del 20 luglio 2016 n. 3291, ha affermato che "la doglianza afferente alla mancanza dell’indennizzo, ove non la si voglia intendere sic et simpliciter come infondata, si risolve nel far valere il diritto soggettivo alla determinazione e corresponsione dell’indennizzo medesimo, e quindi nell’instaurare una controversia sottratta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 133, comma 1, lettera g), cod. proc. amm."

 

Testo del Provvedimento (Apri il link)

 

N. 03291/2016REG.PROV.COLL.

N. 08180/2015 REG.RIC.

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello nr. 8180 del 2015, proposto dai signori Carmine DI SERIO, Maurizio DI SERIO e Marcello DI SERIO, rappresentati e difesi dall’avv. Gennaro Giametta, con domicilio eletto presso l’avv. Antonio Lamberti in Roma, viale dei Parioli, 67, 

contro

- il COMUNE DI SANT’ARPINO, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Antonio Palma, con domicilio eletto presso lo stesso in Roma, via E.Q. Visconti, 103;
- la REGIONE CAMPANIA, in persona del Presidente pro tempore, non costituita;
- il MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI, in persona del Ministro pro tempore, non costituito;
- la PROVINCIA DI CASERTA, in persona del Presidente pro tempore, non costituita;

nei confronti di

signor Vincenzo D’ANTONIO, non costituito,

per l’annullamento e/o riforma,

previa sospensione,

della sentenza nr. 2847/2015 emessa dalla Sezione Quinta del Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, depositata in data 21 maggio 2015, resa nel giudizio nr. 2310/2012, che ha in parte respinto le domande e le impugnative proposte dai signori Di Serio e in parte dichiarato il difetto di giurisdizione.

 

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Sant’Arpino;

Vista la memoria prodotta dal Comune in data 16 maggio 2016 a sostegno delle proprie difese;

Vista l’ordinanza di questa Sezione nr. 4655 del 13 ottobre 2015, con la quale è stata respinta la domanda incidentale di sospensione dell’esecuzione della sentenza impugnata;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore, all’udienza pubblica del giorno 16 giugno 2016, il Consigliere Raffaele Greco;

Uditi l’avv. Mosca, su delega dell’avv. Giametta, per gli appellanti e l’avv. Palma per il Comune;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

 

FATTO

I signori Carmine, Maurizio e Marcello Di Serio hanno appellato, chiedendone la riforma previa sospensione dell’esecuzione, la sentenza con la quale il T.A.R. della Campania ha in parte respinto e in parte dichiarato inammissibile, per difetto di giurisdizione, il ricorso, integrato da motivi aggiunti, con il quale gli stessi avevano chiesto accertarsi l’illegittimità dell’occupazione posta in essere dal Comune di Sant’Arpino su suoli in loro proprietà, nonché annullarsi il successivo decreto di esproprio dei suoli medesimi e successivo provvedimento di rettifica di esso, con la condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno mediante restitutio in integrum (o, in alternativa, ordine di adozione di un decreto ai sensi dell’art. 42-bis del d.P.R. 8 giugno 2001, nr. 327).

A sostegno dell’impugnazione, è stata dedotta l’erroneità della predetta sentenza:

- nella parte in cui ha dichiarato il parziale difetto di giurisdizione del giudice amministrativo (con riguardo ad eventuali condotte occupative ritenute meramente materiali, nonché alle censure afferenti alla omessa previsione di una indennità di esproprio);

- nella parte in cui ha disatteso le doglianze formulate avverso il contratto preliminare di cessione a suo tempo sottoscritto fra il Comune e il dante causa degli odierni istanti;

- nella parte in cui ha respinto le censure relative al mancato rispetto delle garanzie procedimentali, nonché alla mancata considerazione dei vincoli ambientali e idrogeologici insistenti sull’area.

Si è costituito in resistenza il Comune di Sant’Arpino, argomentando nel senso dell’infondatezza del gravame e instando per la conferma della sentenza impugnata.

All’esito della camera di consiglio del 13 ottobre 2015, questa Sezione ha respinto la domanda incidentale di sospensione dell’esecuzione della sentenza impugnata.

Di poi, dopo che il Comune ha ulteriormente sviluppato con memoria le proprie tesi, la causa è stata trattenuta in decisione all’udienza del 16 giugno 2016.

DIRITTO

1. Il presente contenzioso concerne suoli siti nel territorio del Comune di Sant’Arpino, attualmente in proprietà ed usufrutto degli odierni appellanti, signori Di Serio, i quali li hanno acquistati in data 25 marzo 2010 dal precedente proprietario, signor Vincenzo D’Antonio.

