Pubblicato il 26/05/2017

N. 02505/2017REG.PROV.COLL.

N. 05240/2010 REG.RIC.

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5240 del 2010, proposto dalla signora Pasqualina Ariante, rappresentata e difesa dagli avvocati Orazio Abbamonte e Giovanni Basile, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Orazio Abbamonte in Roma, via Terenzio, n. 7;

contro

Il Ministero per i beni e le attività culturali e la Soprintendenza per i beni archeologici di Napoli e Caserta, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici sono domiciliati in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12;
il Comune di Pozzuoli, in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio;

per la riforma della sentenza del T.A.R. per la Campania, Sede di Napoli, Sez. VI, n. 1909/2009, resa tra le parti;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero per i beni e le attività culturali e della Soprintendenza per i beni archeologici di Napoli e Caserta;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 11 maggio 2017 il pres. Luigi Maruotti e uditi per le parti l’avvocato Orazio Abbamonte e l’avvocato dello Stato Maria Vittoria Lumetti;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Con una istanza proposta ai sensi dell’art. 39 della legge n. 724 del 1994 e dell’art. 32 della legge n. 47 del 1985, l’appellante ha chiesto il condono edilizio di un edificio realizzato senza titolo su un’area (di proprietà prima dell’Opera nazionale combattenti e poi della Regione Campania), sita nel territorio del Comune di Pozzuoli.

Il Comune di Pozzuoli ha respinto l’istanza di condono, con l’atto n. 51996 del 28 dicembre 2004, emanato dopo l’acquisizione del parere negativo della Soprintendenza per i beni archeologici delle province di Napoli e Caserta n. 13195 del 30 maggio 2000.

2. Con il ricorso n. 1725 del 2005 (proposto al TAR per la Campania, Sede di Napoli), l’appellante ha impugnato il diniego di condono ed il presupposto parere negativo statale, chiedendone l’annullamento.

3. Con motivi aggiunti, ella ha impugnato anche:

- il decreto del Ministro della pubblica istruzione di data 24 settembre 1947, che ha imposto il vincolo indiretto di inedificabilità assoluta sul suolo in questione;

- l’atto n. 6570 del 3 marzo 2005, con cui la Soprintendenza ha respinto la richiesta di riesame del parere negativo di data 30 maggio 2000.

4. Con la sentenza impugnata, il TAR – nell’evidenziare che l’immobile è stato realizzato su una «tra le più antiche aree archeologiche d’Italia», «afferente alla Acropoli di Cuma» - ha respinto il ricorso principale e i motivi aggiunti ed ha condannato l’interessata al pagamento delle spese del giudizio in favore dell’Amministrazione statale, liquidate in euro 2.500.

5. Con l’appello in esame, l’interessata ha chiesto che, in riforma della sentenza del TAR, siano accolti il ricorso di primo grado ed i motivi aggiunti.

Si sono costituiti in giudizio il Ministero per i beni e le attività culturali e la Soprintendenza per i beni archeologici di Napoli e Caserta, i quali hanno chiesto che l’appello sia respinto.

All’udienza dell’11 maggio 2017, la causa è stata trattenuta per la decisione.

6. L’atto di appello:

- sino a p. 7, ha analiticamente ricostruito i fatti che hanno condotto al secondo grado del giudizio;

- da p. 7 a p. 32, contiene cinque articolate censure, con cui sono state riproposte le doglianze di primo grado, respinte dal TAR.

7. Col primo motivo, è dedotta la violazione dell’art. 7 e ss. della legge n. 241 del 1990, nonché la presenza di vizi nella sentenza appellata, ed è stato chiesto l’accoglimento della censura sulla mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, proposta col ricorso principale di primo grado.

Ad avviso dell’appellante, non rileva il fatto – rilevato dal TAR - che il provvedimento di diniego di condono sia stato emesso all’esito di un procedimento attivato ad istanza di parte, concluso con un provvedimento finale del Comune, emesso dopo l’emanazione del parere negativo della Soprintendenza.