1.1. I predetti immobili, interessati dal progetto comunale per la realizzazione di un parcheggio in adiacenza al Palazzo Ducale, erano stati già oggetto di vicende connesse a tale progetto, delle quali gli istanti avevano espressamente dichiarato nell’atto di acquisto di essere a conoscenza, e in particolare:

a) in data 20 febbraio 2009 era stato sottoscritto, fra il Comune e l’allora proprietario dei suoli, un “contratto preliminare di cessione”, con il quale la parte privata consentiva a cedere il proprio suolo all’Amministrazione, la quale si impegnava correlativamente a rilasciare in favore di controparte un permesso di costruire per la realizzazione di un edificio residenziale di tre livelli su aree diverse;

b) con la delibera consiliare nr. 10 del 7 aprile 2009, era stato approvato il progetto preliminare dell’opera da realizzare sui suoli in questione con valore di adozione di variante urbanistica, dichiarando contestualmente la pubblica utilità dell’intervento;

c) con la successiva delibera nr. 28 del 16 dicembre 2009, la variante urbanistica era stata definitivamente approvata a trasmessa alla Provincia di Caserta, quale ente delegato della Regione per la verifica di conformità.

In epoca successiva all’acquisto da parte degli odierni istanti, ed alla trascrizione del relativo atto, è infine intervenuta l’ulteriore delibera consiliare nr. 10 del 20 giugno 2011, con la quale il Comune ha preso atto della approvazione della variante da parte dell’Amministrazione provinciale.

Con nota del 12 gennaio 2012, gli odierni istanti, assumendo di aver appreso solo il giorno precedente dell’occupazione di parte dei suoli per opera della ditta incaricata dei lavori e della demolizione di alcuni degli edifici ivi esistenti, hanno diffidato il Comune dal proseguire le dette attività, delle quali lamentavano la totale illiceità.

Ha fatto seguito la proposizione dapprima di un’azione di spoglio dinanzi al giudice ordinario e quindi, dinanzi al T.A.R. della Campania, del ricorso introduttivo del presente giudizio, col quale gli istanti hanno chiesto accertarsi l’illegittimità dell’occupazione in corso e condannarsi l’Amministrazione comunale al risarcimento del danno ed alla restitutio in integrum.

In pendenza di detto giudizio, è intervenuto il decreto di esproprio nr. 2/2012 del 13 novembre 2012, notificato agli odierni istanti e da questi impugnato con motivi aggiunti, con i quali se ne sono dedotti plurimi profili di illegittimità.

1.2. Con la sentenza che ha definito il primo grado del giudizio, e che forma oggetto del presente gravame, il T.A.R. adìto:

i) ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione in relazione alla domanda formulata col ricorso introduttivo, siccome riferita a pretese condotte occupative meramente materiali, non poste in essere nell’esercizio di potestà pubblicistica, e quindi estranee alla sfera di cognizione del giudice amministrativo;

ii) ha del pari declinato la giurisdizione in ordine alla doglianza, contenuta nei motivi aggiunti, circa la mancata previsione nel decreto di esproprio di un indennizzo, considerandola espressione di un diritto soggettivo avente a oggetto la concreta determinazione e liquidazione dell’indennizzo medesimo;

iii) ha, infine, respinto le ulteriori censure formulate nei motivi aggiunti in relazione al decreto di esproprio che aveva definito la vicenda per cui è causa, nonché al successivo provvedimento di “rettifica” di questo.

In particolare, quanto a quest’ultimo profilo, il primo giudice ha ritenuto – anche alla luce del contenuto dell’atto di acquisto dei ricorrenti – che il preliminare a suo tempo sottoscritto fra il Comune e il dante causa degli istanti fosse “senz’altro opponibile” a questi ultimi, in modo da rendere recessiva l’eventuale inosservanza delle loro garanzie partecipative; inoltre, ha affermato che ogni questione circa la validità o l’inadempimento di detto preliminare fosse superata per effetto del sopravvenire del decreto di esproprio.

2. La ricostruzione in fatto che precede, ripetitiva di quella operata dal giudice di prime cure, non risulta contestata dalle parti costituite per cui, vigendo la preclusione di cui all’art. 64, comma 2, cod. proc. amm., deve considerarsi idonea alla prova dei fatti oggetto di giudizio.

3. Tutto ciò premesso, l’appello è parzialmente fondato, nei sensi e con gli effetti di seguito precisati.

4. In ordine logico, vanno prioritariamente esaminati i motivi d’appello che investono il capo di sentenza col quale il primo giudice ha parzialmente declinato la propria giurisdizione.

In parte qua, l’appello è infondato.

4.1. Innanzi tutto, il T.A.R. ha ritenuto estranea alla giurisdizione amministrativa esclusiva la domanda, contenuta nel ricorso introduttivo del giudizio, di accertamento dell’illegittimità dell’occupazione dei suoli degli istanti e di conseguente condanna del Comune al risarcimento del danno.

Sul punto, va rilevato il persistente contrasto fra le parti sulla ricostruzione in fatto della vicenda: infatti, mentre gli appellanti – come già accennato – assumono di aver appreso ex abrupto, in data 11 gennaio 2012, dell’avvenuto accesso alla loro proprietà da parte del personale dell’impresa incaricata dei lavori, al contrario il Comune insiste nel sostenere che alcun intervento in tale epoca risulterebbe avviato sui suoli degli istanti, essendosi avuto unicamente un sopralluogo tecnico teso a verificare la consistenza di eventuali danni causati da pregressi lavori eseguiti su suoli limitrofi (danni che l’Amministrazione si è sempre detta disponibile a riparare).

Al riguardo, la Sezione reputa superfluo ogni approfondimento della questione in fatto, atteso che la condivisibilità delle conclusioni del primo giudice, in punto di carenza della giurisdizione amministrativa, emerge con evidenza dalle stesse prospettazioni attoree.

Infatti, sono gli stessi istanti a ribadire di non aver ricevuto partecipazione di alcun provvedimento amministrativo prima del decreto di esproprio notificato loro in data 13 novembre 2012, di modo che ogni eventuale occupazione verificatasi anteriormente a tale momento non poteva che costituire per loro una condotta meramente materiale, in quanto tale estranea alla sfera di cognizione del giudice amministrativo: ciò risulta del resto confermato dalla condotta degli stessi esponenti, la cui prima iniziativa giudiziale si è svolta proprio dinanzi al Tribunale ordinario (il quale, a quanto consta in atti, non risulta avere a sua volta declinato la giurisdizione).

Sul punto può aggiungersi solo che quanto sopra, come meglio appresso si dirà, non vale per le eventuali condotte occupative ed esecutive di opere pubbliche che si siano poste a valle del suindicato decreto di esproprio, per le quali valgono le statuizioni che seguiranno.

4.2. Con distinta statuizione, il giudice di prime cure ha declinato la giurisdizione in relazione alla censura, articolata nei motivi aggiunti avverso il decreto di esproprio, a causa della mancanza in esso della previsione di un indennizzo a favore degli stessi espropriati (carenza che, nella prospettiva dell’Amministrazione, doveva intendersi giustificata dal fatto che il corrispettivo dell’ablazione dei suoli era stato a suo tempo concordato nel preliminare del 20 febbraio 2009).

Anche in relazione a tale capo di decisione, le critiche di parte appellante non colgono nel segno.

Al riguardo, va innanzi tutto richiamato il costante insegnamento giurisprudenziale secondo cui la mancata previsione di un indennizzo non è ex se circostanza viziante il decreto di esproprio (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 24 novembre 2014, nr. 5814, id., sez. VI, 30 luglio 2013, nr. 4006).

Di conseguenza, la doglianza afferente alla mancanza dell’indennizzo, ove non la si voglia intendere sic et simpliciter come infondata, si risolve nel far valere il diritto soggettivo alla determinazione e corresponsione dell’indennizzo medesimo, e quindi nell’instaurare una controversia sottratta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 133, comma 1, lettera g), cod. proc. amm.

5. Se, dunque, la sentenza impugnata appare meritevole di conferma in parte qua, a diverse conclusioni deve giungersi quanto alle ulteriori censure di merito articolate nei motivi aggiunti di prime cure nei confronti del decreto di esproprio.

6. Per un corretto approccio a queste ultime, è indispensabile procedere all’esatta qualificazione giuridica del già richiamato “contratto preliminare di cessione” del 20 febbraio 2009, il quale costituisce la base su cui l’Amministrazione comunale fonda la legittimità del proprio operato, e al tempo stesso l’oggetto di severe critiche da parte degli odierni appellanti.