8. Ritiene la Sezione che la censura così sintetizzata vada respinta.

Va condivisa la statuizione del TAR, secondo la quale l’interessata era a conoscenza del contenuto del parere ben prima di quando si è poi concluso il procedimento, col diniego comunale.

Infatti, come risulta da p. 6 della sentenza appellata, l’interessata aveva a suo tempo impugnato in sede giurisdizionale il parere negativo reso in data 8 giugno 2000 dalla Soprintendenza, con un ricorso che è stato poi deciso con una pronuncia che ne ha dichiarato la perenzione.

Risulta condivisibile anche la statuizione con cui il TAR ha evidenziato che – trattandosi di un procedimento unitario ad istanza di parte, le cui fasi sono state determinate dalla legge - non occorreva formalmente consentire la formulazione di osservazioni, dopo la proposizione della istanza.

Oltre che per tale ragione, già evidenziata dal TAR, l’infondatezza della formulata censura emerge anche dall’esame dello normativa vigente alle date di emanazione degli atti impugnati col ricorso principale.

Infatti, a tali date, nessuna disposizione di legge aveva previsto il dovere dell’Amministrazione di comunicare al richiedente, nei procedimenti ad istanza di parte, le ragioni ostative all’accoglimento della domanda, prima della formale emanazione di un provvedimento negativo.

Tale regola è stata innovativamente introdotta nel sistema con la legge n. 15 del 2005 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 42 del 21 febbraio 2005), che ha inserito nella legge n. 241 del 1990 l’art. 10 bis, che nella specie risulta dunque irrilevante, perché entrato in vigore l’8 marzo 2005, dopo le date di emanazione degli atti impugnati col ricorso principale.

9. Col secondo motivo, è lamentata la violazione dell’art. 29 della legge n. 47 del 1985, nonché la presenza di profili di eccesso di potere, per violazione del giusto procedimento e inadeguata valutazione degli interessi coinvolti.

L’appellante ha dedotto che il Comune di Pozzuoli – prima di concludere il procedimento sul condono – avrebbe dovuto valutare se dare applicazione al citato art. 29 e se porre in essere varianti agli strumenti urbanistici vigenti, volte al recupero degli insediamenti in tutto o in parte abusivi, dal momento che l’immobile in questione è stato realizzato in un contesto caratterizzato da un ‘generalizzato fenomeno d’edilizia abusiva’.

Vi sarebbe una contraddittorietà dell’azione amministrativa, poiché nel corso del tempo sono stati realizzati interventi di urbanizzazione della zona, con la realizzazione di un impianto fognario e di una scuola elementare.

L’appellante inoltre ha dedotto che il TAR avrebbe equivocato sul contenuto della censura di primo grado, poiché con essa non è stata dedotta la sussistenza dell’obbligo del Comune di attivare un procedimento di variante, ma è stato sostenuto che il Comune non poteva ignorare la dimensione che ha avuto nella zona il fenomeno dell’abusivismo.

10. La censura è infondata e va respinta, per le seguenti considerazioni.

10.1. In primo luogo, è decisivo considerare che:

- l’appellante ha presentato la domanda di condono edilizio in applicazione dell’art. 39 della legge n. 724 del 1994;

- il comma 1 del medesimo art. 39 (sulla «Definizione agevolata delle violazioni edilizie») ha previsto l’applicabilità delle «disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni», ma non anche di quelle del capo III della medesima legge del 1985;

- l’art. 29 invocato dall’appellante risulta inserito nel capo III della legge n. 47 del 1985 e dunque non è stato reso applicabile dalla legge n. 724 del 1994.

Ne consegue che l’appellante ha censurato il mancato esercizio di poteri discrezionali non esistenti, perché non attribuiti dall’art. 39 della legge n. 724 del 1994 alla amministrazione comunale (in un quadro normativo nel quale in sede amministrativa – anche per le implicazioni di natura penale - le iniziative sulla sanatoria degli abusi edilizi possono esservi solo nei casi espressamente previsti dalla legge).