6.1. Sul punto, l’impostazione difensiva del Comune è estremamente chiara: l’Amministrazione ritiene che esso sia, ad onta della sua autoqualificazione, un vero e proprio “contratto definitivo di scambio”, col quale l’allora proprietario dei suoli li avrebbe ceduti al Comune in cambio di un futuro permesso di costruire.

Che questa sia la tesi del Comune appare confermato dalla successiva condotta procedimentale della medesima Amministrazione, e segnatamente dall’omissione di ogni avviso ai nuovi proprietari subentrati nella titolarità del suolo, e dalla circostanza che nello stesso decreto di esproprio nr. 2/2012 il contratto del febbraio 2009 è richiamato sinteticamente come fonte dell’acquisizione della disponibilità del suolo da parte del Comune.

È evidente la gravità delle ricadute di tale impostazione, ove la si dovesse condividere: in particolare, il contratto di acquisto sottoscritto dagli odierni istanti in data 25 marzo 2010 dovrebbe ritenersi radicalmente nullo per impossibilità giuridica dell’oggetto, in applicazione del canone nemo plus juris in aliud transferre potest, quam ipse habet, e gli appellanti dovrebbero rivolgersi unicamente al loro dante causa per chieder conto delle pesanti conseguenze di un acquisto effettuato a non domino.

Tuttavia, la Sezione è dell’avviso che la tesi della parte pubblica, ancorché suffragata da qualche vago indice testuale (come, ad esempio, l’uso nel contratto dell’indicativo “cede”), non sia assistita da giuridica fondatezza.

In particolare, essa è contraddetta dalla stessa condotta dell’Amministrazione, la quale non solo ha tollerato che gli odierni istanti proseguissero nel possesso dei suoli de quibus e trascrivessero il loro acquisto nei registri immobiliari e catastali, ma in seguito, dopo aver ricevuto l’espressa diffida del gennaio 2010, ha effettivamente avviato una procedura di esproprio culminata nel decreto impugnato coi motivi aggiunti di primo grado: procedura della quale non vi sarebbe stata alcuna necessità, laddove il Comune avesse inteso perfezionato il trasferimento della proprietà a suo favore fin dalla data del contratto sottoscritto nel febbraio 2009.

Pertanto, appare certamente più aderente a una ricostruzione della reale volontà delle parti la qualificazione dell’accordo de quo come contratto a effetti meramente obbligatori, avente a oggetto l’impegno ad una futura cessione dell’immobile (nonché, e correlativamente, l’impegno del Comune al rilascio di un futuro permesso di costruire).

6.2. Così stando le cose, e volendo addivenire a una più precisa qualificazione giuridica dell’accordo de quo in grado di attribuirgli una qualche validità ed efficacia (in applicazione del canone ermeneutico di cui all’art. 1367 cod. civ.), va innanzi tutto escluso che lo stesso possa qualificarsi come un preliminare di cessione volontaria dei suoli espropriandi.

Al riguardo, giova richiamare la costante giurisprudenza la quale, evidenziando la specialità della disciplina che connota l’istituto della cessione volontaria giusta l’art. 45 del d.P.R. 8 giugno 2001, nr. 327, evidenzia che tale negozio presuppone necessariamente il suo inserirsi in una procedura espropriativa validamente avviata non solo con la dichiarazione di pubblica utilità, ma anche con la determinazione provvisoria dell’indennità (cfr. Cass. civ., sez. I, 27 aprile 2011, nr. 9390; Cons. Stato, sez. IV, 8 gennaio 2016, nr. 28; id., 22 luglio 2010, nr. 4809); un iter procedurale scandito dal legislatore che, secondo la S.C., esclude anche la possibilità di configurare un accordo preliminare di cessione fra p.a. ed espropriando (cfr. Cass. civ., sez. II, 8 maggio 2014, nr. 9990).

Nel caso che occupa, in disparte la questione se sia consentito concordare una cessione volontaria in cui il corrispettivo sia determinato “in natura” e difformemente dai parametri di cui al precitato art. 45, è sufficiente rilevare che il “preliminare” di che trattasi fu sottoscritto in una data anteriore non solo alla dichiarazione di pubblica utilità (intervenuta solo con la già citata delibera nr. 10 del 2009), ma alla stessa predisposizione del progetto dell’opera.

6.3. Alla luce di quanto sopra, deve concludersi che i riferimenti contenuti nel testo del contratto de quo alla proprietà “esproprianda” vadano intesi in senso generico e atecnico, e non certo come richiamanti una procedura ablatoria in corso, dovendo ragionevolmente assimilarsi l’accordo in questione ad un contratto preliminare di una permuta che, nelle intenzioni delle parti contraenti, avrebbe dovuto tener luogo non già del solo decreto di esproprio, ma dell’intera procedura ablatoria.

D’altra parte, se è vero che l’ordinamento predispone l’istituto della cessione volontaria per consentire una più celere definizione dell’iter espropriativo già avviato, non è però affatto impedito alla p.a., alla stregua della vigente normativa, di seguire la via di un accordo ai sensi dell’art. 11 della legge 7 agosto 1990, nr. 241, che consenta di ottenere la disponibilità di un suolo elidendo in radice la stessa necessità di avviare la procedura di esproprio (le due ipotesi sono certamente distinte, come dimostrato dalle rilevanti ricadute – ancorché non rilevanti nel caso di specie – ad esempio in materia di giurisdizione, laddove nel secondo caso rileverà la giurisdizione esclusiva di cui all’art. 133, comma 1, lettera a), nr. 2, cod. proc. amm., anziché quella di cui alla già richiamata lettera g) del medesimo articolo).

6.5. Se tale è dunque la qualificazione da darsi dell’accordo del febbraio 2009, e se deve escludersi che esso abbia determinato l’immediato trasferimento della proprietà in capo al Comune, ne discende:

a) che il detto contratto resta res inter alios acta rispetto agli odierni appellanti, ai quali è certamente inopponibile e il cui successivo acquisto è pienamente valido ed efficace;

b) che deve escludersi che i medesimi appellanti, per effetto dell’acquisto dei suoli, siano “subentrati” nella posizione contrattuale del loro dante causa, non essendo le obbligazioni derivanti dal contratto preliminare assistite da una siffatta “ambulatorietà”;

c) che il Comune deve imputare a sé stesso il non essersi attivato per ottenere l’adempimento degli obblighi assunti con il contratto del 20 febbraio 2009 (e, anzi, l’aver accettato che la propria controparte contrattuale tenesse una condotta chiaramente incompatibile con la volontà di darvi seguito, quale è la successiva vendita a terzi dei medesimi suoli).

Tali rilievi consentono di superare, siccome recessiva, la questione di nullità dell’accordo de quo sollevata dagli odierni appellanti: nel senso che, una volta qualificato il detto contratto come un preliminare rimasto inadempiuto e comunque inefficace per i terzi acquirenti del bene che ne formava oggetto, è superfluo scrutinarne la prospettata contrarietà a norme imperative.

7. Sulla scorta di quanto fin qui esposto, si appalesa fondata e assorbente la censura, riproposta col terzo motivo di appello, in ordine alla omissione delle garanzie partecipative previste dalla legge a favore dei soggetti espropriandi.

Sul punto, il primo giudice ha ritenuto che l’omissione potesse dirsi irrilevante per avere gli istanti espressamente ammesso, all’atto del proprio acquisto, di essere a conoscenza degli atti in precedenza posti in essere dall’Amministrazione comunale; quest’ultima aggiunge, poi, che in ogni caso tutte le delibere consiliari relative al progetto di che trattasi furono regolarmente pubblicate.

Tale ultimo rilievo è manifestamente privo di pregio, essendo pacifico che, alla stregua della normativa vigente, per il rispetto delle garanzie partecipative nei procedimenti ablatori nelle procedure espropriative è necessaria la notifica individuale degli atti rilevanti (atto impositivo del vincolo espropriativo, dichiarazione di pubblica utilità etc.) ai proprietari degli immobili da espropriare.

Per il resto, la Sezione non condivide l’assunto che un accordo privatistico concluso fra il Comune e un soggetto diverso potesse tener luogo delle comunicazioni di rito nei confronti degli odierni istanti, subentrati in un momento successivo nella proprietà dei suoli (circostanza poi attestata anche catastalmente, come comprovato dal fatto che il successivo decreto di esproprio è stato a loro notificato quali proprietari espropriandi); assunto dal quale, oltre tutto, l’Amministrazione pretende trarre l’ulteriore conclusione che agli istanti non debba spettare neanche alcun indennizzo per l’esproprio, essendo essi vincolati dalla pattuizione a suo tempo stipulata col loro dante causa che individuava il corrispettivo nel futuro rilascio di un permesso di costruire (ciò che, come si è visto, confligge frontalmente con l’evidenziata intrasmissibilità agli aventi causa degli obblighi rivenienti da un contratto preliminare).