Del resto, a conferma del rilievo ‘temporaneo’ dell’art. 29 della legge n. 47 del 1985, va rilevato come esso aveva previsto un termine – una tantum - entro il quale le leggi regionali avrebbero potuto disciplinare le possibili varianti degli strumenti urbanistici, volte al recupero degli insediamenti abusivi.

Inoltre, quand’anche l’art. 39 della legge n. 724 del 1994 avesse richiamato anche l’art. 29 della legge n. 47 del 1985 (ciò che non è avvenuto), la tesi dell’appellante poteva essere presa in considerazione solo qualora una legge regionale avesse dato attuazione alla possibilità consentita dalla norma statale (mentre nel corso del giudizio non è stata richiamata alcuna legge regionale che – dopo l’entrata in vigore della legge n. 724 del 1994 - abbia consentito l’esercizio dei poteri previsti dall’art. 29).

10.2. In secondo luogo, va confermata la statuizione del TAR, secondo cui comunque l’art. 29 aveva attribuito un potere latamente discrezionale all’amministrazione comunale, in ordine alla valutazione ‘soprattutto sul se avvalersi’ della possibilità di disporre il recupero degli insediamenti abusivi.

In assenza di formali provvedimenti espressivi di un tale potere discrezionale, le autorità competenti all’esame delle istanze di condono non potevano che provvedere, valutando la sussistenza o meno dei relativi presupposti.

10.3. In terzo luogo, dall’art. 39, comma 8, della legge n. 724 del 1994 si desume che – per le opere abusive realizzate su aree sottoposte a vincolo paesaggistico o archeologico (di cui alle leggi n. 1089 e 1497 del 1939 e alla legge n. 431 del 1985) – per il rilascio del provvedimento di condono è stata prevista la necessità della previa autorizzazione delle autorità «preposte alla tutela del vincolo», sicché anche sotto tale profilo il parere negativo della Soprintendenza statale ha precluso l’emanazione di atti diversi da quello della doverosa reiezione della istanza di condono.

Per di più, come ha correttamente rilevato la sentenza impugnata, lo stesso art. 29 della legge n. 47 del 1985 – pur prevedendo la possibilità sopra esposta – aveva sancito la necessità di «rispettare gli interessi di carattere storico, artistico, archeologico, paesistico, ambientale, idrogeologico», con conseguente preclusione di realizzare un recupero contrastante con i valori fondamentali riferibili alla tutela del patrimonio archeologico.

11. Col terzo motivo, è stata lamentata la presenza di vari errori in iudicando e la violazione delle disposizioni succedutesi nel tempo in tema di vincoli archeologici (gli artt. 20 e 21 della legge n. 1089 del 1939; l’art. 49 del t.u. n. 490 del 1999 e l’art. 45 del codice n. 42 del 2004).

L’appellante ha dedotto che il TAR avrebbe erroneamente dichiarato la tardività della impugnazione – avvenuta con i motivi aggiunti - del decreto di data 24 settembre 1947, con cui il Ministero della pubblica istruzione ha imposto sull’area in questione il vincolo di in edificabilità assoluto.

Ad avviso dell’appellante, le censure non sarebbero tardive, poiché:

- «gli atti regolamentari non sono immediatamente impugnabili»;

- l’interesse ad ottenere l’annullamento del decreto impositivo del vincolo sarebbe sorto unicamente a seguito delle determinazioni negative sulla istanza di condono e comunque a seguito dell’atto del 3 marzo 2005, con cui la Soprintendenza ha respinto la richiesta di riesame del parere negativo di data 30 maggio 2000.