In definitiva, ciò che emerge dagli atti è che il Comune, dopo aver per lungo tempo operato sul presupposto di aver già acquisito la piena disponibilità del suolo, una volta avvedutosi che così non era, abbia frettolosamente avviato e definito una procedura ablatoria non preceduta dalle necessarie garanzie partecipative in favore degli espropriati, e poi culminata nel decreto di esproprio censurato in primo grado coi motivi aggiunti; ne è derivato un iter procedimentale complessivamente “ibrido”, avviato con moduli privatistici e successivamente, una volta mutati gli interlocutori, portato a conclusione con strumenti autoritativi, in modo però inidoneo a eliminare gli originari vizi di legittimità.

8. Le conclusioni testé raggiunte, se comportano l’annullamento dei motivi aggiunti per il rilevato vizio procedimentale con assorbimento di ogni altra questione (e, in particolare, delle censure reiterate nell’appello in relazione all’iter formativo del progetto dell’opera), non esimono il Collegio dal rilevare – anche al fine di orientare la futura azione dell’Amministrazione – l’insussistenza di interesse degli istanti a contestare nel merito il progetto medesimo, laddove prevede interventi su preesistenti immobili comunali e non direttamente sul suolo in loro proprietà.

9. Quanto sopra comporta altresì, oltre all’annullamento del decreto di esproprio e del successivo provvedimento di rettifica, il parziale accoglimento anche della consequenziale domanda di restituzione, con riguardo ai suoli occupati a seguito dei predetti provvedimenti (e sui quali, come riconosciuto dall’Amministrazione in memoria, risulta ormai realizzato il parcheggio pubblico cui la procedura ablatoria era strumentale).

Sul punto, gli istanti in prime cure si sono limitati a chiedere il ristoro in forma specifica attraverso la restitutio in integrum, o in alternativa la condanna dell’Amministrazione comunale all’adozione di un decreto di acquisizione ai sensi dell’art. 42-bis del d.lgs. nr. 327/2001: tale ultima domanda non può essere accolta, essendo indirizzo consolidato della Sezione che un tale ordine fuoriesca dalle attribuzioni del giudice amministrativo in sede di cognizione (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, 19 marzo 2014, nr. 1344).

Naturalmente, resta ferma e impregiudicata la facoltà del Comune, in alternativa alla disposta restituzione, di avvalersi di tale potestà acquisitiva, previa valutazione della sussistenza dei relativi presupposti e con la corresponsione dell’indennizzo e del risarcimento ivi previsti (oltre che, come è ovvio e purché ne sussistano i presupposti, di avviare ex novo una rituale ordinaria procedura ablatoria intesa all’acquisizione dei suoli per cui è causa).

10. In conclusione, il giudizio va definito con decisione di parziale riforma della sentenza impugnata, col parziale accoglimento dei motivi aggiunti di primo grado e il consequenziale annullamento degli atti con essi impugnati, nonché la condanna alla restituzione dei suoli occupati in esecuzione degli stessi (e salva l’evidenziata facoltà di acquisizione ex art. 42-bis, d.P.R. nr. 327/2001).

Le questioni vagliate, peraltro, esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 cod. proc. civ., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante: cfr. explurimis, per le affermazioni più risalenti, Cass. civ., sez. II, 22 marzo 1995, nr. 3260, e, per quelle più recenti, Cass. civ., sez. V, 16 maggio 2012, nr. 7663). 

Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.

11. La parziale soccombenza reciproca giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese di entrambi i gradi del giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie in parte e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, accoglie in parte i motivi aggiunti di primo grado, nei sensi e con gli effetti di cui in motivazione.

Compensa tra le parti le spese del doppio grado del giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 giugno 2016 con l’intervento dei magistrati:

 

 

Vito Poli, Presidente

Raffaele Greco, Consigliere, Estensore

Andrea Migliozzi, Consigliere

Carlo Schilardi, Consigliere

Giuseppe Castiglia, Consigliere

 

 

 

 

     
     
L'ESTENSORE   IL PRESIDENTE
     
     
     
     
     

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 20/07/2016

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

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COMPARTO SANITA’ 2019-2021 - Quesito su prestazioni di lavoro straordinario in caso di adesione alla “banca delle ore”. Modalità di fruizione del riposo compensativo e/o pagamento delle ore accantonate.

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Pubblico Impiego e Responsabilità Amministrativa - Monday 12 February 2024 09:50:24

AREA FUNZIONI LOCALI - Quesito su possibili cause di sospensione delle ferie

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