Oltre a censurare la statuizione del TAR sulla tardività delle censure rivolte contro il decreto ministeriale del 24 settembre 1947, l’interessata ha riproposto le censure complessivamente formulate contro il medesimo decreto e contro l’atto della Soprintendenza del 3 marzo 2005, deducendo che:

- la Soprintendenza avrebbe dovuto accogliere l’istanza volta alla modifica del vincolo a suo tempo imposto, per la sua ‘esorbitanza’, per l’errata percezione della realtà ‘al momento della imposizione’ e per l’ampia ‘trasformazione edilizia dei luoghi, ad iniziativa dei privati e della mano pubblica’;

- sarebbero contraddittorie le osservazioni sul fatto che l’ex lago di Licola sia stato bonificato nel 1922, prima della imposizione del vincolo, e che i terreni furono dapprima assegnati come aree agricole all’ex Opera nazionale combattenti, poiché l’esigenza di proteggere i terreni attigui al lago, con il vincolo di in edificabilità, non era più esistente;

- sarebbe ‘abnorme’ - e anche non indicata con precisione - l’estensione del vincolo, per circa 450 ettari ed un decimo del territorio del Comune di Pozzuoli, anche perché il decreto ministeriale intendeva individuare l’Acropoli dell’antica Cuma come obiettivo di tutela;

- sarebbero incomprensibili le ragioni per le quali è stata individuata – anche con violazione del principio di proporzionalità - una così vasta zona di rispetto, indicando ‘pedissequamente’ una serie di particelle, poste anche a distanza notevole dalla medesima Acropoli;

- sarebbe ‘stereotipata’ la motivazione posta a base del decreto ministeriale, sulla necessità di tutelare «la prospettiva e la luce» del complesso monumentale e di non alterare «le condizioni di ambiente e di decoro» non più esistente all’epoca di imposizione del vincolo, anche perché non si sarebbe tenuto conto degli interessi coinvolti;

- anche l’atto del 3 marzo 2005 sarebbe motivato apoditticamente, perché non si potrebbe considerare sufficiente il richiamo alle esigenze di tutela poste a base del decreto ministeriale del 24 settembre 1947;

- in altre occasioni, la Soprintendenza avrebbe autorizzato deroghe per la sanatoria di edifici realizzati nella zona, tanto da far poter ritenere un ‘mero arbitrio’ l’atto del 3 marzo 2005.

12. Ritiene la Sezione che le censure così riassunte siano tutte infondate e vadano respinte.

12.1. Va innanzitutto confermata la tardività della impugnazione – avvenuta con i motivi aggiunti - del decreto di data 24 settembre 1947, con cui il Ministero della pubblica istruzione ha imposto sull’area in questione il vincolo di inedificabilità.

12.1.1. Contrariamente a quanto è stato dedotto dall’appellante, l’atto che impone un vincolo (archeologico, artistico, storico, ecc.) non può essere assimilato ad un atto di natura regolamentare: con esso non sono introdotte norme giuridiche, ma si rende applicabile la disciplina prevista dalla legge ai beni che ne costituiscono l’oggetto.

L’atto che impone un tale vincolo è immediatamente lesivo ed impugnabile, anche quando si tratta di un atto che conforma una pluralità di beni.

Quando l’atto di imposizione del vincolo è divenuto inoppugnabile (per la mancata tempestiva impugnazione del soggetto legittimato), la sua legittimità non può essere posta in contestazione, in occasione della impugnazione di provvedimenti ulteriori, basati sulla esistenza del vincolo.

Tale principio rileva sia quando tali provvedimenti siano emessi nei confronti di coloro che risultavano già proprietari al momento della imposizione del vincolo, sia quando siano emessi nei confronti dei loro aventi causa sulla base di atti inter vivos o mortis causa.

Infatti, l’acquisto del bene da parte del subacquirente comporta il suo ingresso nella situazione giuridica nella quale si trovava il dante causa, ivi comprese le preclusioni di carattere processuale, derivanti dalla mancata impugnazione di atti rimasti inoppugnati (o che siano stati impugnati, con ricorsi non accolti).

Nella specie, il decreto del 24 settembre 1947 risulta notificato in data 14 dicembre 1947 all’Opera nazionale combattenti.

Pertanto, anche nei confronti dell’appellante rileva l’inoppugnabilità del decreto ministeriale del 1947, che non è venuta meno per il fatto che esso sia stato posto a base di successivi atti.

12.1.2. La tardività della impugnazione del decreto del 24 settembre 1947, nel presente giudizio, dipende anche dalle seguenti ulteriori circostanze:

a) già con l’originario parere del 30 maggio 2000 (a suo tempo conosciuto dalla interessata ed impugnato col ricorso di cui è stata dichiarata dal TAR la perenzione) si dava atto della imposizione del vincolo di inedificabilità, disposto con il decreto ministeriale del 24 settembre 1947;

b) anche col ricorso principale, a p. 1 si dava atto della imposizione del vincolo, di cui si è contestato in sostanza il rilievo, manifestandone dunque la conoscenza.

Ciò comporta che – anche a voler seguire le deduzioni sulla possibilità di contestare il vincolo imposto nel 1947 (ciò che comunque non si può sostenere, per le ragioni esposte al § 12.1.1.) – anche per tali ragioni risulta tardiva la loro impugnazione, disposta con i motivi aggiunti.

12.2. Le censure sono comunque anche infondate nel merito.

Dall’esame della documentazione acquisita emerge che:

- il decreto ministeriale del 24 settembre 1947 ha inteso tutelare – per il suo notevolissimo valore di «complesso archeologico monumentale di eccezionale importanza» – l’area circostante l’Acropoli della vecchia Cuma, con un «vincolo indiretto»;

- del tutto ragionevolmente, con chiarezza e con adeguata motivazione, il medesimo decreto ha inteso così salvaguardare l’integrità del complesso monumentale, con l’apposizione del vincolo su un’area analiticamente determinata, con l’indicazione delle particelle e dei relativi complessivi confini.

La legge n. 1089 del 1939 (così come poi il testo unico n. 490 del 1999 ed il codice n. 42 del 2004) ha attribuito all’Amministrazione il potere di vietare l’edificabilità anche di un’area estesa, per salvaguardare il decoro, la visibilità e il peculiare contesto ambientale nel quale si trova il bene archeologico da tutelare: la valutazione sulla sussistenza delle esigenze di salvaguardare un complesso monumentale rientra nell’ambito dei suoi poteri tecnico-discrezionali (Cons. Stato, Sez. IV, 13 marzo 1979, n. 199) ed è insindacabile in quanto tale, circa la determinazione dei terreni circostanti, da considerare come parte integrante e funzionale del complesso (Sez. VI, 23 maggio 2006, n. 3078; Sez. IV, 11 luglio 1969, n. 368).

Quando si tratti di un’area archeologica situata in cacumine elati montis (sia essa un castrum ovvero un’acropoli di epoca greco-romana), e da tale sommità siano dominati i terreni circostanti, ben può l’Amministrazione statale sottoporre a vincolo indiretto tali terreni (e, se del caso, l’antico sistema viario), per salvaguardare e lasciare inalterate quelle caratteristiche dei luoghi sui quali l’area archeologica si erge nella sua possenza.

Con riferimento al caso di specie, l’Amministrazione statale ha ben potuto dunque salvaguardare la visione non solo ‘dal basso’ della Acropoli di Cuma, ma anche quella ‘dall’alto’, dalla Acropoli sui luoghi circostanti, per consentire anche alle future generazioni di comprendere quale sia stata l’importanza dei luoghi in questione (la cui conservazione pressoché integrale, fino all’epoca degli abusi commessi, è dipesa anche dalle peculiarità della sua storia).

In altri termini, per salvaguardare «le condizioni di ambiente e di decoro» del sito archeologico, e come bene emerge dall’atto del 24 settembre 1947, l’Amministrazione a suo tempo ha ben potuto disporre il vincolo di inedificabilità, in connessione anche al cono visivo riferibile al punto più alto, per un’area sì estesa, ma giustificata proprio dalla peculiarità del bene da proteggere.

Dal momento che il decreto in questione ha mirato alla salvaguardia della Acropoli, risultano irrilevanti i richiami che hanno riguardato la precedente bonifica del lago di Licola.

Peraltro, proprio l’effettuazione dei lavori di bonifica, che hanno reso materialmente possibile l’antropizzazione dei luoghi, è stata ragionevolmente richiamata per ulteriormente evidenziare come l’imposizione del vincolo risultava viepiù opportuna per evitare lo stravolgimento dei luoghi.

Neppure risulta fondata la censura di difetto di motivazione per mancata valutazione degli interessi coinvolti.

A parte la sopra evidenziata diffusa motivazione sulla sussistenza di specifici e rilevantissime esigenze sotto il profilo archeologico, a suo tempo i beni in questione non risultavano di proprietà privata e avevano la univoca vocazione agricola: il fatto che poi siano stati alienati a privati, che abbiano ivi realizzato costruzioni abusive, non può retrospettivamente far ritenere inadeguata la motivazione dell’atto.

Quanto alla prospettata disparità di trattamento, per le ‘deroghe’ che sarebbero state in precedenza consentite, osserva la Sezione che la relativa deduzione – rivolta evidentemente avverso le determinazioni della Soprintendenza - risulta generica, perché non sono stati indicati specificamente i relativi casi, e comunque è anche infondata, poiché, nell’esercizio dei propri poteri tecnico-discrezionali, l’autorità preposta alla tutela del vincolo deve tenere conto delle peculiarità degli specifichi luoghi rispetto ai quali esercita i suoi poteri.

Anche se l’area risulta degradata, e anzi proprio perché l’area risulta degradata, è del tutto ragionevole un esercizio rigoroso dei poteri tecnico-discrezionali, volti a rimuovere gli abusi (e aventi anche l’obiettiva funzione, sia pure non esplicitata, di evitare che altri – stimolati dalla sanatoria degli abusi altrui – siano indotti a loro volta a violare la legge).

Neppure è configurabile una contraddittorietà con la dedotta realizzazione di opere pubbliche, poiché nessun confronto plausibile può essere effettuato tra la realizzazione abusiva di opere private e la realizzazione di opere pubbliche, avvenuta all’esito dei relativi procedimenti.

13. Col quarto motivo (connesso ad un profilo del terzo motivo, secondo cui la Soprintendenza – in un ottica di favor per la sanatoria - avrebbe dovuto diversamente valutare la richiesta di riesame, perché le opere abusive sarebbero state realizzate senza conoscere il vincolo), l’appellante ha dedotto che il decreto ministeriale del 24 settembre 1947 non sarebbe stato trascritto e che dunque il vincolo non si dovrebbe considerare sussistente, non essendosi perfezionata la fattispecie prevista dall’art. 21 della legge n. 1089 del 1939.

14. La censura va respinta.

La sentenza impugnata ha dato atto della «produzione (incontestata) della nota di trascrizione presso la Conservatoria delle ipoteche – Ufficio di Napoli (cfr. fascicolo Avv.ra)».

Si tratta di una statuizione, concernente la sussistenza di una circostanza di fatto, che non è stata oggetto di specifica contestazione neanche in questa sede, a parte la generica affermazione che la trascrizione non vi sarebbe stata.

Peraltro, dalla documentazione risulta che:

- il Ministero della pubblica istruzione ha chiesto la trascrizione dell’atto, con la nota prot. 1796 del settembre 1952;

- il Conservatore delle Ipoteche, Ufficio di Napoli, ha dato atto della trascrizione, avvenuta in data 9 settembre 1952, con l’atto n. 24188 del registro generale e n. 15528 del registro particolare.

15. Col quinto motivo, è lamentato che il provvedimento di ‘riesame negativo’ della Soprintendenza – n. 6570 del 3 marzo 2005 - sarebbe illegittimo, perché – in violazione dell’art. 10 bis della legge n. 241 del 1990, nel frattempo entrato in vigore – la Soprintendenza non avrebbe comunicato preventivamente le ragioni di rigetto della istanza.

L’appellante ha richiamato molteplici precedenti giurisprudenziali, riguardanti la ratio dell’art. 10 bis e il suo ambito di applicazione.

Ritiene la Sezione che anche tale censura è infondata, per le seguenti considerazioni.

15.1. In primo luogo, l’atto del 3 marzo 2005 va considerato meramente confermativo del precedente parere del 30 maggio 2000.

Infatti, la Soprintendenza – con una nota sostanzialmente ‘di cortesia’, che ha anche in sintesi evidenziato quali siano stati in passato i passaggi di proprietà - ancora una volta ha dato atto dell’esistenza del vincolo disposto dal decreto ministeriale del 24 settembre 1947, negando la possibilità di esercitare una discrezionalità contrastante con le esigenze di tutela poste a sua base, ribadendo il contenuto del precedente parere negativo e considerando ‘illecita’ una sanatoria che avrebbe consentito il mantenimento delle ‘alterazioni ambientali’.

Il precedente parere – come prima evidenziato - era stato impugnato con un ricorso innanzi al TAR, dichiarato poi perento.

A p. 4 e a p. 6, la sentenza impugnata ha qualificato il primo parere negativo come inoppugnabile e

atto confermativo ed ha ritenuto preclusa «ogni ulteriore contestazione» su di esso.

Tale statuizione (pur non avendo colto la natura di atto infraprocedimentale del parere, di per sé dunque non impugnabile se non unitamente all’atto conclusivo del procedimento) non è stata impugnata in questa sede, sicché risultano precluse le censure rivolte contro l’atto confermato (così ritenuto inoppugnabile dal TAR) e quelle rivolte contro l’atto meramente confermativo.

15.2. Peraltro, le censure proposte contro l’atto della Soprintendenza del 3 marzo 2005 non risultano fondate e vanno respinte.

L’art. 10 bis della legge n. 241 del 1990 si applica ai procedimenti che l’Amministrazione intenda concludere con un provvedimento che ‘per la prima volta’ rappresenta al richiedente una o più ragioni impeditive dell’accoglimento della sua istanza.

La sua ratio è quella di evitare ‘provvedimenti a sorpresa’, cioè che prospettino questioni di fatto o di diritto prima ignote al richiedente, o comunque da lui non percepibili: il contraddittorio da instaurare consente di valutare già in sede amministrativa le argomentazioni dell’interessato sul se vi siano effettivamente ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza e agevola la deflazione dei ricorsi giurisdizionali, poiché può avvenire o che l’Amministrazione condivida le osservazioni o che l’interessato si convinca della adeguatezza della valutazione dell’Amministrazione e che non proponga dunque ricorso.

L’art. 10 bis non si applica invece quando sia proposta una istanza di riesame, volta alla rinnovazione dell’esercizio del potere, e non prospetti alcuna sopravvenienza.

In tal caso, infatti, si chiede all’Amministrazione di effettuare una ulteriore valutazione della situazione di fatto e di diritto già in precedenza valutata e non vi sono profili che potrebbero comportare una ‘motivazione a sorpresa’.

Quando l’istanza di riesame è respinta con un atto meramente confermativo o solo di conferma del precedente atto, sulla base di una motivazione incentrata sulla immodificabilità della precedente valutazione, non occorre dunque una ulteriore interlocuzione procedimentale con l’interessato: l’Amministrazione, così come in linea di principio non ha l’obbligo di prendere in considerazione l’istanza di riesame, così non ha l’obbligo di inviare la comunicazione prevista dall’art. 10 bis, se intende respingerla perché ritiene immodificabile la precedente valutazione.

16. Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto.

La condanna al pagamento delle spese e degli onorari segue la soccombenza. Di essa è fatta liquidazione nel dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) respinge l’appello n. 5240 del 2010.

Condanna l’appellante al pagamento di euro 5.000 (cinquemila) in favore delle appellate Amministrazioni statali, per spese ed onorari del secondo grado del giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, presso la sede del Consiglio di Stato, Palazzo Spada, nella camera di consiglio del giorno 11 maggio 2017, con l'intervento dei magistrati:

Luigi Maruotti, Presidente, Estensore

Vincenzo Lopilato, Consigliere

Francesco Mele, Consigliere

Dario Simeoli, Consigliere

Italo Volpe, Consigliere

 
 
IL PRESIDENTE, ESTENSORE
Luigi Maruotti
 
 
 
 
 

IL SEGRETARIO